Paul Krugman, Il Sole 24 Ore 30/11/2014, 30 novembre 2014
IL GIAPPONE DI ABE FA LA COSA GIUSTA
Il premier giapponese Shinzo Abe sta facendo la cosa giusta rimandando l’ulteriore aumento delle imposte sul consumo. È buona politica economica, e per quanto mi riguarda anche un’esperienza abbastanza inedita: un leader che proclama di voler seguire la politica giusta e lo fa davvero!
Naturalmente ci sono stati molti altri che hanno proclamato di voler seguire la politica giusta) Tuttavia, c’è grande scetticismo, e con validi motivi: Abe sta cercando di realizzare qualcosa di molto complicato e non è affatto chiaro se gli strumenti che sta mettendo in campo a questo scopo siano sufficienti. C’è un tipo di critica, però, che mi fa imbestialire, sia nel caso del Giappone che di altri Paesi: e mi fa imbestialire soprattutto perché è una di quelle cose che le Persone Tanto Coscienziose danno per scontate, al punto di non rendersi nemmeno conto che non stanno proclamando la Verità, ma al contrario un’ipotesi discutibile. Mi riferisco alla tesi secondo cui quello di cui avrebbe bisogno il Giappone non è di rafforzare la domanda, ma procedere a riforme strutturali.
Di cosa stiamo parlando?
Tradizionalmente la soluzione delle riforme strutturali viene offerta come risposta al problema della stagflazione (una combinazione di inflazione alta e disoccupazione alta). Se l’economia comincia a surriscaldarsi per effetto di un’accelerazione dell’inflazione, pur in presenza di un livello di disoccupazione piuttosto alto, la tesi è che la causa è da ricercarsi nella rigidità del mercato del lavoro (eufemismo per indicare un sistema in cui è difficile licenziare le persone o tagliargli il salario) e per rilanciare l’economia bisogna rendere il mercato del lavoro più flessibile (cioè più brutale).
È una tesi che ha una sua logica, anche se non è così inoppugnabile come recita la vulgata nemmeno quando il problema è la stagflazione: si potrebbe sempre legittimamente ritenere che buona parte della disoccupazione «strutturale» sia in realtà il risultato di un’isteresi, cioè dei danni duraturi inferti da recessioni prolungate. Però almeno è una tesi coerente. Tuttavia, il Giappone non è affetto da stagflazione; e l’Europa nemmeno. Al contrario, soffrono di bassa inflazione o deflazione e di carenze persistenti della domanda nonostante i tassi di interesse a zero.
Non si capisce bene in che modo le riforme strutturali dovrebbero contribuire a risolvere il problema. Anzi, il tipo di riforma strutturale di cui più si è parlato in passato – rendere più flessibile il mercato del lavoro in modo che sia più semplice tagliare i salari – semmai aggraverebbe la recessione. Perché? È il paradosso della flessibilità: il calo dei salari e dei prezzi aumenta in termini reali il fardello del debito, deprimendo ulteriormente la domanda.
Sembra che le riforme strutturali siano una panacea, sbandierate come un elisir buono per tutti gli usi: cura l’inflazione, ma anche la deflazione! E pure il mal di schiena e l’alito cattivo. Alcuni tipi di riforme strutturali che farebbero bene al Giappone ci sono: per esempio, modifiche alle norme sulla destinazione d’uso dei terreni o l’altezza degli edifici consentirebbero di «riempire gli spazi» nelle città giapponesi e potrebbero stimolare gli investimenti e contribuire a incrementare la domanda.
Ma il punto è che questa invocazione generica di «riforme strutturali» è segno di pigrizia intellettuale e produce effetti distruttivi. Non è solo che buona parte di quelle che chiamiamo riforme strutturali porterebbero più danni che benefici, è anche che dichiarando che il problema è strutturale si distoglie l’attenzione dei policymakers dalle cose veramente importanti: perché quello di cui ha bisogno il Giappone in questo momento è uscire dalla deflazione in qualsiasi modo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Paul Krugman, Il Sole 24 Ore 30/11/2014