Paolo Giordano, Corriere della Sera - La Lettura 30/11/2014, 30 novembre 2014
NON CHIAMATEMI GENIO
Fabiola Gianotti è stata nominata direttore del Cern. Da gennaio 2016 si troverà a gestire un budget comparabile al prodotto interno lordo di un piccolo Stato, 2.500 dipendenti e più di 10 mila collaboratori di 100 nazionalità diverse. Sua era la voce che nell’estate del 2012 annunciò al mondo la prima evidenza sperimentale del bosone di Higgs dopo una caccia durata più di trent’anni, «Time» le ha dedicato una copertina in cui appare di profilo come in un ritratto di Piero della Francesca e «Forbes» l’ha inserita nelle sue bizzarre classifiche di potere.
Tutto ciò potrebbe dare l’idea di una donna che ormai viva spanne sopra la schiera degli scienziati comuni, come forse avverrebbe in qualunque altro ambito. Ma la fisica è un’eccezione quasi costante alla convenzionalità. E Fabiola Gianotti continua a parlare da rappresentante, non da capo. Ci diamo appuntamento su Skype, troppi gli impegni per organizzare un incontro di persona. Gianotti mi concede il privilegio di considerarmi un collega (seppure ex) e quindi di darci del tu, secondo la prassi trasversale che vige tra i fisici delle particelle a prescindere dai ruoli.
Sottolinea subito come il Cern, oltre a essere un’impresa scientifica monumentale, costituisca «un’avventura umana, dove i giovani crescono tolleranti, aperti». Quando le domando chi siano stati i suoi maestri, ne sceglie soltanto di «indiretti», personalità che l’hanno attirata dentro la fisica «come dentro a una specifica atmosfera intellettuale»: Marie Curie, che l’affascinava già da adolescente, Enrico Fermi, Luciano Maiani e poi Carlo Rubbia, che diresse il Cern per parecchi anni e vinse il Nobel mentre Gianotti era all’università. «Ho sempre ammirato il genio, ma io non sono un genio né mi considero tale. Ho un approccio alla fisica di grande modestia. So di avere dei limiti e so che la nostra conoscenza ne ha, perciò mi accosto alla ricerca con l’umiltà di chi riconosce i passi fatti, ma sa che ce ne sono innumerevoli ancora da fare. Insomma, riconosco il genio di certi fisici e al tempo stesso sono felice di essere un fisico normale».
Di certo, però, è cosciente della responsabilità che l’aspetta, perché risponde alle domande in modo cauto, quasi circospetto, non solo — ho l’impressione — per delicatezza diplomatica, ma perché non si dimentica che gli argomenti di cui parla sono difficili, mai veramente addomesticati, e richiedono il massimo grado di precisione linguistica. Mi racconta del presente e del futuro prossimo del Large Hadron Collider, il mastodontico acceleratore interrato sotto il confine tra Francia e Svizzera: «Negli ultimi due anni Lhc è stato fermato per apportare delle migliorie e per essere in grado, dal prossimo anno, di raggiungere un’energia di 13 TeV, prossima a quella di progetto». Dopo il lungo sonno, la linfa tornerà a scorrere nelle vene del bestione supertecnologico e inizierà una nuova fase di raccolta dati.
Ma il climax , se doveva essercene uno, è passato: il bosone di Higgs era proprio là dove lo si aspettava. I festeggiamenti dei fisici al momento dell’annuncio mascheravano anche un’inquietudine: e se non ci fosse null’altro di interessante ad attenderci alle scale di energia raggiungibili dall’acceleratore? Finora, ciò che Lhc e i suoi precursori hanno fatto è stato confermare senza sosta l’impalcatura teorica che regola la fisica delle particelle dagli anni Settanta, il Modello Standard. Il bosone di Higgs era l’ultima risonanza mancante all’appello. Tutto ciò che Modello Standard non è viene chiamato genericamente «Nuova Fisica», ma per ora non ve n’è traccia nelle collisioni di Lhc. Secondo alcuni, la Nuova Fisica potrebbe manifestarsi a energie così alte da essere irraggiungibili per gli acceleratori e noi ci troveremmo, quindi, a scrutare l’orizzonte dal limite di un deserto sconfinato.
Gianotti respinge con forza il mio scenario pessimistico: «È troppo presto per gettare la spugna. E, comunque, la spugna non la getteremo mai. Intanto il bosone di Higgs è molto leggero, compatibile con un Higgs supersimmetrico (la supersimmetria è il candidato favorito della Nuova Fisica, ndr ). E ci sono molte questioni ancora irrisolte: la composizione della materia oscura, le masse e le famiglie dei fermioni, l’asimmetria materia-antimateria..., domande che nascono da osservazioni sperimentali. Non sappiamo se le risposte siano accessibili alle energie di Lhc o se la Nuova Fisica si trovi in effetti a scale più alte. Per questo è importante utilizzare tutti i metodi di indagine a nostra disposizione, approcci che vanno dai collisori — storicamente quelli che ci hanno regalato i successi più grandi — agli esperimenti sotto terra (come quelli del Gran Sasso, ndr ), dai rivelatori sulle sonde spaziali ai test di precisione. Il fisico dev’essere paziente. La ricerca non si fa in fretta». Nel difendere il futuro degli acceleratori di particelle è quasi inarrestabile: «Lo sviluppo di tecnologie per macchine come Lhc, nel frattempo, continuerà ad avere un impatto importante sulla vita di tutti i giorni, com’è avvenuto per i magneti superconduttori, grazie ai quali oggi disponiamo delle risonanze magnetiche in ospedale», e lo stesso vale per internet, per la radioterapia...
La distraggo, domandandole del suo ruolo come unico membro italiano del Scientific Advisory Board voluto da Ban Ki-moon. «Lo scopo del Board è consigliare il segretario generale delle Nazioni Unite su come utilizzare al meglio la scienza per la risoluzione di problemi planetari e sociali, seguendo modelli di sviluppo sostenibili. E fare in modo che le decisioni politiche che vengono prese siano basate su risultati scientifici». Ride, forse perché vede ridere me sullo schermo del computer, ma immediatamente torna seria: «Ciò che è stato messo a fuoco nella prima riunione, a gennaio scorso (la prossima sarà fra poche settimane), è l’importanza della ricerca fondamentale. Gli investimenti nel privato sono focalizzati soprattutto sulla ricerca applicata, perché mirano a risultati in tempi brevi. E anche i governi sono spesso orientati verso progetti compatibili con la durata dei cicli politici. Ma la ricerca di base ha bisogno di tempo. Senza la meccanica quantistica non esisterebbero i transistor, senza la relatività generale il Gps della nostra auto ci porterebbe continuamente fuori strada. Meccanica quantistica e relatività generale sono intuizioni teoriche dell’inizio del secolo scorso, ma transistor e Gps sono arrivati decenni più tardi».
Fabiola Gianotti viene dal liceo classico e ha studiato a lungo il pianoforte. Per sottolineare come la fantomatica «doppia natura» esista ancora e in perfetto equilibrio dentro di lei, sceglie una similitudine propria della fisica subnucleare: «Il lavoro in fisica non ha “rotto la simmetria”. L’anima artistica sopravvive. La musica è sempre dentro di me. Non mi resta molto tempo per suonare, purtroppo, ma è dentro di me». In questo periodo ascolta soprattutto Schubert («mi trasporta in un’altra dimensione»), legge i saggi di Ennio Flaiano e l’ultimo film che ha amato al cinema è Torneranno i prati di Ermanno Olmi.
Di rottura di simmetria con l’Italia, poi, neppure vuole sentire parlare. Le domando se l’appropriazione dei suoi successi che avviene nel nostro Paese, l’essere considerata un lustrino non la infastidisca, se tutto ciò non sia fuori luogo, considerato che opera da decenni in un contesto extraterritoriale. «Io sono andata al Cern come post-doc, ma ho studiato in Italia, lì mi sono laureata e lì ho preso il dottorato di ricerca. È l’Italia che mi ha formato. Abbiamo una grande tradizione in fisica delle particelle. Negli anni, anche come responsabile dell’esperimento Atlas, ho visto passare centinaia di giovani e gli italiani sono fra i migliori».
I dati Ocse, nei quali tanta eccellenza è diluita, ci danno però in caduta libera nell’apprendimento della matematica e delle scienze, almeno a livello di scuola dell’obbligo... Gianotti ha qualche proposta al riguardo? «Non bisognerebbe affidarsi soltanto alla teoria e ai libri di testo, ma mostrare magari anche dei piccoli esperimenti. Se un bambino di dieci anni dice “io odio la matematica”, c’è qualcosa di sbagliato non in lui, ma nell’insegnante».
Può darsi allora che lo stesso principio valga per dare conto del disinteresse generale verso le scienze: il problema non è del pubblico, ma di chi propone. Il Cern ha goduto di un’attenzione inusuale negli ultimi anni, ma era un’attenzione tutta fondata sull’enormità dell’impresa o sul fatto — irritante per la gran parte dei fisici — che il bosone di Higgs venisse chiamato «la particella di Dio». «Bisogna tenere conto che noi fisici, noi scienziati, abbiamo imparato solo di recente a comunicare ciò che facciamo. Trent’anni fa non ero ancora attiva, ma la scienza era raccontata poco. Ora si tenta di raggiungere tutti, fortunatamente, non solo perché enti come il Cern sono finanziati dalla collettività, ma perché il sapere scientifico è un bene comune. Il problema è che spesso ciò che i media cercano è il sensazionale. Quando Lhc partì, nel 2008, si parlava soprattutto della possibilità ridicola che mini buchi neri potessero inghiottirci. Dovremmo cominciare a trasmettere anche l’aspetto più lento, costante, faticoso e metodico della scienza, che è fatta di molte sconfitte, di errori e di tanta normalità».
Le chiedo di immaginare a chi passerebbe il testimone, se questa serie di interviste a personalità significative dell’anno trascorso funzionasse come una staffetta. Prende tempo, poi dice: «Al presidente Napolitano. Per la sua apertura mentale, per la sua analisi lucida dei problemi e per la continuità che cerca di dare al nostro Paese. Noi italiani dobbiamo tenercelo stretto». E per quanto riguarda il Natale ormai prossimo? «Oh, sarò in famiglia. Vita normale», garantisce. «Vita normale».