Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 02 Martedì calendario

LE SANZIONI, IL CROLLO DEL PETROLIO E IL DEPREZZAMENTO DEL RUBLO HANNO MESSO PUTIN CON LE SPALLE AL MURO. ORA MINACCIA DI CHIUDERE IL SOUTH STREAM, MA L’ENI, CHE HA IN TASCA UN CONTRATTO DI 2,4 MILIARDI DI DOLLARI PER LA COSTRUZIONE DEL TRATTO SOTTOMARINO, POTREBBE USCIRNE FUORI INDENNE

Che cosa accadrà ora che sul «gasdotto della discordia» (tra la Russia e l’Occidente) cala il sipario?
Curioso intanto: chi è al lavoro è spesso l’ultimo a sapere. Proprio ieri, poche ore prima dello sfogo di Putin, la nave posatubi della Saipem Castoro Sei levava gli ormeggi dal porto bulgaro di Burgas per dirigersi verso Anapa, costa russa del Mar Nero e punto di partenza (ormai virtuale) del progetto. La società italiana (43% Eni) ha in tasca un contratto di 2,4 miliardi di dollari per la costruzione del tratto sottomarino del South Stream, la «corrente del Sud». In qualche modo la sua posizione è sicura: se l’opera dovesse saltare scatteranno le protezioni contemplate dal diritto commerciale internazionale. Altrettanto sicura è l’Eni, che possiede il 20% della società che ha affidato l’incarico di costruire il tratto offshore (la russa Gazprom ha il 50%, la francese Edf e la tedesca Basf il 15% ciascuno) e che da tempo ha ridimensionato il suo impegno a non più di 600 milioni di euro. Il gruppo di Claudio Descalzi dal 2012 può avvalersi di un paio di clausole che gli consentono di vendere le sue azioni a Gazprom e di abbandonare senza danni la partita. Entrambe si stanno verificando: a causa delle sanzioni Ue-Usa agli istituti russe il progetto non si sta finanziando con il credito bancario (almeno per il 70% secondo gli accordi); e neppure risulta in regola con le norme Ue, che prevedono che chi produce gas (Gazprom) non può anche trasportarlo. Proprio a quest’ultimo ostacolo si è richiamato il presidente russo nel suo riferimento alle pressioni Ue sulla Bulgaria.
L’Eni, insomma, potrebbe lasciare il South Stream senza colpo ferire, e senza che gli altri suoi contratti di fornitura di gas russo siano toccati. Il Cane a sei zampe non ha commentato, ma non si può escludere che l’ultima trasferta a Sochi di Descalzi, lo scorso 24 novembre, sia stata l’occasione per un definitivo chiarimento con il capo di Gazprom, Alexei Miller.
È ovvio, tuttavia, che l’affaire South Stream ha dei risvolti strategici di più ampio respiro rispetto a quelli relativi al coinvolgimento italiano. A prima vista si potrebbe dire che al di là degli strali verso l’Ue sia proprio l’effetto delle sanzioni finanziarie (e tecnologiche) occidentali a spingere il presidente russo alla cancellazione del progetto, il cui costo è lievitato negli anni fino a 23,5 miliardi di euro. Una cifra non indifferente per chi, come la Russia, ha visto ridursi da giugno il prezzo del barile del 40% (gli introiti da greggio coprono metà del budget statale) e il rublo deprezzarsi di un terzo da inizio anno. E così, dopo che il colosso del petrolio Rosneft ha dovuto rinunciare alle prospezioni nell’Artico con la texana Exxon, ora sarebbe il turno di Gazprom tirare la cinghia. Una serie di elementi che contribuirebbero a comporre uno scenario di crescente difficoltà dell’orso russo, messo sempre di più con le spalle al muro.
Ma altre letture della situazione vanno verso una diversa direzione. In fondo, si dice, con il gasdotto sotto il Mar Nero che aggira l’Ucraina, da una parte Mosca si sarebbe liberata dal «ricatto» di Kiev sulle sue forniture di gas all’Europa, ma dall’altra si sarebbe privata di un’importante leva strategica. A pensarci bene, si aggiunge, l’accordo sul gas da 4,6 miliardi di dollari raggiunto lo scorso ottobre con l’Ucraina e l’Unione Europea offre a Mosca prospettive più interessanti nel breve e nel medio-lungo termine.
La Russia si vede infatti saldare i crediti del passato e le forniture di gas del futuro. E la fattura, in ultima istanza, sarà pagata dall’Unione Europea e dal Fondo monetario internazionale, che su questo terreno si sono apertamente impegnate con Kiev. Mosca, insomma, pur restando senza South Stream non si priverebbe della possibilità di controllare le forniture energetiche all’Ucraina. Di più: continuerebbe a inchiodare la stessa Unione Europea alle attuali linee di rifornimento, visto che l’Ucraina ricava ogni anno circa 3 miliardi di dollari dalle tariffe di transito del gas sul suo territorio. Fondi vitali per Kiev, e che l’Ue metterebbe a rischio spingendo troppo a fondo sul pedale della diversificazione.
Aprendo alla Turchia, infine, Putin non solo inserisce un potente cuneo nelle relazioni tra Ankara e l’Occidente. Ma si candida a riempire (anche) del suo gas il «corridoio Sud» su cui l’Europa fa affidamento per affrancarsi dai «soliti» fornitori.