Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 01 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Lukas Thommen, L’ambiente nel mondo antico, Il Mulino 2014, pp. 192, 15 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2323705Vedi Biblioteca in scheda: mancaGli interventi più evidenti praticati dai Greci sulla natura consistono nelle opere di disboscamento, nelle attività estrattive e nella tattica, ripetutamente applicata in guerra, di distruggere la terra coltivata del nemico e di privarlo così, almeno temporaneamente, delle sue fonti di sostentamento

Notizie tratte da: Lukas Thommen, L’ambiente nel mondo antico, Il Mulino 2014, pp. 192, 15 euro.

Vedi Libro in gocce in scheda: 2323705
Vedi Biblioteca in scheda: manca

Gli interventi più evidenti praticati dai Greci sulla natura consistono nelle opere di disboscamento, nelle attività estrattive e nella tattica, ripetutamente applicata in guerra, di distruggere la terra coltivata del nemico e di privarlo così, almeno temporaneamente, delle sue fonti di sostentamento. Benché si sia affermata presto la consapevolezza che il disboscamento provocava l’erosione dei terreni e quindi la rapida perdita di terreni coltivati e di pascoli, non ne derivò, a quanto pare, alcuna critica di principio alla deforestazione. Anzi, il disboscamento fu inteso prima di tutto come un progresso della civiltà.

Il concetto di ecologia deriva dal greco, ma non esiste ancora nell’antichità. Oikos è la casa e la sua gestione; oikonomia/economia indicava teoria e leggi della gestione della casa, da cui è derivata la scienza economica moderna. La parola composta oikologia deriva dalla combinazione di oikos e logos (razionalità, intelletto). Il concetto moderno di ecologia indica «la scienza delle interdipendenze reciproche tra uomo e ambiente, con i loro aspetti fisici, sociali, culturali, economici e politici».

Le società antiche erano legate all’attività agricola e dipendevano dall’energia naturale. Petrolio, carbone e lignite erano noti, ma si estraevano con difficoltà e non avevano nessun ruolo nel rifornimento energetico. Come combustibile furono utilizzati fondamentalmente legna, carbone e, per le lampade, olio d’oliva: in generale, le energie rinnovabili erano in primo piano. Nello sfruttamento del legname, delle risorse minerarie e dei terreni si registrò un parziale esaurimento di risorse. Esso però, a differenza che nella società moderna, non fu interpretato come un campanello d’allarme.

La Grecia antica comprendeva la parte meridionale della penisola balcanica e il Peloponneso, numerose isole dell’Egeo e le più lontane isole di Creta e Cipro. Città greche sorsero agli inizi del I millennio a.C. anche sulle coste dell’Asia Minore (attuale Turchia). Infine, dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., nel corso della colonizzazione, furono fondati insediamenti greci sulle coste del mar Mediterraneo e in parte anche sul mar Nero. Questa diffusa urbanizzazione rappresentò, nel suo complesso, il cambiamento più significativo e gravido di conseguenze nel paesaggio del mondo antico.

Da quando il re macedone Alessandro Magno, giunto all’Indo nel 326 a.C., nel corso della sua spedizione in Asia, accertò che la fine del mondo abitato non era visibile, fu messa in dubbio anche l’effettiva possibilità di dominare tutta la terra (sebbene in seguito sia stata ripetutamente perseguita dai Romani).

Caratteristica dello spazio greco è quella forma di comunità e di organizzazione statale che noi definiamo polis (città-stato). Polis significa originariamente «rocca» e si riferisce poi anche all’insediamento che la rocca difende. Polis significa contemporaneamente sia città sia città-stato (comunità dei cittadini): una comunità che si riunisce, con il suo territorio (chora), intorno a un centro cittadino, che si amministra autonomamente e protegge la proprietà terriera dei suoi membri. La polis nasce tra il IX e l’VIII secolo a.C.; le prime testimonianze letterarie provengono da Omero ed Esiodo e risalgono circa al 700 a.C. La pianificazione dell’insediamento avviene attorno a un punto centrale: l’agorà, luogo di riunione e piazza del mercato, con gli edifici pubblici.

Le colonie greche erano definite apoikiai, insediamenti all’estero, dove i coloni si costruivano una nuova esistenza.

I sovrani tenevano sotto il loro controllo non solo la politica, l’esercito e l’amministrazione, ma disponevano anche di enormi possedimenti terrieri nei loro vasti stati. Dai propri sudditi e affittuari esigevano tasse e imposte in natura, il che comportò, complessivamente, uno sfruttamento più intensivo del suolo. Nella chora egiziana e siriana meridionale soldati tolemaici ottennero in concessione terre che affittarono durante le campagne militari e che in seguito poterono addirittura alienare.

Nel mondo antico il livello del mare era circa 1,5-2 metri più basso di oggi e già si innalzava gradualmente a causa dello scioglimento dei ghiacci e delle calotte polari.

Il rapporto dei Greci con la natura sembra essere stato fondamentalmente ambiguo. Da una parte vi era il lato amichevole della natura, del quale facevano parte le benevole ninfe dei boschi, le fonti e i prati, e la vita agreste piacevole e spensierata. Dall’altra, in natura imperavano forze sinistre: foreste oscure, acque impetuose, mari in tempesta e bestie selvatiche che suscitavano paura e terrore. Potenze divine e demoni, che vi imperavano, dovevano essere placati con pratiche rituali.

Il rispetto religioso per l’ambiente si manifestava anche nel culto delle divinità della fertilità (Demetra/Cerere) e nelle feste previste dal calendario con offerte di ringraziamento e di preghiera. Anche elementi climatici come venti, piogge e siccità ricevevano offerte rituali, per garantire un buon raccolto.

Nello scritto Sulle arie, le acque e i luoghi, attribuito al medico Ippocrate di Cos (ca. 460-370 a.C.), si stabilisce un nesso tra la condizione dell’uomo e l’ambiente in cui vive: malattia e salute sono dipendenti dall’habitat. «In Asia vi erano un clima mite e uniforme e una ricca vegetazione, che avrebbero generato uomini dall’aspetto quasi effeminato e poco adatti al combattimento. L’Europa, invece, aveva un clima rigido e mutevole, dal quale sarebbero nati uomini operosi e adatti alla guerra».

La teoria della decadenza parte dal mito dell’età dell’oro, in cui la natura dona una vita paradisiaca, ma che in seguito diventa sempre più difficile, nella misura in cui l’uomo interviene in modo sacrilego sulla natura: questa teoria corrisponde all’antica concezione orientale delle quattro età di progressiva decadenza, dall’età dell’oro a quella dell’argento fino a quella del ferro, particolarmente gravata dalle fatiche.

Il filosofo Eraclito di Efeso (ca. 545480 a.C.) afferma: «La sapienza consiste nel dire il vero e nell’agire secondo natura, prestandole ascolto».

L’agricoltura costituisce la base dell’economia antica e serve innanzitutto per l’autosostentamento. Anche i benestanti hanno un’immagine di sé non come imprenditori e commercianti, ma come contadini e proprietari terrieri.

I prodotti più importanti sono cereali, uva e olive, e inoltre legumi (fave, lenticchie, piselli) e frutta (pere, mele, fichi); accanto all’agricoltura vi sono l’allevamento degli animali (bovini, ovini e soprattutto caprini), la pesca e la caccia (cinghiali, cervi, ecc.). Si utilizza prevalentemente il sistema di rotazione biennale, che lascia incolta di volta in volta una metà del terreno, in combinazione con la destinazione a pascolo pubblico.

I 2.000 Ateniesi più ricchi possedevano da un quarto a un terzo della terra coltivata: quasi la metà del territorio agricolo era in possesso o sotto il controllo del 10% della popolazione.

I boschi fornivano, già nell’antica Grecia, energia e materiale da costruzione. L’Attica conobbe nel VII/VI secolo a.C. una crescita della popolazione che ebbe come conseguenza un intenso disboscamento delle montagne circostanti dell’Egaleo e dell’Imetto. Anche le più lontane montagne del Parnete, del Citerone e del Pentelico furono sfruttate come fonte di legname. Nella sua commedia Gli Acarnesi, il commediografo Aristofane (ca. 445-386 a.C.) mette in scena come membri del coro carbonai di Acarne, riferendosi al commercio del carbone di legna proveniente dall’area del monte Parnaso e ottenuto da querce, aceri e faggi.

Abete, pino silvestre e cedro, come si dice generalmente, sono materiali per costruzioni navali. Il legno d’abete, in virtù della sua leggerezza, è usato per costruire le triremi e le navi lunghe (navi da guerra), mentre il legno di pino silvestre, in virtù della sua resistenza, le navi mercantili; alcuni se ne servono però anche per le triremi, non avendo a disposizione legno d’abete. Coloro che vivono in Siria e Fenicia costruiscono navi con legno di cedro: non hanno, infatti, a disposizione pino silvestre. Quelli che abitano a Cipro utilizzano il pino marittimo (pitys): l’isola ne produce e sembra essere di qualità migliore rispetto al pino silvestre (peuke).

In epoca tardo-classica ed ellenistica vennero allestiti ad Atene i nuovi giardini dei filosofi, che arricchirono la città e i sobborghi grazie a spazi verdi concepiti architettonicamente. Tra questi rientrano l’Accademia di Platone, il Liceo di Aristotele, il Kepos di Epicuro (termine che potrebbe essere tradotto proprio con «giardino»). Questi «giardini didattici» erano in mano ai privati e potevano essere utilizzati in combinazione con preesistenti impianti pubblici per l’educazione filosofica e sportiva. Essi costituivano un insieme formato da parco, santuario, impianto sportivo e disponevano di edifici analoghi a quelli di ginnasi e palestre (cortili per praticare la lotta), sale per allenamento, sentieri per passeggiare, statue e boschetti sacri.

Nel mondo antico gli animali costituivano una parte essenziale della catena alimentare: offrivano nutrimento (bovini, capre, maiali, cervi, pecore, pollame, uccelli, pesci), ma anche materie prime come lana, pelle e pelliccia, o servivano come mezzi di trasporto, in particolare in guerra (cavalli, muli, buoi, elefanti, cammelli). Gli animali erano anche accompagnatori, servi e custodi degli uomini, e nello stesso tempo strumenti di intrattenimento e oggetti di prestigio per spettacoli e battute di caccia. Infine servivano come offerte sacrificali agli dei, la cui volontà era indagata attraverso l’osservazione del volo degli uccelli (gli auspici dei Romani) e attraverso l’esame delle viscere.

Nella Grecia arcaica, la quantità di bestiame posseduta era, in origine, più determinante della proprietà terriera come indicatore di ricchezza. La maggiore importanza economica la ebbe il bue, come animale da lavoro e come fornitore di carne e di cuoio. Le pecore, allevate in gran numero, fornivano latte e lana. Accanto ai cereali, la carne di pecore, capre e maiali costituiva la base della dieta.

Nel Vicino Oriente molte divinità erano adorate sotto forma di animali. Gli dei erano spesso rappresentati con corpo umano e testa di animale: la statua seduta della dea Sachmet («la più potente») di Menfi aveva testa di leone, a esprimere la sua natura incontrollabile e la sua imprevedibilità. In questo contesto gli animali fungevano da mediatori tra gli uomini e gli dei. Tra uomo e animale vi era un legame, dal momento che entrambi hanno origine dal medesimo dio creatore, unico signore degli esseri viventi. Gli animali morti erano trattati come i defunti umani; essi, come Osiride, assumono una natura divina, dando origine a una protezione religiosa.

In Grecia gli dei avevano un aspetto antropomorfo; tuttavia abbiamo Pan dalle zampe d’ariete o Tritone, il figlio di Poseidone, con corpo di serpente o di cavallo. Gli animali fungevano da attributi delle divinità: l’aquila era associata a Zeus, la civetta ad Atena, l’ariete a Ermes, i cani e i serpenti ad Asclepio. Gli animali erano «sostituti», che mediavano la potenza divina. Artemide era considerata come signora e protettrice degli animali (potnia theron) e della caccia. Nei miti geci gli dei tramutano se stessi o gli uomini in animali: Zeus diviene un cigno o un toro; Atteone è tramutato da Afrodite in un cervo ed è divorato dai suoi cani.

Animali come il leone, il cinghiale, il toro, il lupo, così come le api e gli uccelli, compaiono già dai tempi di Omero nelle similitudini e sono presenti dal VI secolo a.C. nelle favole (soprattutto in quelle di Esopo) con le caratteristiche umane loro attribuite: l’asino recalcitrante, la volpe furba, la lepre paurosa, il cane fedele e audace, il leone coraggioso, la pecora sciocca, il serpente insidioso, il maiale sporco, il lupo pericoloso. Essi costituiscono il parametro del comportamento umano e dell’orientamento etico.

La zoologia come scienza del mondo animale fu fondata da Aristotele nel IV secolo a.C.. Egli menziona oltre 550 specie di animali, distinguendo gli animali a sangue caldo e quelli a sangue freddo. Gli animali sono senza ragione (logos) e incapaci di fedeltà, il che rende impossibile la parità nella relazione con loro. Aristotele sostiene la superiorità dell’uomo sull’animale, che diventa un oggetto di sfruttamento. Gli stoici introdussero nel III secolo a.C. una sorta di diritto naturale, in base al quale l’animale è di semplice indole istintiva e si caratterizza per un comportamento a essa conforme. Gli animali sono irrazionali e creati per l’uomo che, in virtù del proprio logos, possiede il diritto di disporne.

Il riguardo nei confronti degli animali e il vegetarianismo risalgono all’epoca dei pitagorici. L’allievo di Aristotele Teofrasto, nel IV secolo a.C., raccomanda la protezione degli animali per ragioni etiche e critica i sacrifici cruenti.

In Grecia il pasto comune degli uomini ha una lunga tradizione e si inserisce anche in un contesto rituale. Le donne, al contrario di quanto avviene a Roma, ne sono escluse. Il cibo (deipnon) ha un carattere rituale preliminare, mentre il bere assieme (symposion), che segue immediatamente, ha un ruolo centrale.

Prima di un simposio gli anfitrioni hanno l’abitudine di scrivere i nomi dei partecipanti, con la data e l’orario, su tavolette di cera, che vengono poi portate agli ospiti da uno schiavo. L’inizio della festa è fissato all’ora nona; il numero dei partecipanti ammonta a circa nove ospiti. Le donne sono escluse, mentre sono ammesse le etere per l’intrattenimento. Tuttavia è in vigore uno speciale canone etico, che viene fatto rispettare da chi presiede il simposio (symposiarchos), spesso scelto tra gli ospiti con il sorteggio; esso comprende norme relative alla miscelatura del vino, alla grandezza dei boccali, alle modalità dell’intrattenimento ecc. Il simposio comincia dopo che la tavola è stata sparecchiata. All’inizio si distribuiscono tralci di fiori, si fa un’offerta di vino (libagione), si canta un inno agli dei, poi si da inizio al bere e viene portato il vino. Occasionalmente, si offrono infine piccole pietanze o dolci: prodotti da forno, miele, noci, formaggio, frutta.

Gli orfici credevano alla trasmigrazione delle anime (metempsicosi), secondo la quale l’anima passa da una forma di vita a un’altra; nel frattempo essa si trova nell’Ade e deve inserirsi in un ciclo di reincarnazioni, per raggiungere la liberazione definitiva dal corpo umano. A questo scopo è necessaria l’osservanza di norme ascetiche, come la rinuncia alla carne e il divieto di assumere fave. Il motivo del divieto stava nel fatto che la fava era equiparata alla carne, anch’essa vietata: poiché i pitagorici ritenevano la fava un simbolo della carne e del sangue, l’osservanza del tabù alimentare era indispensabile in vista della reincarnazione.

Anche il pesce era considerato come un essere ambiguo e fortemente contraddittorio. A causa della sua connotazione negativa, fu talora considerato con ribrezzo e oggetto di un divieto alimentare. Vi era il pericolo che certi pesci potessero mangiare anche gli uomini. Il pesce proveniva dal mare, visto come un mondo diverso e minaccioso che poteva rivoltarsi contro l’uomo. Il mare veniva inoltre considerato come povero, poiché la ricchezza veniva dalla terra e dall’agricoltura. Il pescatore era il classico esempio di chi conduce una vita misera: egli non solo non godeva dei tradizionali alimenti provenienti dalla coltivazione, ma doveva cacciare e raccogliere, e un chilo di pesce conteneva solo due terzi delle calorie di un chilo di cereali.

Il fuoco differenzia gli uomini dalle bestie, poiché queste ultime, essendo senza fuoco, devono mangiare carne cruda. Esso crea inoltre il contatto con gli dei, di cui gli uomini però devono, al contempo, riconoscere la superiorità.

Il focolare domestico costituiva un centro e un luogo di culto per la famiglia; era, al contempo, un altare con un fuoco di carbone di legna, sul quale era offerto un sacrificio prima di ogni pasto. Oltre a questo, vi era anche un focolare pubblico nel palazzo consiliare della città (pritaneo).

L’acqua non era solo un elemento primigenio, ma costituiva anche il presupposto di ogni vita. Poiché nell’Europa meridionale, anche nei tempi antichi, vi era una cronica carenza d’acqua, si dovette già presto raccoglierla e farla affluire artificialmente. L’acqua convogliata da lontano e l’acqua piovana erano raccolte sia in cisterne private sia in più grandi cisterne pubbliche. Nelle città greche si possono trovare, già in epoca arcaica, canali di acqua pura e canali di acqua di scarico. Nella seconda metà del VI secolo a.C. Samo costruisce nel territorio cittadino una conduttura lunga due chilometri, che passa attraverso un tunnel di un chilometro di lunghezza (Tunnel di Eupalino).

L’area del Mediterraneo è situata lungo la fascia mediterraneo-transasiatica e presenta generalmente un’elevata sismicità. A causa di spostamenti e fratture tettonici, già nell’antichità fu colpita frequentemente da terremoti. Perciò si verificarono sia terremoti dovuti a crolli, a causa del cedimento di grotte sotterranee, sia scosse vulcaniche e tettoniche; fra i terremoti erano annoverati anche alluvioni e tsunami. Per spiegarli si invocavano ora il volere degli dei, ora processi naturali, sulla base delle scoperte della filosofia naturale ionica. Da un punto di vista mitologico, fu Poseidone a essere ritenuto in prima linea responsabile dei terremoti e definito «scuotitore della terra» (Ennosigaios).

La società antica aveva un elevato fabbisogno non solo di legna, ma anche di pietra e argilla per l’edilizia, nonché di metalli, che erano utilizzati per i più diversi usi nella produzione artigianale e artistica. Argilla e pietra erano prelevate dalla superficie della terra; le cave si trovavano di norma in prossimità delle città, come le celeberrime cave di marmo sul monte Pentelico vicino ad Atene, nelle isole Cicladi (Paro e Nasso) e nel Peloponneso. Al contrario, oro, argento, stagno, rame, piombo e ferro venivano estratti in diversi luoghi attraverso scavi minerari. A causa della scarsezza di risorse e degli elevati costi di fornitura, diversi materiali e prodotti erano spesso riutilizzati.

All’inizio del V secolo a.C. si cominciarono a scavare miniere e si realizzarono ben 2.000 pozzi fino a una profondità di 50 metri e con cunicoli laterali lunghi fino a 40 metri. Si costruirono poi vasche per il lavaggio dei metalli e forni per la fusione, che inquinarono notevolmente aria e acqua. L’aria era inquinata da biossido di zolfo ed esalazioni di piombo e comportava enormi rischi per la salute, come sterilità o danni genetici, neuropatie e anemia. I lavoratori, reclutati prevalentemente tra gli schiavi, ammontavano talora a un numero compreso tra le 10.000 e le 30.000 persone, ed erano costantemente esposti a rischi di crollo e di interramento.

Nel complesso, l’attività estrattiva, con i suoi effetti collaterali inquinanti, rappresentò uno degli interventi sul paesaggio più gravidi di conseguenze, anche se in una misura che può apparire piuttosto limitata in rapporto alla superficie totale.

L’impero di Roma ha origine nella capitale, dove nell’VIII-VII secolo a.C. numerosi piccoli insediamenti su un gruppo di colli si unirono per costituire un unico centro cittadino e gradualmente annessero il territorio circostante del Lazio. Roma si trova al centro dell’Italia, sul corso inferiore del Tevere, a circa 25 chilometri dalla costa. Essa costituì un nodo di transito sulla via del Sale (via Salaria) tra la costa e l’entroterra sabino e una testa di ponte per i collegamenti Nord-Sud, dall’Etruria alla Campania. Di conseguenza, presto si sviluppò un centro commerciale sul Tevere: il mercato del bestiame (Foro Boario), dove fra l’altro sono venuti alla luce anche cocci di vasi greci risalenti all’VIII secolo a.C. Fu creato inoltre il Foro romano, un luogo centrale di incontro per la cittadinanza in via di formazione; si estendeva ai piedi del Campidoglio, su cui si trovava il principale tempio cittadino, dedicato a Giove.

Intorno al 400 a.C. la vicina città etrusca di Veio fu conquistata e incorporata nel territorio romano: iniziò così un costante aumento dell’area controllata da Roma. Ciò permise di sfruttare in modo crescente sia le risorse provenienti dal boscoso Appennino, sia i fertili terreni agricoli e i pascoli dell’Italia settentrionale e meridionale. Nel 270 a.C. l’intera Italia a sud del Po era legata a Roma.

Diversamente da quanto accadde in Grecia, in Italia già in epoca arcaica gli Etruschi disponevano di strade urbane e di collegamento. Le strade servivano all’esercito per la marcia e per la consegna dei rifornimenti, ai mercanti e ai commercianti per il trasporto delle merci e all’amministrazione imperiale per la comunicazione per mezzo di messaggeri.

I Romani consideravano alberi, foreste e prodotti della terra come doni degli dei, ma erano in grado anche di addomesticare la natura e di sfruttarla. Il fatto di riuscire a domare la terra attraverso la bonifica, la divisione in lotti e la costruzione di strade veniva celebrato come una vittoria sulla natura selvaggia.

«La distruzione delle risorse naturali ha portato alla rovina il genere umano». (Plinio il Vecchio)

I Romani vedevano se stessi come un popolo di agricoltori ed erano orgogliosi della propria origine contadina. L’agricoltura non solo rappresentava una base per la sopravvivenza, ma era anche un punto di partenza per conseguire la ricchezza, che si manifestava prevalentemente nel possesso della terra.

L’agricoltura in Italia era varia; predominava l’agricoltura con rotazione biennale delle colture. A un anno di coltivazione seguiva un anno di maggese, che poteva essere utilizzato come pascolo per il bestiame. Sembra che diversi tipi di cereali e verdure fossero piantati ad anni alterni. L’impiego del concime (letame, composta o cenere) rese possibile uno sfruttamento regolare, che consentiva di evitare il maggese.

L’agricoltura serviva innanzitutto alle esigenze personali del contadino, che inoltre viveva della vendita dei prodotti nelle città vicine o anche di esportazione. La coltura della vite era la più redditizia. Le olive rendevano altrettanto bene e richiedevano un impegno di lavoro inferiore rispetto alla coltivazione dei cereali. Inoltre si coltivavano frutta e verdure, in parte si praticava l’apicoltura e si sfruttavano i boschi; il bosco poteva essere utilizzato anche per l’allevamento dei maiali. Quanto al bestiame c’erano prevalentemente pecore, pollame, bovini e capre.

Verso la fine del III secolo a.C. nasce a Roma l’istituzione del patrocinium: gli agricoltori si rivolgevano a influenti funzionari o proprietari terrieri, che li proteggevano dagli esattori fiscali e per questo incassavano imposte in denaro o in natura.

L’orto era la più antica tipologia di giardino romano. Il giardino era chiamato la «seconda dispensa» del contadino. Esso forniva un contributo significativo all’alimentazione e rappresentò un complemento per l’agricoltura, che forniva i cereali come alimento di base. Nei giardini (anche in città) erano prodotti vino e olio, che a loro volta servivano come alimenti base. Agli alberi da frutto, vigneti e ulivi; alle mele e alle pere si aggiungono le ciliegie, che nel 74 a.C. vennero importate dal mar Nero, come le albicocche dall’Armenia e le pesche dalla Persia. Di grande importanza erano inoltre i fichi, che venivano coltivati in molte varietà.

Diverse volte imperatori e imperatrici romani acquisirono giardini privati e vi costruirono edifici per il pubblico intrattenimento, come terme o anche la Naumachia, un bacino acquatico costruito per la rappresentazione di battaglie navali sulla riva destra del Tevere.

Per i Romani l’allevamento degli animali era di fondamentale importanza economica e sociale. Venne intensificato e si diffuse per l’intero dominio romano, cosicché anche a nord delle Alpi fecero il loro ingresso nuovi animali domestici: asini, muli, pavoni, fagiani, gatti. Inoltre si allevarono bovini da lavoro più produttivi e cavalli più grossi, e allo stesso tempo si intensificò l’allevamento del pollame. Ma contemporaneamente, nelle aree geografiche di nuova conquista, si conservarono anche le razze originarie più adatte, soprattutto maiali, pecore, capre, bovini e oche.

Il fenomeno degli spettacoli pubblici con animali e delle battute di caccia era molto diffuso a Roma e in tutto il suo Impero. I Romani da una parte amavano assistere all’esibizione di animali in gabbie, recinti e durante i trionfi. Dall’altra, nel contesto di giochi circensi e lotte di gladiatori, venne introdotta come forma di divertimento la caccia agli animali (venationes, munera). Dall’inizio del II secolo a.C. si affermò la caccia di animali selvatici ed esotici, la varietà dei quali si ampliava continuamente: leoni, tigri, pantere, leopardi, giraffe, elefanti, rinoceronti, ippopotami, coccodrilli, serpenti, orsi ecc. Sanguinosi combattimenti tra animali costarono la vita a una moltitudine di animali esotici, minacciando di estinzione diverse specie.

L’imperatore Gordiano III (238-244 d.C.), manteneva un recinto per gli animali a Roma presso la Porta Praenestina, l’odierna Porta Maggiore, con 32 elefanti, 10 alci, 10 tigri, 60 leoni, 30 leopardi, 10 iene, 6 ippopotami, un rinoceronte, 10 leoni (bianchi o selvatici), 10 giraffe, 20 asini selvatici e 20 cavalli selvatici, che poi furono sacrificati durante i giochi per il millenario di Roma nel 248 d.C.

I neopitagorici si volsero contro l’antropocentrismo e si fecero sostenitori della tutela degli animali e del vegetarianismo. Per Plutarco (ca. 45-ante 125 d.C.) gli animali erano per natura più dotati dell’uomo quanto a virtù e moderazione; inoltre possedevano intelligenza e ragione naturali; si diceva che l’alimentazione a base di carne fosse nociva, per impedire insensati massacri per il suo consumo.

I Romani conoscevano sia colazione sia pranzo e cena (ientaculum, prandium, cena): i primi due erano considerati pasti secondari ed erano prevalentemente costituiti di pietanze fredde. Alla mattina si consumavano acqua, pane e formaggio, talora anche uova, olive, capperi o latte e miele; anche il pranzo poteva limitarsi a un pezzo di pane con formaggio oppure a carne fredda, salsicce, verdura e frutta, con cui si bevevano, come bevanda principale, acqua o vino. Solo in alcune province (Egitto, Spagna e Gallia) era preferita la birra, più economica e malvista a Roma. Il pasto principale era la cena serale, che per la classe superiore a volte era molto abbondante e prevedeva scambi di inviti.

I benestanti disponevano nella propria casa di una stanza, il triclinium, in cui uomini e donne mangiavano sdraiati, i bambini seduti; l’ordine sui tre triclini posti in leggero dislivello, sui quali trovavano posto tre persone, era graduato gerarchicamente; il personale domestico serviva il cibo.

Una cena completa comprendeva tre portate. L’antipasto (gustatio), solitamente servito freddo, consisteva di insalate, verdure crude, uova e pesce o crostacei. La portata principale includeva piatti di verdure cotte e carne. Il dessert (secunda mensa) comprendeva dolci e frutta. Un banchetto (convivium) poteva durare 8-10 ore, cioè fino all’alba del giorno successivo, accompagnato da molti intrattenimenti, come musica, danza e giochi.

Il trasporto di prodotti alimentari, in particolare salsa di pesce (garum) dalla Spagna, salumi dalle Gallie, spezie dall’Oriente, limoni e melograni dall’Africa, datteri dalle oasi, prugne da Damasco, ostriche dal mare del Nord, poteva avere un impatto molto dannoso sull’ambiente, almeno a livello locale. Vino, salsa di pesce e olio erano trasportati in anfore, che si ammassavano sul Tevere, a sud di Roma, formando un’enorme montagna di cocci, l’odierno monte Testaccio.

Tipico alimento dei poveri erano pane nero d’orzo grossolanamente macinato o purea di cereali (puls) ottenuta con acqua, olio e orzo; il grano, con il quale era prodotto anche pane bianco, era di migliore qualità e più costoso. Inoltre venivano consumate frutta e verdura (cavolo, aglio, cipolle, rape), legumi (fave, lenticchie, piselli, in parte arricchiti con grasso di maiale), formaggio (moretum: formaggio con le erbe), uova, pesce conservato, più raramente carne, perché di norma troppo costosa.

Intorno al 400 d.C. viene composta, sotto il nome di Apicio, una raccolta di ricette (De re coquinaria), che, a differenza di quelle moderne, comprendeva solo rudimentali informazioni sulle dosi.

Una differenza fondamentale rispetto al cibo nel tempo moderno consiste nella mancanza di zucchero e nello scarso uso di sale, che era ottenuto principalmente dal mare e veniva utilizzato come conservante. Al loro posto si usavano miele e salsa di pesce (garum). Inoltre non c’erano né patate né pomodori o mais, e poco riso.

Il fuoco aveva a Roma un valore religioso e fu, di conseguenza, oggetto di culto. In onore del dio del fuoco, Vulcano, ogni anno ad agosto era celebrata la festa dei Vulcanali. Le caratteristiche della dea greca del focolare, Estia, sono incarnate a Roma dalla dea latina del fuoco, Vesta, che era la dea del focolare pubblico. A lei era consacrato un tempio di forma circolare nel Foro romano, centro della vita comunitaria. Lì si trovava un focolare con un fuoco perpetuo, che le sacerdotesse vergini, le Vestali, dovevano custodire. Le sei vergini Vestali godevano di grandi onori e privilegi, perché incarnavano la purezza e rendevano possibile l’espiazione. Dal momento che erano vergini e la loro inviolabilità simboleggiava la conservazione della fecondità, erano importanti per i riti intesi a favorire abbondanza e fertilità. Il loro imperativo supremo era, accanto alla verginità, la conservazione del fuoco perpetuo, come espressione della società. In caso di spegnimento del fuoco, era prevista per le vestali la fustigazione.

Il pericolo di incendi nella capitale era dovuto principalmente al legno, che costituiva ancora il materiale da costruzione più comune per le case più semplici. Bisogna inoltre cogliere un aspetto razionale e politico del fuoco, dal momento che esso poteva servire anche come strumento di dominio. Soprattutto verso la fine della repubblica vi furono diversi terribili incendi.

L’incendio più famoso di Roma scoppia nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C. e dura nove giorni. L’imperatore Nerone (54-68 d.C.), che si trovava ad Anzio, corse a Roma e diede avvio alle operazioni di soccorso; tuttavia si diffuse la voce che lui stesso avesse ordinato l’incendio. La colpa venne successivamente attribuita ai cristiani, che erano odiati dalla maggior parte del popolo e che incorsero in pene severe. L’incendio risparmiò solo quattro quartieri su quattordici, tre furono completamente distrutti, di sette rimasero solo pochi resti di case. Le macerie furono eliminate gettandole nelle paludi presso Ostia. Il numero delle vittime rimane sconosciuto, anche se bisogna supporre ammontasse a qualche migliaio di morti.

Tra i problemi logistici della grande città c’erano l’approvvigionamento idrico e lo smaltimento delle acque di scarico. Roma ebbe già relativamente presto un buon approvvigionamento idrico, che comportava anche un certo standard igienico. A questo proposito, i Romani si ricollegavano alle conquiste che già si erano osservate presso i Greci. Dopo essere stata attinta dal Tevere e dai pozzi, l’acqua potabile, dalla fine del IV secolo a.C., era portata da condutture sempre più lunghe ed estese. In età repubblicana sorsero quattro acquedotti: l’Aqua Appia (312 a.C.), l’Anio Vetus (272 a.C.), l’Aqua Marcia (144-140 a.C.) e l’Aqua Tepula (126 a.C.), che prendevano l’acqua dalla valle dell’Aniene, o dai colli Albani nel caso dell’Aqua Tepula. L’acqua entrava nell’area urbana sulle zone elevate dei colli che circondavano Roma e da qui era distribuita dai castelli idrici ai quartieri collocati più in basso, attraverso condutture d’argilla e di piombo.

Già nel VI secolo a.C. a Roma viene drenato il Foro e viene costruita la Cloaca Massima, un grande collettore che defluisce nel Tevere.

Nell’11 a.C. venne istituita anche una cura aquarum: tre uomini benemeriti di ceto senatorio (consoli o ex consoli) furono insediati a tempo indeterminato dall’imperatore come curatores aquarum per l’approvvigionamento idrico e vennero dotati di 700 dipendenti. Il loro compito comprendeva la conservazione delle strutture e la supervisione del personale, concessioni di licenze per allacciamenti privati e la composizione giudiziaria di controversie e infrazioni.

Il sistema di tubature sotto Frontino aveva una lunghezza complessiva di 423 chilometri e comprendeva 247 cisterne e 591 bacini idrici aperti; un sesto dell’acqua spettava all’imperatore, un terzo ai privati, il resto alla collettività.

Per quanto riguarda tubature e acque correnti, i residenti nelle vicinanze erano obbligati a far sì che l’acqua restasse, in quanto bene pubblico, a disposizione di tutti, specialmente per la navigazione e la pesca in appalto. In linea di massima erano vietati interventi che provocassero la deviazione dell’acqua di un fiume pubblico dal corso dell’estate precedente. La contaminazione delle acque attraverso acqua di scarico, al contrario, non veniva impedita.

Una minaccia per gli uomini fu costituita dal piombo, che attraverso le tubature metalliche poteva inquinare l’acqua potabile. I tubi di piombo utilizzati come condutture erano diffusi negli insediamenti in tutto l’impero romano e avevano vantaggi economici rispetto ai tubi d’argilla. Gli effetti nocivi dei tubi di piombo furono riconosciuti precocemente, ma non furono mai presi in considerazione sistematicamente. Non si trattava solo di assicurare le comodità di cui beneficiavano soprattutto le classi superiori, in qualità di consumatori di lusso. Bisogna notare che spesso i tubi di piombo erano rivestiti all’interno di uno strato di calce, in modo che il metallo non potesse, di norma, arrivare nell’acqua potabile.

L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. nella regione del golfo di Napoli seppellì le ville romane di Oplontis, Boscoreale e Stabia e le due città di Pompei ed Ercolano nel pieno delle loro attività quotidiane e le conservò per i posteri con ricche informazioni. Inoltre si tratta della prima eruzione vulcanica della storia per cui esista una dettagliata testimonianza oculare, vale a dire le due lettere di Plinio il Giovane allo storico Tacito, messe tuttavia per iscritto soltanto ca. 30 anni più tardi. Insieme con precedenti menzioni del Vesuvio e con successive interpretazioni della catastrofe, esse forniscono però indizi utili per capire come furono considerati il vulcano e la sua eruzione. L’eruzione del Vesuvio cominciò nella tarda mattinata del 24 agosto del 79 d.C. Approssimativamente 2.000 abitanti, che vollero cercare rifugio nelle loro case e cantine, trovarono la morte. In una seconda fase, il 25 agosto, la città fu sepolta da una pioggia di cenere e lapilli, che formarono uno strato alto fino a 6,5 metri.

La regione del golfo di Napoli era già da lungo tempo intensamente popolata, poiché il suolo vulcanico era fertile e tutta l’area, dal punto di vista paesaggistico, era particolarmente ricca di attrattive. Secondo il racconto di Strabone si riteneva che il Vesuvio fosse spento, e dunque non era ritenuto pericoloso e neppure considerato propriamente un vulcano. L’ultima eruzione si era verificata secoli prima.

Dal biografo Svetonio sappiamo che l’imperatore Tito (79-81 d.C.) dopo l’eruzione, con premura patronale, inviò una commissione di soccorso composta da senatori di alto rango, ex consoli (curatores restituendae Campaniae). Questi utilizzarono i beni di coloro che erano morti nel corso dell’eruzione del Vesuvio per la ricostruzione delle città distrutte.

La letteratura profetica ebraica degli oracoli sibillini, subito dopo la catastrofe del Vesuvio, ne addossò la responsabilità a Tito, a causa della distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. La catastrofe sarebbe stata la vendetta divina per i suoi crimini contro il popolo ebraico.

Per l’equipaggiamento di una legione romana erano necessarie all’incirca 38 tonnellate di ferro; inoltre nel II secolo a.C. erano già in circolazione ca. 125 tonnellate di monete d’argento, una quantità che presto fu più che decuplicata.

Secondo una stima moderna, nell’impero romano venivano tagliati annualmente circa 5.400 ettari di foreste.

Roma alla fine della repubblica era diventata una grande città e contava già allora quasi un milione di abitanti. I quartieri residenziali dei ricchi si trovavano sul colle Palatino, che dai tempi di Tiberio (14-37 d.C.) ospitava anche il palazzo imperiale, sull’Esquilino, sul Celio e sul Viminale; la gente comune viveva sull’Aventino e nella zona degradata della Subura, dove risiedevano anche molti artigiani. La casa privata dei cittadini ricchi era la domus, che si distingueva per una architettura spaziosa con uno standard elevato di arredamento e che, nel caso ideale, era dotata di stanza da bagno, gabinetto ad acqua e riscaldamento. Accanto a questa c’era la più modesta insula, il condominio per i ceti medi e bassi. Per ogni domus a Roma c’erano ca. 26 insulae.

Gli affari immobiliari andavano a scapito degli spazi abitativi e della loro qualità. Cattive strutture edilizie e materiali da costruzione a basso costo, tra cui molto legno ai piani superiori, portavano con sé numerosi pericoli. Le case erano spesso fatiscenti, esposte al pericolo di incendio e di crollo; gli spazi ristretti non lasciavano possibilità di fuga. I casermoni erano spesso sovraffollati, senza acqua corrente, servizi igienici e cucina. Nei locali non ventilati e non riscaldati c’era, diversamente che nelle case private, un ambiente malsano. Come riscaldamento dovevano essere usati i bracieri a carbone, che diffondevano il relativo fumo. L’acqua doveva essere principalmente procurata da pozzi, perché solo singoli appartamenti al piano terra avevano un allacciamento.

Le ricche case private erano dotate di un sistema fognario e le sostanze fecali erano frequentemente raccolte in fosse o in botti. Latrine si trovavano spesso in cucina e accoglievano ogni tipo di rifiuti. L’urina veniva raccolta dai follatori, che potevano servirsene per la lavorazione del cuoio. Solo chi poteva permetterselo frequentava un bagno pubblico, il cui numero in età imperiale era giunto a 14468.

Una compensazione per i disservizi nei quartieri fu offerta, a partire dalla fine del I secolo d.C., dalle terme pubbliche. Esse servirono sia per l’igiene sia per l’intrattenimento, ma richiedevano molta legna da ardere e diffondevano quindi fumo.

«Il fastidio del traffico carrabile era talmente grande che già al tempo di Cesare si adottò, all’interno della cerchia urbana, un divieto di circolazione per le vetture durante il giorno, con l’eccezione dei mezzi per la raccolta dei rifiuti e dei veicoli per l’edilizia».

Anche se non c’erano motori a combustione interna, alla fin fine l’aria della capitale era cattiva. Sporcizia nelle strade, cloache, vapori di putrefazione e fumo ne determinavano la cattiva qualità. Le cremazioni negli spazi cimiteriali (ustrina) davanti alla città diffondevano ulteriori cattivi odori. Già Orazio menzionava nel I secolo a.C. denso fumo (fumus) sulla città e anche Seneca cercava di fuggire l’aria opprimente di Roma. Anche se nel mondo antico la trasmissione delle malattie era principalmente ricondotta all’aria contaminata (miasma), non si ha notizia di sforzi per migliorare la qualità dell’aria.

Per sfuggire al rumore e all’aria inquinata di Roma e trovare ristoro nei dintorni, le classi superiori amavano molto lasciare la città almeno temporaneamente. Parallelamente all’inurbamento si sviluppò la nostalgia della campagna, nel tentativo di sfuggire ai fastidi della grande città. Una lussuosa villa nell’ameno paesaggio intorno alla città (villa suburbana) divenne un bene di lusso ineguagliabile per il ricco ceto superiore. I giardini delle ville erano considerati come un miglioramento della natura e dimostravano che essa non era incontrollabile ed erano ornati con fontane, piscine, grotte, padiglioni e sculture, separati dall’azienda agricola.

Il dibattito sulla sostenibilità (Nachhaltigkeit) è più orientato al futuro che al passato. Questa parola viene usata per la prima volta nel 1713 ed entra nell’uso linguistico corrente intorno al 1800. Nell’edizione tedesca del rapporto dell’ONU della commissione Brundtland del 1987 viene usata come traduzione di sustainability. In questo rapporto della commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo sul «nostro comune futuro», la definizione è la seguente: «è sostenibile uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni».