Claudio Tito, la Repubblica 30/11/2014, 30 novembre 2014
“BERLUSCONI RISPETTI I PATTI PRIMA L’ITALICUM POI IL COLLE L’ILVA TORNERÀ ALLO STATO LA SALVIAMO E POI VENDIAMO”
[Intervista a Matteo Renzi] –
La Camusso? «Alza i toni in vista dello sciopero generale». Grillo? «Il Pd lo ha rottamato». L’articolo 18? «Bisognerebbe rileggere ciò che scrivevano sindacalisti come Luciano Lama». Prima il Quirinale e poi le riforme? «Non esiste e comunque il mio nome ora per il Colle resta solo Napolitano». Prima di affrontare lo “showdown” di dicembre che per il governo assomiglia a una corsa a tappe forzate tra l’Italicum, il Jobs act e la legge di Stabilità, Matteo Renzi traccia un bilancio di quel che il suo governo e il Pd hanno fatto nel 2014. Chiede al suo partito di abbandonare la vecchia abitudine degli «sgambetti» a Palazzo Chigi e di dar vita ad una «sinistra moderna» senza steccati ideologici.
Al punto di annunciare il ritorno all’intervento pubblico per risolvere una delle più gravi crisi industriali del Paese: quella dell’Ilva. «Poco fa — è la sua premessa — io ho detto che sono eroi gli imprenditori, gli artigiani, tutti i lavoratori. Chi fa il proprio mestiere. Perché le questioni vere sono queste: avere la possibilità di fare impresa e creare posti di lavoro. Questa è la sinistra moderna. Il resto è polemica inesistente».
Sarà pure inesistente ma il segretario della Cgil, Susanna Camusso, l’ha attaccata pesantemente.
«Il segretario della Cgil ha la necessità di tenere alta la tensione e i toni in vista dello sciopero generale. È legittimo e comprensibile. Ma la mia priorità è un’altra: tenere la discussione sul merito delle cose. Capisco la Cgil ma nel frattempo noi dobbiamo cambiare l’Italia e quindi non cado nella polemica».
Lei si pone l’obiettivo di cambiare l’Italia. Ma a volte sembra che voglia farlo contro il sindacato.
«No. Io lo faccio contro chi frena. Se il sindacato ha voglia di cambiare e dare una mano, ci siamo. Ma se pensano di bloccarci, si sbagliano di grosso. Il tema vero oggi è creare lavoro, non farci i convegni. Affrontare crisi industriali come quelle di Taranto, di Terni, quella dell’Irisbus. Dare nuove tutele a chi lavora e non la polemica ideologica. Questo è il governo che ha dato 80 euro a chi ne guadagna meno di 1500 al mese, che punta sui contratti a tempo indeterminato. È semplicemente quel che deve fare una sinistra moderna».
Gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione, però, ci consegnano la percentuale di disoccupati più alta dal 1977.
«Dopo il decreto Poletti, in sei mesi di governo sono stati creati oltre centomila posti di lavoro. È un primo segnale incoraggiante. Flebile ma incoraggiante. Nei sei anni precedenti ne erano stati persi un milione. Ma c’è un elemento in più: un sacco di gente sta tornando a iscriversi alle liste di disoccupazione perché adesso avverte la speranza di trovarlo un lavoro. Questo fa crescere la percentuale ma è anche un segno di attività che prima mancava».
Lei davvero crede che il Jobs act possa essere risolutivo?
«Risolutivo no. Però so che quella legge dà garanzie a chi non ne aveva, come le mamme con un contratto precario. Estende gli ammortizzatori sociali a tutti. Annulla i co.co.co, co.co.pro e quella roba lì. Dunque, si fa. Però non bastano le regole: l’occupazione si rilancia scuotendo il Paese, facendo la lotta alla burocrazia, alla corruzione, all’evasione. Semplificando l’accesso al credito. Tutto questo è il compito di una sinistra moderna».
Anche l’abolizione dell’articolo 18 è un compito della sinistra moderna?
«La nuova norma servirà a sbloccare la paura. Molte aziende non assumono perché preoccupate di un eccesso di rigidità. Mancava certezza nelle regole. Noi stiamo rimuovendo gli ostacoli. È anche un elemento simbolico perché si dimostra che l’Italia può attirare gli investimenti».
Non tutti pensano che sia proprio una riforma di sinistra.
«Per molti è una coperta di Linus. Bisognerebbe rileggersi un intervento di Luciano Lama del ’78, allora cambierebbero idea. Essere di sinistra è anche garantire agli imprenditori di fare impresa e creare posti di lavoro. Senza steccati ideologici».
In che senso?
«A Taranto, ad esempio, stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico. Rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato. Non vivo di dogmi ideologici, non sono fautore di una ideologia neoliberista. Il dibattito sull’articolo 18, invece, è quanto di più ideologico. Il sindacato che non ha scioperato contro Monti e la Fornero, lo fa adesso contro il governo che ha fissato i tetti degli stipendi ai manager, ha dato gli 80 euro e ha tagliato i costi della politica. Noi stiamo sul merito, non sull’ideologia: sono sicuro che molti di loro cambieranno idea quando vedranno i decreti del Jobs act».
Facciamo un passo indietro. Che intende per intervento pubblico sull’Ilva?
«Ci sono tre ipotesi. L’acquisizione da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l’intervento pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché l’acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto, preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo sul mercato».
È la teoria sostenuta da molti economisti, a partire da Krugman, negli ultimi anni.
«La vera partita si gioca in Europa. Il Piano Juncker è un primo passo ma al di sotto delle mie aspettative. Glielo diremo al prossimo consiglio europeo. Il paradigma mondiale dovrebbe essere la crescita. Su questo sono d’accordo destra e sinistra: Obama e Cameron, Brasile e Cina. Al G20 in Australia molti di noi lo hanno sostenuto, ma non tutti».
Ce l’ha con la Merkel?
«Io non ce l’ho con nessuno. Ma il dibattito in Europa è molto più complicato rispetto a quanto accade a livello globale».
La flessibilità non può diventare una scusa per aumentare il deficit?
«Senza la flessibilità la politica è finita, morta, inutile. Se governare fosse solo un insieme di regole, potrebbero governare i robot. Se l’Europa non fosse stata flessibile, la prima a saltare sarebbe stata la Germania del post-muro di Berlino. Quanto al deficit, il nostro dato è uno dei migliori al mondo. Preoccupa casomai il debito. Ma in questo caso il problema è la crescita. Solo che la crescita non arriva senza un programma di investimenti pubblici e privati degni di questo nome. Fuori dalla tecnicalità: è un gatto che si morde la coda...».
Ma in questa fase serve o no più mano pubblica nell’economia?
«Dipende. Io ad esempio non sono per la presenza pubblica in così tante municipalizzate come accade da noi. Non vorrei passare da un eccesso all’altro. Bisogna valutare caso per caso».
Una cosa su cui è d’accordo con D’Alema.
«Può accadere persino questo. Ma se penso a come furono fatte certe privatizzazioni in passato non credo che l’accordo reggerebbe molto. Se penso al dossier Telecom, mi rendo conto che l’enorme debito della compagnia telefonica risale a come fu gestita la privatizzazione di quell’azienda. Diciamo che con D’Alema sono forse sono d’accordo sull’intervento pubblico, ma sono un po’ meno d’accordo sull’intervento privato, diciamo».
In ogni caso lo scontro con una parte del suo partito sulla politica economica del governo e sul Jobs act pone a lei, in qualità di segretario del Pd, un problema. Come comporre le differenze in un partito che aspira a conquistare la maggioranza e che per forza di cose contiene al suo interno più anime.
«Dal punto di vista culturale la diversità aiuta e stimola il dibattito. Dal punto di vista organizzativo invece c’è un gruppo di lavoro guidato dal presidente Orfini. Quando poi ci sarà il premio alla lista servirà una gestione diversa dei processi decisionali. Come si vive la disciplina e la libertà di coscienza nel partito del ventunesimo secolo? Come tenere insieme l’idea veltroniana del partito a vocazione maggioritaria con quello bersaniano che voleva un partito diverso dalla tradizione novecentesca ma più solido?».
E come si fa?
«Ne stiamo discutendo ma questa è la sfida interna del nuovo gruppo dirigente Pd».
Intanto c’è chi le chiede di anticipare il congresso.
«Chi usa strumentalmente questo tema dimentica che alle europee abbiamo preso il 40,8%, abbiamo recuperato 4 regioni su 4 e governiamo l’Italia cercando faticosamente di cambiare linea all’Europa. Il congresso è fissato per il 2017. Se Zoggia o D’Attorre pensano di fare meglio potranno dimostrarlo tra tre anni come prevede lo Statuto. Nel Pd c’è una gestione unitaria. Non è che possiamo fare il congresso perché loro si annoiano».
Veramente c’è chi minaccia anche la scissione.
«Nel Pd ci sta chi ne ha voglia. Chi minaccia la scissione un giorno sì e un giorno pure, deve chiarirsi solo le idee e capire se crede a un partito comunità. La regola dello sgambetto al governo non funziona più».
Lei però deve decidere se il Pd può avere al suo interno tutta la sinistra.
«Una parte di sinistra radicale ci sarà sempre. Ma quando si va a votare, proprio il popolo della sinistra che è già provato da quel che è accaduto in passato, ci penserà due volte a votare per la sinistra radicale rischiando di consegnare il paese a Matteo Salvini. Perché poi si sceglierà tra noi e la destra lepenista. Tra la nostra riforma del lavoro e quella della Troika».
Ha detto Salvini e non Grillo.
«Il Pd lo ha rottamato. Le europee hanno segnato la fine del grillismo. Loro usavano la rabbia, noi abbiamo risposto con un progetto. Ora si tratta di capire come si muoverà la diaspora Cinque stelle. Alcuni di loro sono molto seri, hanno voglia di fare».
Li sta reclutando?
«Non sono per fare campagne acquisti, ma sulla lotta alla burocrazia, la semplificazione fiscale, la scuola, secondo me ci sono i margini per fare qualcosa con una parte di loro. Dovranno decidere se buttare via i tre anni e mezzo che rimangono di legislatura o dare una mano al Paese».
Le ultime regionali hanno rottamato il M5S ma sono state un segnale anche per lei.
«Perché l’astensionismo alle regionali dovrebbe essere messo sul conto del governo? Anche l’idea che ci sarebbe stato lo spaesamento dei lavoratori cozza con la realtà. E allora perché non hanno votato per Sel? Avevano pure la scusa che stava nella coalizione con Bonaccini».
Sarà altrettanto duro con Berlusconi? Al Corriere ha detto che prima si concorda e si elegge il presidente della Repubblica e poi si approva l’Italicum.
«Non esiste. L’Italicum è in aula a dicembre. Lui si è impegnato con noi a dire sì al pacchetto con la riforma costituzionale entro gennaio. Io resto a quel patto».
Berlusconi spesso cambia idea.
«Io no».
Nel frattempo le ha fatto sapere che per il Quirinale vorrebbe Giuliano Amato.
«Io ho un unico nome: Giorgio Napolitano. Non apro una discussione finché il capo dello Stato è al suo posto. I nomi si fanno per sostenerli o per bruciarli. È sempre la stessa storia dal 1955. La corsa è più complicata del palio di Siena. E i cavalli non sono nemmeno entrati nel canapo».
Va bene, ma poiché il problema si aprirà, lei pensa di indicare almeno un metodo?
«È bene che il presidente della Repubblica si elegga con la maggioranza più ampia possibile. E dico “possibile”. Ma non voglio discuterne adesso, sarebbe irriguardoso nei confronti di Napolitano e segno di scarsa serietà verso i cittadini».
Claudio Tito, la Repubblica 30/11/2014