Antonio Gnoli, la Repubblica 30/11/2014, 30 novembre 2014
PIERGIORGIO BELLOCCHIO
[Intervista] –
Il tassista che dalla stazione di Piacenza mi porta al Circolo dell’Unione — un luogo sobrio e fuori dal tempo dove si mangia, si leggono i giornali, si gioca a carte, e dove ad attendermi c’è Piergiorgio Bellocchio — dice che è per Matteo Salvini. Dice che non vuole più i «negri dentro casa». Dice che ora che è morta la vecchia madre vorrebbe trasferirsi a Santo Domingo, dove c’è «tanta gnocca e la vita è meno cara di qui». Dice che non può farlo. Per colpa della Fornero non potrà andare in pensione. Aggiunge parole irriferibili. Un fiume in piena: di stracci ideologici, di pregiudizi a buon mercato, di risentimento profondo, di protesta che nasce da un dissesto lontano e mai sanato: «Quella voce non è rappresentativa della città. Ma ci avverte che qualcosa di irrecuperabile è avvenuta nelle fratture che attraversano la società», osserva Bellocchio. Sono andato a trovarlo perché come intellettuale e scrittore è un’eccezione. Un provinciale dallo sguardo lungo. Coerente. Appartato. Un moralista senza moralismi. Senza paraocchi.
L’avvocato Bellocchio che figura tra i fondatori del Circolo?
«Era mio padre. Se avessi chiesto l’ammissione al Circolo quarant’anni fa (ma non ne avevo la minima intenzione) sarei stato sicuramente respinto, come traditore della mia classe. Ora prendono tutti, purché paghino la quota. Preferisco quella vecchia borghesia, che sapeva distinguere. Oggi non esiste più».
Com’è la vita a Piacenza per uno come lei?
«Quella di un ultraottantenne che, oltre alla naturali offese all’età, patisce quelle supplementari dell’amministrazione e dei servizi. Chi è più in grado di decifrare una bolletta del gas, telefonica, un bilancio condominiale, una tassa? Io non ho la forza di provarci, e la cosa mi avvilisce e mi nausea. Numeri, sigle, formule misteriose. Non riesco neanche più a leggere i giornali, vedere la televisione, andare al cinema. Bombardati dalla pubblicità. Assediati telefonicamente da offerte che si spacciano per convenienti. Il libero mercato ha scatenato il nostro peggio. Rimpiango i monopoli».
Com’erano i rapporti con suo padre?
«È morto che avevo 24 anni. Fu una relazione ovviamente conflittuale. A cominciare dalle delusioni scolastiche».
La immaginavo uno studente modello.
«Tutt’altro. Un liceo classico tirato via. L’insofferenza per il ron ron scolastico e il conformismo culturale. Il desiderio di scrivere e fare altre letture».
Scrivere cosa?
«Pensavo di fare il giornalista. Anzi, all’inizio, vista una mia predisposizione al disegno, avrei fatto volentieri il vignettista».
E invece?
«La mia passione giornalistica, nonché editoriale, mi ha portato a optare per l’autogestione (sia nel caso di Quaderni piacentini che di Diario): che è poi ciò di cui vado più orgoglioso».
Cominciamo dai Quaderni. Come avvenne la loro nascita?
«Farei un piccolo passo indietro. Con alcuni amici avevamo dato vita a un circolo per dibattere argomenti di politica e di cultura. Riuscimmo a invitare personaggi come Danilo Dolci, Paolo Grassi, Carlo Bo, Ernesto De Martino, Franco Fortini».
Soprattutto Fortini fu importante per i Quaderni.
«Con lui il rapporto fu decisivo e difficile. Era inviso al potere politico e culturale: ai miei occhi, un valore. Mi piaceva la sua capacità di dare una versione del marxismo meno scontata e ortodossa».
Più Brecht che Lenin.
«Una volta — cinquant’anni fa — mi chiese cosa preferissi di Brecht. L’opera da tre soldi, risposi. Si vede che non sei marxista, replicò. Santa Giovanna dei macelli è il suo miglior testo, aggiunse con enfasi. In fondo la mia incapacità di essere marxista fino in fondo equivaleva per lui a un brutto voto».
E per lei?
«Un po’ anche per me, allora. Ma non mi sono mai vietato frequentazioni sospette. E presto ho capito che proprio in questa indisciplina stava la mia salvezza».
L’anno prima dei Quaderni Piacentini, ossia nel 1961, uscì a Torino Quaderni rossi, la rivista fondata da Raniero Panzieri. Fu un modo di rispondere a certe ipotesi nate nel seno della sinistra?
«La sinistra, soprattutto comunista, aveva subito due grosse crisi: la sconfitta del 1948 e il trauma del 1956. Ma tra noi e i Quaderni rossi la distanza era notevole. Loro avevano messo al centro la fabbrica. Noi, la società, gli individui, la vita, le idee».
Ha conosciuto Panzieri?
«Ho fatto in tempo a incontrarlo prima che morisse nel 1964. Un uomo di qualità politiche del tutto singolari. Niente a che fare con i partiti. Aveva lavorato in Einaudi. Ne uscì nel 1963 in maniera traumatica. Di fatto venne buttato fuori».
Perché?
«Panzieri aveva commissionato a Goffredo Fofi un libro inchiesta su cosa era l’immigrazione meridionale a Torino. Il libro fu letto e cassato da gran parte dei responsabili e consulenti della casa editrice. Fu uno scontro aspro. Panzieri ci rimise il posto. Renato Solmi, per solidarietà, si dimise a sua volta».
Ma Einaudi non era una casa editrice di sinistra?
«Non era totalmente infeudata al Pci. C’era una parte liberal-azionista che pesava: Bobbio, Mila, Venturi ecc. Ma quella inchiesta era un pugno sferrato in pieno volto alla città di Torino, dominata dalla Fiat. E poi, diciamo la verità, Giulio Einaudi — che considero un grande editore capace di circondarsi di collaboratori straordinari — non aveva una vera autonomia finanziaria. Dipendeva dalle banche (Raffaele Mattioli), dal Pci, da Giovanni Pirelli. Non aveva i soldi di Feltrinelli, da cui in seguito il libro di Fofi uscì».
Chi l’ha affiancata nel lavoro redazionale fu Grazia Cherchi. Che ricordo ne ha conservato?
«Il lavoro organizzativo toccava a me. Ma nei rapporti con i collaboratori il suo contributo fu straordinario. Sapeva stimolare e blandire. È merito suo se la rivista è durata così a lungo. Grazia aveva un’intelligenza affettiva. Si rivelò poi molto adatta al lavoro che andò a svolgere in varie case editrici».
Quaderni Piacentini chiuse nel 1984. Qualcuno disse che la rivista morì in buona salute.
«La gestione autonoma finì nel 1980. Eravamo passati da 12 mila copie, nel 1968, a circa 5 mila. Che era ancora un bel capitale. Ma era venuta meno la funzione “agitatoria” e cresciuta la quota di accademia: ottima, ma pur sempre accademia».
L’anno dopo, nel 1985, con Alfonso Berardinelli, dà vita a Diario.
«Dura meno di un decennio. Con Alfonso immaginammo una rivista che colpisse valori e luoghi comuni della sinistra, che continuava a sognarsi diversa e immune dal contagio della cultura dominante».
Fu, come la chiamaste, un’”opera a puntate” (nel 2010 ripubblicata integralmente in edizione anastatica da Quodlibet).
«Giornalismo inattuale. Per otto anni fu un esperimento sia letterario in forme raramente praticate sia editoriale, fuori dalle convenzioni e dai pregiudizi degli editori. Proponemmo autori — come Kierkegaard e Leopardi, Herzen e Thoreau, Weil e Orwell — da leggere senza cautele interpretative. Non avemmo l’approvazione di molti dei vecchi compagni, a cominciare da Fortini e Cases. Solidali invece Renato Solmi, Timpanaro, Jervis, Edoarda Masi, Luca Baranelli e altri. Fu una confortante sorpresa la sintonia di Carlo Ginzburg e Cesare Garboli».
Colpivano le prime parole del primo numero: “Limitare il disonore”. Cosa volevano dire?
«Prendere atto di una sconfitta storica e inappellabile, senza passare dall’altra parte».
Da quale educazione proviene?
«Blandamente cattolica. Le prime simpatie politiche a 16 anni per il Pci. Ma venendo dall’Azione cattolica non avevo nessuna voglia di entrare in un’altra chiesa».
Su quali letture si è formato?
«Molta narrativa otto-novecentesca. La letteratura può essere una infatuazione, un lusso inutile. Ma anche un insuperabile strumento di conoscenza sociale e storica. Un libro che mi sconvolse fu Lettere di condannati a morte della Resistenza , lo lessi nel 1952. La mia fedeltà politica ha la sua origine in quelle storie tragiche di partigiani fucilati. Finita la guerra non sapevo niente di ciò che era accaduto».
C’era stato il processo di Norimberga nel 1946.
«È vero. Mancavano tuttavia le proporzioni dell’accaduto. Le dimensioni della persecuzione contro gli ebrei erano insospettabili. Non è un caso che Primo Levi non trovasse un editore. Einaudi rifiutò Se questo è un uomo , uno dei libri capitali della cultura del ‘900. Solo dopo che fu pubblicato da De Silva, Einaudi ci ripensò. Un altro libro che mi ha formato è stato Minima moralia del 1954».
A tradurlo fu Renato Solmi, uno degli uomini più intelligenti
e tormentati.
«Secondo me un genio purtroppo anche nel rigore con cui si è autorepresso. A lui dobbiamo il più bel testo che sia uscito su Quaderni piacentini: un saggio di quasi cento pagine dedicato alla Nuova sinistra americana. Uscì nel 1965. Solmi seguì gli sviluppi di una sinistra le cui radici non erano comuniste ma radical».
Un altro suo obiettivo polemico fu il “Gruppo 63”. Anche lì c’erano delle belle intelligenze.
«A me non piacque l’autopromozione del gruppo. Occuparono la Feltrinelli, cacciarono Bassani. E pure Fortini. Dopo Poesia ed errore e il bellissimo Dieci inverni , fu costretto a bussare altrove».
Torniamo alla sua famiglia.
«Era numerosa. Eravamo otto figli. Io ero il terzo. Marco, nato nel 1939, l’ultimo».
Marco regista. L’esordio, con I pugni in tasca, fu folgorante.
«Sì, fu incredibile. Mi fece leggere la sceneggiatura e gli dissi che era pessima. Ma quando vidi le prime scene del girato, restai sbalordito. Era un film bellissimo».
I pugni in tasca che uscì nel 1965 era un atto di accusa contro la famiglia borghese, le sue nevrosi, le sue malattie. Bellocchio sembrò prendere a modello la propria. Come reagiste?
«Come crede che reagimmo? Mia madre e mia sorella non lo accettarono volentieri. Perfino io ho avvertito qualche disagio. Poi, col tempo, ho capito che i film di Marco sono sempre un po’ imbarazzanti».
In che senso?
«Si ha spesso l’impressione di sentirsi coinvolti, additati, messi sotto una lente di ingrandimento. È la sua maniera di agire liberamente anche di fronte al proprio privato. Ma le sue scelte nascono da un’onestà assoluta e da una coerenza che mi piace».
Ancora una volta tentare di “limitare il disonore”?
«Ma sì. Guardarsi dal diventar delle puttane».
Ce ne sono molte in giro?
«Una quantità industriale».
Che genere di intellettuale ritiene di essere stato?
«Non lo chieda a me. Comunque ormai da tempo sono un intellettuale quasi totalmente privato. Non ho un editore ormai da vent’anni. Non scrivo su nessun giornale. Finito Diario nel ‘93, non ho smesso di scribacchiare noterelle, appunti, e, quando capita, appiccicare ritagli di giornali — minimi documenti di quotidiano orrore e squallore — intercalati con riproduzioni di immagini di un passato che visto da oggi sembra migliore».
Più vicino a Montaigne che a Marx?
«Di Marx mi restano soprattutto il materialismo e il moralismo nel vedere che i conflitti sociali sono dovunque e forse politicamente insuperabili. Tra le mie letture degli anni Sessanta ci furono La Rochefoucauld, La Bruyère, Chamfort. Sì, i moralisti francesi sono stati un modello».
E Karl Kraus?
«L’ho letto più tardi. Non appartiene alla mia formazione. Semmai Adorno e Horkheimer. Mi chiedo cosa ne capissi allora. È un mistero. Evidentemente quando sei digiuno e affamato assimili anche quello che non capisci o che capisci a modo tuo».
Chi è un maestro?
«È chi sa trasmettere qualcosa e sa dare anche l’esempio».
I tempi che viviamo sono anni di finis sinistrae. Che giudizio ne dà?
«Quella sinistra che abbiamo conosciuto è finita e forse non è un male».
Non è troppo orgoglioso e sprezzante?
«Perché? Dopotutto a pochi è concesso il privilegio di “non contare niente”».
Antonio Gnoli, la Repubblica 30/11/2014