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 2014  novembre 30 Domenica calendario

INGLESE, IDIOMA PER L’EUROPA?

Quale lingua per l’Europa?
L’Europa politica che abbiamo finora costruito presenta due vistose assenze che, viste con l’ottica del passato, appaiono delle originali anomalie.
e L’Europa non ha una capitale. Le capitali sono le città-simbolo che nell’immaginario collettivo identificano gli Stati e i popoli: Parigi sta per Francia, Tokio per Giappone, Washington per Stati Uniti eccetera. Nessuno può insegnare a un bambino che Bruxelles è la capitale dell’Europa.
r L’Europa non ha una lingua comune. Una lingua usata da tutti gli europei nella quotidiana conversazione colloquiale e tale da consentire, ad esempio, a un idraulico calabrese di intendersi col collega tedesco o finlandese. Una lingua, anche, in cui e con cui si forma l’opinione pubblica europea.
Le due assenze vivono in simbiosi. L’argomento meriterebbe un ampio dibattito di cui, a parte qualche sporadica eccezione, non si vede traccia
Alla questione linguistica dell’Europa Tullio De Mauro dedica un agile e denso libro dal titolo mozartiano, In Europa son già 103 e dal sottotitolo altrettanto intrigante: Troppe lingue per una democrazia?. Si spera che l’autorevolezza di De Mauro faccia uscire dal letargo i nostri politici e intellettuali e contribuisca a mettere la questione al centro del dibattito politico-culturale.
De Mauro spiega con stile chiaro e accattivante che nei tanti idiomi usati dagli europei vive sottotraccia una comune lingua europea (Leopardi è stato tra i primi a essersene accorto) frutto di interscambi millenari resi possibili dall’uso del latino da parte dello strato colto delle popolazioni europee. È utile tenere d’occhio la composizione anagrafica degli europei latinofoni: «A parlare il latino erano medici, farmacisti, avvocati, giuristi, tecnici, scienziati e, naturalmente, le monache, i frati e i preti delle varie confessioni cristiane» (pagina 65). Sono gli agenti della prima unità linguistica e culturale dell’Europa moderna.
L’uso del latino da parte di questi pionieri dell’Europa unita non impedì il sorgere di tanti idiomi locali, alcuni dei quali diventati lingue ufficiali dei nascenti Stati nazionali. Quale ruolo giocò il latino dalla fine del Medioevo fino a inizio dell’Ottocento? Fu una «lingua transglottica», ossia ponte linguistico tra i vari idiomi locali e contemporaneamente modello rispetto a cui quegli idiomi plasmarono la propria grammatica e il proprio lessico.
E adesso? L’erede transglottico del latino è l’inglese. Una sua caratteristica strutturale gli facilita il compito. L’inglese è una lingua germanica e però è anche «la più rilatinizzata e rineolatinizzata delle lingue europee. Il 75% del vocabolario inglese è composto da parole prese in prestito o dal francese o direttamente dal latino classico, medievale e moderno, che è dominante anche nell’apparato morfologico, dal momento che suffissi e prefissi per formare nuove parole inglesi sono in larga misura latini» (pagine 65-66). Da ciò il paradosso che «l’attuale enorme influenza dell’inglese in tutte le lingue europee porta in esse parole latine e greco-latine rifluenti non dall’Ilisso o dal Tevere, ma dalle rive del Tamigi (o dell’Hudson)» (pagina 66).
La proposta di De Mauro è che l’adozione dell’inglese come lingua transglottica non comporti «un rifiuto, dannoso e improponibile, della ricca diversità linguistica che ereditiamo dal passato, che abbiamo esportato negli altri continenti e che ci caratterizza nel mondo» (pagina 82). Il modello da seguire è la storia recente dell’Italia linguistica: «Negli ultimi cinquant’anni abbiamo imparato l’italiano senza cancellare i nostri diversi dialetti» (pagina 82). «Lo stesso come europei dovremo fare con l’inglese, portare nel suo uso tutta la ricca varietà di culture, di significati e di immagini delle diverse lingue, senza abbandonarle, e portare nelle nostre lingue il gusto della concisione e della limpidezza dell’inglese» (pagina 83).
Si spera che le riflessioni di De Mauro suscitino un salutare dibattito politico sulla questione. A noi rimane un dubbio che, nonostante sia di matrice demauriana, il libro non chiarisce.
Una polis democratica può funzionare con una lingua transglottica? Non sarà un caso che nessuno Stato nazionale europeo abbia adottato il latino come lingua comune in cui e con cui colti e incolti, operai e borghesi, governanti e governati si intendono per accordarsi o dissentire. L’inglese come il latino medievale, imparandosi a scuola e non dalla nutrice (per dirla con Dante), va bene per comunicare ragionamenti astratti ma non può avere la flessibilità semantica delle lingue in cui e con cui si forma un’opinione pubblica. E questa è fatta di sentimenti argomentati e verbalizzati più che di ragionamenti asettici.
Sulla questione linguistica si gioca anche il destino, democratico o tecnocratico, dell’Europa che verrà. Alla politica la parola.
Franco Lo Piparo, Domenica – Il Sole 24 Ore 30/11/2014

Tullio De Mauro, In Europa son già 103, Laterza, Bari, pagg. 86, € 10,00