Giampaolo Pansa, Libero 30/11/2014, 30 novembre 2014
L’HAREM DI SILVIO DUE MATTEO A NOTTE
«La prima sera, quella del 26 ottobre 2008, me ne andai via piangendo e decisi di non restare a Palazzo Grazioli. Eravamo quattro ragazze sul letto con il presidente Berlusconi. All’improvviso ho sentito che mi accarezzavano in un posto dove non dovevano toccarmi. Siccome un’orgia non l’ho mai fatta, sono corsa in bagno e poi sono scappata. A Palazzo Grazioli c’erano almeno venti ragazze, alcune non avevano manco gli slip.
La seconda notte, quella del 4 novembre, accettai di farla perché mi dissero che mi sarei coricata da sola con il presidente. Lui era stato invitato alla cena dell’ambasciata americana per l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca. Ma per restare con noi declinò l’invito dicendo che aveva la febbre. Quella volta nel letto eravamo soltanto lui e io. Per tutta la notte mi sono intrattenuta con lui, consumando rapporti intimi. La mattina ero sfinita».
È il racconto di Patrizia d’Addario, testimone al processo che si è aperto a Bari. E svela il vero difetto di Silvio Berlusconi: quello di preferire le compagnie numerose. Vale a dire di mettersi, per una notte o per dei mesi, con personaggi che dopo gli possono fare molti danni. Siamo di fronte a un’attitudine gioiosa oppure a un comportamento imprudente al massimo? Il Bestiario potrebbe rispondere con le parole rese famose da Papa Francesco: chi sono io per giudicare? E infatti non giudico, mi limito a constatare.
E che cosa constato in questo altro novembre, meno allegro di quello del 2008? Nel caso odierno, la risposta è semplice: il Cavaliere ha trasferito nell’azione politica il criterio dell’harem. Non più tante donne, ma almeno due maschietti. Mica per abbandonarsi a un’orgia binaria, bensì nella speranza di scovare una via d’uscita dalla tragica congiuntura che sta attraversando.
Sul Foglio di giovedì 27 novembre, è apparso un terribile disegno di Vincino. Si vede il Berlusca che abbraccia due signori. La didascalia dice: «Felice tra i Mattei». Infatti uno è il presidente del Consiglio, Renzi, con i dentoni da castoro e le basette. L’altro, barbuto e con un orrendo maglione verde, è Salvini, il capo della Lega. Non sono certo due squillo come le ragazze di Palazzo Grazioli. Ma anche il loro avvinghiarsi al Cav, rivela l’ultimo errore del leader di Forza Italia, o di quanto ne resta.
Sul rapporto amoroso tra Berlusconi e Renzi sappiamo tutto da un pezzo. Silvio vede nel premier un figlioccio, anzi di più. Lo considera un sosia di se stesso, del tutto identico al Cavaliere dell’epoca giovane, con le medesime attitudini, a cominciare da quella di saper piacere alla gente che conta. Non so dire se Silvio creda alla teoria dei replicanti. Ma le sue sfrenatezze amorose inducono a pensarlo. E come accade in tutti i rapporti dettati dal desiderio, il Berlusca non si accorge che sarà proprio Renzi a infliggergli la pugnalata mortale. Tanto da obbligarlo a ripetere le parole di Cesare nel Senato di Roma, rivolte a Bruto: «Anche tu mi vuoi morto, figlio mio!».
Un tantino più complesso e il rapporto con l’altro maschietto dell’harem, il Salvini capo dei lumbard. Il Cav ha cominciato a stravedere per lui. Pare gli abbia offerto la vicepresidenza del Milan, rifiutata dal barbuto verde. Subito dopo, sempre per restare nell’ambito del calcio, l’unico che di questi tempi susciti l’interesse di Silvio, ha dichiarato che questo secondo Matteo sarà il bomber del nuovo centrodestra. A quel punto, noi cronisti
rosiconi o gufi professionali ci siamo chiesti se il Berlusca avesse deciso davvero di scegliere il capo verde come guida della rinata coalizione costruita attorno a Forza Italia.
Per qualche giorno, Silvio non ha risolto l’enigma. Poi le donne di casa devono avergli letto la vita. Nel senso che, a cominciare dalla signorina Francesca Pascale e dalla senatrice Mariarosaria Rossi, la badante, l’hanno afferrato per il collo.
Urlandogli: ma che ti succede, amore nostro, per caso sei rincitrullito? Allora il Cav ha innestato la marcia indietro. E ha cominciato a spiegare che il bomber è soltanto un bomber, con l’unica incombenza di fare gol. Mentre il capitano del centrodestra, l’unico a decidere la squadra, il sistema di gioco e la strategia, resterà lui, il fondatore di Forza Italia: «Non ne vedo uno migliore!».
Ma il vero problema è un al-
tro ancora. E mi ricorda quello che tanti anni fa mi aveva spiegato Calogero Volpe, un deputato democristiano di Montedoro, provincia di Caltanissetta. Era un ginecologo doroteo, davvero massiccio, con le mani grandi come badili, lo sguardo da felino nascosto sotto gli occhiali neri. Era l’inizio degli anni Settanta e mi descrisse con cruda schiettezza lo stato della Dc.
«Il mio partito», spiegò, «è diventato come la fattoria che il padrone ha affidato allo curatolo Cicco, il sovrastante del fattore e dei mezzadri. In quel podere, il primo che si alza pretende di comandare. E sostiene di essere l’erede del proprietario. Ma così la tenuta va a gambe all’aria. All’interno scoppia una guerra civile. E la fattoria diventa un cimitero di macerie».
Oggi la medesima tempesta si sta abbattendo su Forza Italia e, di riflesso, sull’intero centrodestra. Chi comanda sui resti del vecchio partito di Silvio? Nessuno. Raffaele Fitto sembra sulla pista di lancio. Ma per decollare dovrebbe avere il coraggio di assassinare il vecchio leader oppure fare una scissione. Può riuscirci? Il Bestiario ritiene di no. A meno che l’intero gruppo parlamentare di centrodestra non decida di tentare un colpo di stato e pensionare d’autorità il vecchio leader.
Può accadere un parricidio tanto definitivo? Nella lotta politica vale un principio: mai dire mai. Ma sinora, almeno in Italia, di golpe all’interno di un partito ne abbiamo visto uno solo: quello del 25 luglio 1943 che segnò la fine del regime di un signore ben più potente del Cav: il Duce, ossia Benito Mussolini.
Infine su tutto incombe un giudizio di Alessandro Campi, un politologo di valore che è sempre stato a destra. L’ha messo nero su bianco in un articolo di fondo del Messaggero di venerdì. La sua teoria provo a tradurla così. Il centrodestra di Berlusconi è morto. L’autostima è caduta sotto i tacchi. Ha un leader già defunto che si ostina a fare la parte del morto che cammina. Quasi tutto il gruppo dirigente è diventato afasico, ossia muto. Non sa più cosa dire al suo avversario, Renzi, anche perché il premier sembra uno di casa. Ragion per cui la truppa di Silvio litiga con se stessa, combatte all’interno della povera casamatta che è il suo ultimo rifugio.
Ma se anche avvenisse tutto il contrario e Berlusconi decidesse di gettare la spugna per rifugiarsi nel privato? E se qualcuno, Fitto o altri, si provasse a mettere in cantiere un nuovo centrodestra, che vada a Forza Italia alla Lega, passando per i centristi? Pure in quel caso sarebbe da folli illudersi di farcela nel volgere di pochi mesi. La sentenza di Campi è raggelante. «Ci vorranno probabilmente anni». Prima che la costruzione sia completata. E che gli elettori, oggi fuggiti soprattutto nell’astensione, tornino a offrire il loro obolo.
Anni? Sì, anni. Quanti? Meglio non scrutare dentro questo abisso. Nel frattempo, Renzi sarà diventato il dittatore dell’Italia oppure verrà inghiottito da una crisi del suo governo, l’anticipo del caos. Allora anche le notti di sesso allegro a Palazzo Grazioli ci sembreranno il ricordo di un’epoca felice.