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 2014  novembre 29 Sabato calendario

BRUXELLES PESA I NUMERI INVECE DI CONTARLI

La Commissione Ue ha distribuito ieri simultaneamente due pagellini ai Paesi membri: uno sull’adeguatezza delle leggi di bilancio 2015 e l’altro sugli squilibri macroeconomici. Probabilmente, se si chiedesse ai cittadini europei di spiegare che cosa sono tali due pagellini, solo una piccolissima percentuale di persone saprebbe rispondere appropriatamente e una percentuale ancora più risicata saprebbe spiegare la differenza tra il primo e il secondo di essi.
Eppure da tali due pagellini dipende in gran parte il destino delle varie economie nazionali (se, cioè, in questo o quel Paese vi dovranno essere più tasse o si dovrà tagliare di più la spesa pubblica o altro ancora). Mentre la stessa lettura politica e tecnica dei parametri su cui si sta intestardendo la Commissione Ue è spesso così confusa anche sui media da non facilitare affatto il rapporto tra Europa e cittadini. Da un lato, specie in Italia, i titoloni sparati dai giornali su continue promozioni e bocciature da parte di Bruxelles contribuiscono ad accentuare quella drammatizzazione dell’Europa che tanto preoccupa il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il quale giustamente teme che la gente perda di vista i valori fondanti del nostro continente e i progressi raggiunti dal processo di pacificazione e unificazione europea. Con il rischio che i cittadini si lascino trasportare dalle derive populistiche ed anti-europee. Mentre spesso la realtà è molto meno drammatica e più lineare di quel che sembra.
L’Europa non è un mostro incombente su di noi: infatti, entro le regole dell’Ue si può trattare, si media politicamente anche in modo duro, se necessario; e non è che alla fine dell’anno si viene sempre bocciati irrimediabilmente. Anzi, se ci si impegna con critiche e argomentazioni fondate e allo stesso tempo si presentano a Bruxelles progetti concreti e seri di riforme, come ha fatto il governo italiano negli ultimi mesi, anche alla euroburocrazia si possono strappare margini di flessibilità che solo fino a qualche tempo fa parevano impensabili. Dall’altro lato, l’idea che le regole europee siano scolpite nella pietra e che siano immodificabili è altrettanto sbagliata. In economia, una scienza non esatta, le certezze granitiche non sono molte e il buon senso e l’autocritica da parte dei policy makers a volte valgono più di teorie erroneamente ritenute consolidate o dei risultati dei modelli econometrici. Sicché negli ultimi anni, dopo lo scoppio della bolla immobiliare e finanziaria, abbiamo visto criticare gli eccessi dell’ultra-liberismo, per un bel po’ invece andato di gran moda. Più recentemente abbiamo visto il Fondo monetario internazionale (Fmi) ammettere che si sono sbagliati parecchio i calcoli sui moltiplicatori fiscali nell’applicazione delle ricette di austerità. Ed abbiamo sentito pochi giorni fa anche il presidente della Bce, Mario Draghi, sostenere che in Europa sono stati fatti errori sulle politiche macroeconomiche. In futuro anche una camicia di forza insensata ed ormai anacronistica come il Fiscal compact forse potrà essere ridiscussa.
In questa prospettiva, dove molti paradigmi non appaiono più solidi come un tempo, vanno accolti i giudizi di ieri della Commissione europea sulle leggi di bilancio 2015 dei vari Paesi membri. Per i professori di Bruxelles su 16 nazioni dell’Eurozona esaminate (essendo al momento Grecia e Cipro ancora dietro la lavagna), 5 sono state pienamente promosse sul Patto di stabilità e crescita (Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Slovacchia), 4 sono state giudicate globalmente in linea (Estonia, Lettonia, Slovenia e Finlandia), mentre 7 presentano un rischio di «non rispetto» del Patto per l’anno prossimo (Belgio, Spagna, Francia, Italia, Malta, Austria e Portogallo). All’Italia, in particolare, viene contestato il fatto che il rapporto debito/Pil resterà alto e non scenderà come previsto dal rigido tabellino di marcia del Fiscal compact. Ma il nostro Paese non viene bocciato bensì semplicemente rimandato a marzo per vedere se manterrà fede ai suoi impegni sulle riforme che ci garantirebbero comunque un rinvio temporale degli impegni sul debito. Da notare, peraltro, che l’Italia rispetta pienamente, sin dal 2012, un altro pagellino europeo dei molti esistenti, quello storico di Maastricht sul deficit/Pil sotto il 3%, che invece Francia, Spagna ed altri Paesi Ue, come la Gran Bretagna, sforano abbondantemente da anni e faticheranno a rispettare anche nel futuro. Tuttavia, è sufficiente cambiare scuola e professori e il giudizio sulle politiche economiche può essere diverso, quantomeno nel tono. Ad esempio, solo pochi giorni fa l’Ocse nel suo Outlook semestrale ha sottolineato con ben altra enfasi rispetto alla Commissione Ue che «il ritardo di Francia e Italia nel consolidamento dei conti può essere giustificato in un contesto di debole crescita e di nuove riforme strutturali». Insomma, nel dibattito sulla flessibilità non vi sono verità assolute e il governo italiano fa bene a giocare le sue carte nella trattativa con Bruxelles, anche mettendo sul piatto della bilancia tutti i parametri fiscali positivi che l’Italia possiede (a cominciare da uno degli avanzi statali primari più alti al mondo). Tali parametri positivi del nostro Paese, assieme alle importanti riforme in cantiere, sono stati portati dettagliatamente all’attenzione di Bruxelles nella lettera che il ministro Padoan ha trasmesso alla Commissione Ue il 27 ottobre scorso in risposta ai rilievi sul budget. Inoltre, i nostri «numeri buoni» sono stati anche messi organicamente nero su bianco per la prima volta, non senza una sana punta di orgoglio patriottico, sullo stesso sito del ministero dell’Economia proprio in questi giorni (www.tesoro.it, sezione “Prideandprejudice”). Con ciò forse interrompendo una tradizione di costante autosvalutazione in cui gli italiani sono stati maestri specie negli ultimi due decenni. Anche sul secondo pagellino presentato ieri dalla Commissione Ue, cioè la procedura sugli squilibri macroeconomici (Mip), l’Italia farebbe bene ad avanzare qualche legittima critica di metodo e di coerenza. Innanzitutto, su 11 indicatori della Mip (tra i molti forgiati a ripetizione da Bruxelles in questi anni) l’Italia ne sfora 3, esattamente come le virtuose Germania e Finlandia. Dunque non siamo proprio alla deriva. La Spagna, per un confronto, fallisce invece 5 parametri, Cipro 6, mentre Portogallo, Irlanda, Estonia e Olanda ne violano 4. In aggiunta, è da stigmatizzare che, come le azioni nei salotti buoni di antica memoria, pare purtroppo che anche i parametri della Mip a Bruxelles si pesino più che essere contati. Alla Germania, ad esempio, a parte qualche timido richiamo di facciata da parte dei Commissari europei, viene perdonato con benevolenza un surplus cronico delle partite correnti con l’estero superiore al tetto massimo consentito del 6% del Pil. Ma quali sono gli indicatori della Mip non rispettati dal nostro Paese? In primo luogo il debito pubblico eccessivo – che l’Ue mette un po’ in tutte le sue pagelle. E sin qui nulla da obiettare, anche se i commissari europei sembrano ignorare che il nostro debito, eredità di anni lontani, è comunque tra quelli cresciuti di meno sia dal 1995 ad oggi. In secondo luogo all’Italia viene contestata anche una scarsa competitività sui mercati internazionali che tuttavia è clamorosamente contraddetta dal quinto surplus commerciale manifatturiero mondiale che il nostro Paese può vantare: ben 131 miliardi di dollari di attivo con l’estero nel 2013. Infine, il terzo parametro della Mip che solo dal 2013 l’Italia ha iniziato a sforare è l’alto tasso di disoccupazione: un male che però origina proprio dalle politiche di esagerata austerità che la stessa Ue ci ha rigidamente prescritto in questi anni, come dimostra il fatto che prima della crisi la nostra disoccupazione era più bassa persino di quella tedesca. I dati Istat di ieri ci dicono che in Italia l’onda lunga della disoccupazione è aumentata ancora in ottobre. Tuttavia, nel terzo trimestre 2014 gli occupati sono risultati in crescita di ben 122 mila unità rispetto al terzo trimestre 2013 (con incrementi nell’industria, in agricoltura e per la prima volta da molto tempo anche nei servizi, mentre solo l’edilizia resta in calo). Sempre ieri l’Istat ha previsto che nell’ultimo trimestre del 2014 la caduta del Pil si fermerà. Se la Commissione Ue non vuole frustrare gli sforzi importanti che l’Italia ed altri Paesi stanno facendo per uscire dalla trappola dell’austerità e della deflazione, forse farebbe meglio a non incaponirsi troppo con i decimali delle sue ormai troppe pagelle. Dovrebbe invece rinforzare il piano di investimenti annunciato dal neo-presidente Juncker, progetto che per ora sembra davvero molto povero di idee e soldi e perciò a serio rischio di bocciatura.