Aldo Grasso, Corriere della Sera - La Lettura 30/11/2014, 30 novembre 2014
IL CONTENUTO È IL MEZZO: ECCO LA SOCIAL TV
Ma che cos’è questa social tv di cui tanto si parla? Fin dalla nascita, la tv non è sempre stata social? La tv non è nata già come istituzione collettiva, per la sua specificità di medium generalista che tende a sincronizzare i ritmi di una comunità? È così, ma la social tv è cosa assai diversa.
Da un po’ di tempo, per esempio, accanto all’Auditel, il tradizionale sistema di rilevamento degli ascolti tv, esiste una classifica chiamata da Nielsen «Twitter Tv Ratings»: una graduatoria in grado di fornire i dati relativi ai tweet inviati dagli spettatori di tutti i programmi televisivi trasmessi nel nostro Paese durante la settimana. Oltre al conteggio dei singoli tweet generati, l’innovazione sta nel fatto che viene conteggiato il numero degli autori e dei lettori di tweet.
La social tv è il commento costante a quanto va in onda sul piccolo schermo, è un legame che passa per i social network, Facebook e Twitter in testa. Si parla anche di second screen , l’altra faccia della medaglia, l’uso di smart- phone, tablet, pc e altri strumenti come supporto costante durante la visione televisiva, per informarsi, partecipare, commentare o anche per fare altro: guardare uno schermo con il conforto di un altro schermo, specchio contro specchio. Ci sono alcuni generi, come i talent, i talk show o gli eventi sportivi, che si prestano meglio di altri alla discussione «in diretta», ma ormai il fenomeno si sta estendendo anche alla fiction, genere che, almeno in teoria, dovrebbe essere più immersivo. Social tv significa dunque l’interazione fra tv e web 2.0.
La social tv influenza il modo di fare e di vedere la tv? In un’intervista, Stefano Russo di Nielsen ha dichiarato: «La social tv sta già cambiando le carte in tavola, più che nella realizzazione dei palinsesti proprio nel modo di costruire il singolo programma. La rivoluzione può verificarsi nell’ambito della vendita degli spazi pubblicitari, con le aziende che avrebbero la percezione esatta di quante persone partecipano attivamente a un determinato programma e sarebbero, di conseguenza, in grado di indirizzare al meglio le loro campagne mediatiche». Storicamente, Auditel ha cambiato il modo di fare tv ed è presumibile, dunque, che anche i nuovi sistemi di rilevamento lo cambino. Tuttavia, se Twitter è lo strumento più visibile, non dobbiamo dimenticare che Facebook ha una base di utenti (e quindi una capacità di generare discorso, spesso privato) molto maggiore. Così come va tenuto a mente che, per la social tv , l’equivalente non è tanto il pubblico televisivo nel suo complesso, quanto le chattering classes , le fasce di opinion leader o aspiranti tali, non sempre e non molto rappresentative.
Questo fenomeno si capisce meglio se inserito all’interno di un’analisi di periodo più lungo, che tenga conto dei grandi cambiamenti tecnologici e culturali (digitalizzazione, convergenza, abbondanza) che si sono verificati nel sistema televisivo e mediale contemporaneo: la social tv e il second screen sono così fenomeni che a pieno titolo rientrano in quella che, in un libro del CeRTA, è stata chiamata «Televisione convergente» (Link Ricerca, 2010).
Tutto nasce dal fatto che i testi televisivi tendono a espandersi fuori dal piccolo schermo. Se un tempo il guru Marshall McLuhan ha scritto che «il medium è il messaggio», ad indicare la centralità e la rilevanza sociale dei moderni mezzi di comunicazione di massa, oggi potremmo quasi invertire i termini e affermare che «il contenuto è il mezzo». L’attuale trasformazione dei media ruota attorno a un presupposto cruciale: il contenuto si sta affrancando dal suo contenitore. La tv sta portando avanti pratiche di migrazione del proprio contenuto su altri media, cercando di catturare il proprio spettatore là dove si era perduto. Il testo, dunque, si espande in molteplici paratesti ancillari, a volte preparati dalla produzione (i profili e gli hashtag ufficiali) o più spesso generati dagli utenti; sono modalità differenti di accesso ai programmi, perché si può «vedere» un programma anche solo scorrendo la timeline dei nostri social network o perché decidiamo di sincronizzare la nostra visione con quella degli altri per commentare tutti assieme; e sono modi attraverso cui si costruiscono, crescono o si rafforzano i brand delle reti e dei programmi stessi.
Di più, non bisogna considerare la social tv come un dato, un elemento che può essere acceso o spento, ma è meglio ragionare su queste comunità online, su queste forme di coinvolgimento tra programma e spettatore, come esempi di una convergenza che può essere più profonda o più superficiale, che si può attivare per alcuni programmi o generi e non per altri, che esalta e che dopo un po’ può annoiare. A proposito di comunità, si va da quelle più diffuse dei fandom (forme di fruizione intensa e appassionata sino all’estremo limite dell’immedesimazione, tipiche dei fan) a quelle più colte, dove un’élite di spettatori si esercita in una sorta di piacere proibito, di meta-risate ironiche, specie se il programma è particolarmente trash o ultrapop.
Se consideriamo i generi televisivi classici, ci accorgiamo che non tutti sanno sviluppare attorno a sé allo stesso modo un discorso social, per incapacità della produzione o del pubblico o, più spesso, per ragioni strutturali, costitutive, nel caso di programmi che non necessitano di un commento costante. Al contrario, altri generi ormai richiedono la presenza di chiacchiere e partecipazione in rete, fino a diventare la misura, se non del successo, della «rilevanza» pubblica del programma. Questo vale per il dibattito politico, dal talk show all’intervista, fino a un programma come Gazebo che sull’interazione costruisce parte del dibattito in studio: qui i commenti su Facebook e le frasi di Twitter fanno da contributo alla discussione (e così vengono rilanciati a schermo), da massa critica radunata in un sondaggio (il «popolo della Rete»), o ancora da contrappunto ironico e sarcastico. Un altro genere molto frequentato online è quello del reality e del talent, se in diretta o di montaggio poco importa: X Factor , Pechino Express , Bake Off Italia o (anche se è meno cool ammetterlo) Amici e Grande fratello costruiscono un discorso costante, a volte valutativo (rispetto ai personaggi, alle esibizioni), ma più spesso, ancora una volta, ironico, distanziante, sarcastico, in qualche modo «superiore». Dietro alla tastiera del nostro pc, o agli schermi dei nostri tablet, un po’ tutti diventiamo come quegli anticipatori della Gialappa’s Band. Chi con maggior sarcasmo, chi con disarmante ingenuità.
Da un lato, la social tv viene interpretata come una modalità di partecipazione del pubblico più libera rispetto alla passività (tutta da dimostrare) della «semplice» visione televisiva: i tweet, i post, i commenti e le risposte sono così un’attività interpretativa piena, e in certa misura indipendente dalla volontà degli autori, dei produttori, delle reti. Dall’altro lato, però, non bisogna sottovalutare — e, anzi, proprio la loro trasparenza le rende particolarmente importanti — la presenza sempre più diffusa di strategie attivamente perseguite dalle case di produzione e dai broadcaster per trarre vantaggio, in termini promozionali o direttamente economici, dal trend della social tv .
Come emerge bene da un saggio di Luca Barra e Massimo Scaglioni di prossima pubblicazione su «View», una rivista internazionale di studi televisivi, l’industria televisiva, e in generale il settore della produzione, non è inerte rispetto alle tendenze spontanee, di base, grassroots , ma cerca piuttosto di stimolarle, di ricondurle ai suoi bisogni, per certi versi di sfruttarle in relazione a obiettivi specifici: tra questi, si possono citare la costruzione anticipata di un evento che diventa tale grazie anche alla sua promozione in Rete, e allo svilupparsi di un’attesa; la preparazione attenta di una coolness percepita, che spesso va al di là del puro dato testuale; o ancora lo stimolo al coinvolgimento passionale, di pancia e di fandom . Basta prendere un solo esempio, quello di X Factor , per capire come la diffusione di un’app e di molteplici opportunità di interazione, la ripresa in video di questi contenuti, la pianificazione attenta di vere campagne online portano a un indubbio caso di successo online, che però è conseguenza non solo della potenza del format ma di ingenti investimenti.
Un ultimo punto, infine, è quello del rapporto — di affinità, di incrocio, di scontro a volte inevitabile — tra il discorso online e la critica in senso classico. Come ha scritto Claudio Cerasa a proposito della politica, «i corpi intermedi rallentano la nostra corsa, non ci permettono di ottenere quello che vorremmo, di realizzare i nostri sogni, di semplificare la nostra vita, di viaggiare alla velocità a cui meriteremmo di viaggiare; e l’unico modo per essere in sintonia con il mondo che ci circonda — vale per l’imprenditore, per il politico, per l’uomo d’affari, per l’investitore — è quello di mettere in campo delle mediazioni diverse. Più dirette. Più istantanee. Più semplici. Più veloci. E, insomma, non mediate da nessun altro».
Anche la critica è un corpo intermedio. Senza farne né un discorso apocalittico (la critica è morta!) né uno integrato (tutti possono diventare critici televisivi!), si tratta forse di comprendere — ed è un processo ancora in corso, inevitabilmente — i punti di contatto e quelli di perdurante differenza, e sulla base di questi ridefinire entrambi gli spazi, senza confusioni e senza ingenuità. Da un lato la rapidità di pensiero e di esecuzione, la brevità dei 140 caratteri, e dall’altro la forma più distesa, la riflessione di più lungo periodo (un giorno, o qualche settimana... e non va dimenticato che la tv è un mezzo seriale). Da un lato una sorta di costrizione all’insulto (spesso coperta dall’anonimato) o all’ironia, per cui è difficile raggranellare risposte, citazioni e retweet se non si applica un filtro sarcastico (a volte efficacissimo, basti pensare a Pechino Express ), dall’altro una pagina dove l’ironia è praticamente bandita, e sarebbe incompresa. E potremmo andare avanti a lungo. Il discorso critico online si fa liquido, è diffuso, non ha gerarchie (o, meglio, ne ha altre che passano per i vip e i semi-vip della blogosfera), e insieme non ha paragone, non ha memoria, scorre come scorre il flusso della tv che si guarda e si commenta.