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 2014  novembre 29 Sabato calendario

COSTANTINOPOLI BRUCIA

Per i crociati che raggiunsero Costantinopoli, in occasione della quarta crociata, tutto quello che accadde per mare e per terra fu uno spettacolo straordinario e coloratissimo. La galera su cui partì il doge di Venezia, racconta Robert de Clari (Le Crociate, a cura di Gioia Zanganelli, Meridiani Mondadori), era tutta vermiglia, coperta da una tenda di sciàmito vermiglio: quattro trombe e molti timpani suonavano a festa. I signori, i chierici e i laici, umili e potenti, mostrarono un tale entusiasmo «che non si vide e non si udì l’eguale, né mai fu vista una simile flotta». I preti cantarono il Veni Creator Spiritus; e piansero per l’emozione e la gioia. Duecento trombe, in argento e bronzo, squillarono alla partenza insieme a timpani, tamburi e altri strumenti. Sembrava che il mare fosse un vasto brulichio, infiammato di gioia. «Era a vedersi la più bella cosa — dice Robert de Clari — che non fosse dal principio del mondo».
Quando le navi arrivarono a Costantinopoli, furono ornate e guarnite in modo sontuosissimo. Appena gli abitanti di Costantinopoli scorsero quella flotta così splendidamente equipaggiata, la guardarono ammirati, salendo sulle mura e sui tetti delle case; mentre quelli della flotta osservarono la grandezza della città tanto estesa in larghezza quanto in lunghezza, quelle alte mura e quelle torri possenti, quei ricchi palazzi e le ricchissime chiese, e provarono un intenso stupore.
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Il terzo volume della Grandezza e catastrofe di Bisanzio di Niceta Coniata ( Narrazione cronologica , testo critico di Jan-Louis van Dieten, traduzione di Anna e Filippo Maria Pontani, commento di Anna Pontani, Fondazione Valla-Mondadori, pagine LXXX-650, e 30) ci racconta la quarta crociata con lo sguardo della classe dirigente bizantina. Niceta Coniata nacque, intorno al 1150, a Coni, in Asia Minore, da una famiglia di piccola nobiltà locale. Andò a Costantinopoli da bambino, per prepararsi alla carriera amministrativa. Rivestì la carica di segretario imperiale, di oratore di corte, di governatore di Filippopoli, di giudice superiore, di capo degli uffici centrali. Durante la quarta crociata, fu il primo ministro dell’imperatore di Bisanzio. La Narrazione cronologica è uno dei più grandi libri di storia che siano mai stati scritti: ricchissimo di patos, di tragedia, di immaginazione metaforica, di furibondo grottesco.
Niceta Coniata amava appassionatamente e disperatamente Costantinopoli, l’impero, la cristianità bizantina. «O impero romano — scriveva —, realtà celeberrima, dignità invidiata e venerata da tutti i popoli, che gente violenta hai dovuto soffrire! Che bruti si sono rivoltati contro di te! Che amanti sono impazziti per te!… Ah quali nefandezze! Quali cose hai dovuto vedere!...». «O città, città, pupilla di tutte le città, fama mondiale, spettacolo oltremondano, nutrice della Chiesa, guida della fede, custode dell’ortodossia, dimora di ogni bellezza… Chi tra gli uomini ha tanta copia di lacrime e di lamenti da poter degnamente piangere e salutare con le lacrime tutto questo?». Adorava le chiese, i palazzi, gli altari, gli ori, le gemme e le reliquie delle chiese, e tutti i luoghi attorno a Costantinopoli: dove spirava sempre una mite e vivificante brezza da settentrione, delfini saltavano piacevolmente sulle onde, da ogni parte sorridevano le dolcezze dei bagni, e le orecchie si ricreavano «col magico verso» degli usignoli.
Nella seconda metà del XII secolo, Niceta Coniata scorgeva con i suoi occhi acuti e tragici — solo l’acume della vista permette di raccontare la storia — la decadenza dell’impero allargarsi, diffondersi e diventare catastrofe. I bizantini avevano perduto l’esperienza politica e guerriera del passato: avevano distrutto gli elementi sani della società, l’aristocrazia militare e provinciale: le famiglie regali erano state sterminate o allontanate dal potere; e la corte era in mano alla burocrazia degli eunuchi. «L’impero dei romani era ridotto a nient’altro che a crapula e ad ebbrezza», commentava Niceta Coniata. «Il peggio vince sempre, soprattutto presso i costantinopolitani». Non credo che il suo sguardo fosse oggettivo, tanto era dominato dal furore. I suoi ritratti imperiali sono terribili, più terribili di quelli che aveva tracciato due secoli prima Michele Psello: egli non scorgeva negli imperatori che avidità, avarizia, prodigalità, dissipazione, licenza, arroganza, sfrontatezza, stoltezza, malattie dei corpi troppo nutriti. Non c’era via di scampo: dove Niceta guardava era male: erano avidi ed empi i banchieri, i commercianti, gli artigiani, il popolo che si rivoltava continuamente, distruggendo i palazzi nobiliari e le chiese e rovinando gli imperatori.
Come tutti gli scrittori e i politici bizantini, Niceta Coniata aveva una profonda passione teologica: discuteva, nella Narrazione cronologica , la presenza di Cristo nelle specie del pane e del vino; ma non tollerava che le cose sacre fossero portate alla luce e discusse nei trivi, come se fossero cose di poco conto. Non sopportava nemmeno la diffusione della cultura magica e astrologica, e tanto meno che gli imperatori e le imperatrici invocassero le stelle e scrutassero le costellazioni prima di prendere una qualsiasi decisione o semplicemente «muovere un passo».
Da un lato, Niceta Coniata pensava che il caso fosse presente in modo intensissimo in ogni evento: tutto era caso, il passato, il presente e il futuro; non possiamo mai prevedere ciò che accadrà, perché il futuro non affonda nel passato. Dall’altro lato, egli era un cristiano: i libri e le dottrine sacre gli avevano insegnato che la Provvidenza domina gli eventi, li guida e li trasforma a suo modo. «Dio mostra che è lui il padrone delle ore e dei tempi, e che è lui a dirigere o a impedire il passo dei mortali». La giustizia divina osserva attentamente le azioni degli uomini e li premia e li punisce.
Ma l’azione di Dio è oscura. Non riusciamo a capire cosa Egli ci voglia dire o ci suggerisca. La Provvidenza può essere doppia o molteplice; e propone lo stesso uomo come «esempio di altezza sovrumana» o di infinita umiliazione. Nel caso della distruzione di Costantinopoli, ora sembra che Niceta Coniata vi scorga soltanto l’opera di un caso o di un fato maligno, ora sembra che tutto ciò che accade dal 1202 al 1207 sia foggiato dalle nascoste mani di Dio, che voleva mandare un segno agli amati ma peccaminosi abitanti di Costantinopoli. I bizantini dovevano cogliere questo segno, comprendendo che la distruzione della città era stata una punizione provvisoria, perché Dio «si astiene dall’eccesso». Così a volte Niceta Coniata si libera dal suo pessimismo e cerca luci che lascino intravedere il ritorno dei bizantini a Costantinopoli.
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Il giudizio di Niceta Coniata sui crociati non potrebbe essere più negativo, sebbene a tratti — per lampi — egli senta in loro qualcosa di robusto e di nobile. Sono iracondi: «Hanno gli orecchi rossi dal riverbero del fuoco dell’ira»; e sempre pronti a prendere in mano la spada e a ferire, uccidere, distruggere, senza ascoltare mai la ragione. Sono dissennati: ignorano completamente quella sottile diplomazia, alla quale i bizantini ricorrevano per avere rapporti con tutti i popoli e le persone. Sono vanitosi. Sono incapaci di amare il bello: «Nessuna delle Grazie e delle Muse trova ricetto presso di loro», dice Niceta Coniata. Pretendono di liberare il sepolcro di Cristo: mentre «inseguendo la vendetta del Santo Sepolcro, infuriano apertamente contro Cristo e, con la croce, perpetuano le distruzioni della croce che recano sul dorso». Molto più intelligenti sono i musulmani, e specialmente il loro capo, il Saladino: con loro i bizantini intrattengono da secoli un rapporto discreto.
Costantinopoli era piena di statue greche, che Costantino I e i suoi successori avevano portato dalla Grecia. Piuttosto che un’interpretazione cristiana, i bizantini davano loro un’interpretazione magico-profetica: per esempio la statua stendeva il braccio destro verso la Luna e il Sole, affinché smettessero di procedere verso la città. Niceta Coniata descrive con squisita eleganza la statua di Atena Promachos eretta da Fidia ad Atene, all’esterno del Partenone, e quella di Elena. Atena era una gigantesca statua bronzea, che portava sul petto l’immagine della Gorgone. «A tal punto — diceva Coniata — il bronzo si trasformava docile ad imitare ogni singola parte, che le labbra davano l’impressione, che, a voler aspettare, si sarebbe udita una voce soave. Il capo tutto morbido si piegava nei punti in cui doveva, e, pur essendo ben lungi dalla vita, aveva preso della sua fioritura, come se fosse vivo, e faceva fluire negli occhi ogni desiderio. I capelli che scendevano dalla fronte erano una delizia per gli occhi, in quanto non erano interamente contenuti dall’elmo, ma lasciavano intravedere qualche ricciolo. Aveva il capo lievemente inclinato verso sud, e lo sguardo degli occhi che si volgeva in eguale direzione». Per questa ragione, la folla di Costantinopoli sostenne che l’Atena di Fidia volesse invitare gli invasori crociati ad assalire la città; e la distrusse furiosamente.
Alla fine Niceta Coniata contemplò, rabbrividendo, l’incendio che distrusse la sua amatissima città d’oro, di diamante e di perle. I crociati si collocarono in molti luoghi di Costantinopoli, distanti gli uni dagli altri, e appiccarono il fuoco alle case. Il fuoco si levò più alto di ogni immaginazione per tutta quella notte, per il giorno seguente e fino alla sera del giorno successivo, consumando ogni cosa. L’incendio si disperdeva in vari luoghi, interrompeva la sua continuità e poi di nuovo si richiudeva su sé stesso, come un gorgo di fuoco. Rovinavano portici, splendidi ornamenti di piazze erano abbattuti, possenti colonne ardevano in pezzi come legna da ardere. L’incendio era inusitato, superiore ad ogni facoltà di racconto: lo spettacolo era ineffabile, com’è ineffabile tutta la storia, che Niceta Coniata ci racconta con tanto ardore e dolore.