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 2014  novembre 29 Sabato calendario

GLI SVOLAZZI DEL RONDOLINO ODIA TUTTI TRANNE CHI HA POTERE

Sul divano, con un micio sulle ginocchia, un cane ai piedi e un gattone bianco al collo, si è concesso per un’ora alla mia contemplazione Fabrizio Rondolino, che fu della squadra dei calvi di Max D’Alema, con Marco Minniti, Claudio Velardi, ecc. Fabrizio è un cinquantaquattrenne molto simpatico, odioso a molti per il santo vizio di parlare schietto. Rondolino scoprì Roma negli anni ’80, dove scese da Torino per occupare un posto di rilievo nella Fgci, la palestra dei giovani comunisti. «Mi innamorai della città in modo folle - racconta -. Da noi, il cielo azzurro c’è una volta ogni quindici giorni. A Roma c’è sempre». Non l’ha più lasciata. Ora è sistemato in un attico da nababbo con vista sul Foro romano, nel punto esatto in cui fu pugnalato Giulio Cesare. Può permetterselo in base alla regola che si è data: vivere sopra i propri mezzi, abitando in affitto case che non potrebbe mai acquistare. Superata l’età per stare nella Fgci, ebbe il problema di come mantenersi nella città elettiva. Tra le possibilità, entrare come cronista all’Unità, il giornale del Pci, allora diretto da D’Alema. Fabrizio titubava. Si era laureato in Filosofia teoretica e acconciarsi a scribacchino gli dava il raccapriccio. A convincerlo, fu una rivelazione del condirettore, Renzo Foa. «Non si inizia a lavorare prima delle undici», gli disse incidentalmente. «È il lavoro per me», esclamò subito Fabrizio che la mattina è catatonico. Fu così che divenne giornalista. Come tale è stato portavoce di D’Alema all’epoca in cui fu premier (1998-2000). Era il primo non funzionario di partito a tenere i rapporti con la stampa per un alto papavero dell’ex Pci. «Finita quella esperienza, hai cominciato a vorticare. Tra l’altro, sei finito al Giornale dei Berlusconi. Com’è stato?», chiedo. «A un certo punto - risponde -, ero entrato alla Stampa. Quando però divenne direttore, Mario Calabresi mi isolò. Per un anno e mezzo non si fece vivo. Non mi chiese mai un articolo. Mi convocò solo per darmi il benservito. Allora bussai alla porta del Giornale. Il direttore Alessandro Sallusti mi accolse benevolmente e mi ha fatto lavorare, senza censurare una riga. Anche ora che ho traslocato (oggi scrive su Europa, ndr), gli sono grato e gli voglio bene». «Per li rami, hai conosciuto Daniela Santanchè e sei stato un suo stipendiato consulente politico», dico. «Una donna straordinaria, un po’ matta e con una marcia in più. Abbiamo in comune una vena anarchica. Forse dico una caz..ta, ma credo che la differenza tra l’essere di destra o di sinistra sia meno importante che quella tra essere anarcoidi oppure inquadrati. È questo che differenzia o unisce. Umanamente, perciò, mi trovo spesso d’accordo con gente di destra, nella quale questo anarchismo è più diffuso». L’enormità genera la reazione di cane e gatti che lasciano indignati il salotto. «Oggi che voti?», chiedo sconcertato. «La sola volta che non ho votato Pd è stato alle politiche 2013 perché non sopportavo l’idea di Bersani. Oggi, sono per l’astensionismo: se uno mi convince, voto; se no, resto a casa». «Sei ancora di sinistra?», insisto. «Sono un libertario. A rigore perciò, non sono di sinistra, anche se il cuore è lì. Ho una posizione terza: quando la sinistra è per i diritti civili, sono con lei; quando fa la statalista, no. Negli Usa, voterei forse i repubblicani che sono più anarchici». «A proposito di Usa, cos’è questa mattana della tua casa nel deserto del Nevada, dove vai appena puoi con moglie e figlie? Vuoi sbalordire noi provinciali?», chiedo. «No. È un’autentica passione. L’orizzonte infinito, il cielo stellato, il deserto. È il paesaggio dei film di John Ford. Per me, è un prozac», dice sognante. «Mi fai venire voglia». «Quando vuoi, sei ospite. Lo sceriffo della contea ha le chiavi. Tu le prendi e vai. Intorno, per sette miglia, non c’è nessuno. Poi, c’è un bordello, l’abitazione più vicina. Il Nevada è tutto casini e casinò. Sono andato nel lupanare per la visita di presentazione, come usa tra vicini. Ero con mia moglie e le nostre due figlie. Quando la tenutaria ci ha visti, ha pensato che volessi offrire la mia merce», ride e richiama in salotto cane e gatti. Mario Calabresi si è comportato male con te e tu lo hai pubblicamente mazzolato. «Ho detto la pura verità: ha fatto una carriera immeritata in quanto figlio del commissario ucciso dalla Br. Si è consapevolmente appoggiato al mondo potente dei nemici di suo padre che lo hanno favorito per lavarsi la coscienza». Hai maltrattato anche il padre dandogli del poliziotto invasato, responsabile della morte dell’anarchico Pinelli. «Come investigatore, il commissario Calabresi non valeva molto. La sua pista era sbagliata, perché gli anarchici nulla c’entravano con Piazza Fontana, e la morte di Pinelli è avvenuta nel suo ufficio. Vogliamo chiamarla responsabilità morale?» Pensi davvero così? «Poiché Calabresi è morto male, lo abbiamo fatto santo. Poi, è stato innalzato a eroe anche il suo carnefice, Adriano Sofri. Un balletto grottesco che rispecchia l’ipocrisia del nostro Paese». «L’Italia fa notoriamente schifo», frase tua. «Purtroppo, sì. Dico “purtroppo” perché non mi piace lo spirito antitaliano, diffusissimo a sinistra, e mi sento in imbarazzo a schierarmi con costoro. Ma è così: l’Italia è marcia. Colpa dell’unità (Rondolino, nel 2012, ha pubblicato un libro L’Italia non esiste, ndr) che ha soffocato la creatività degli italiani. Peccato che la Lega abbia abbandonato l’unico tema che valesse: la disunità». Dici cose sgradevoli per amor di verità o per stupire? «C’è un po’ di esibizionismo. Ma soprattutto fastidio per i luoghi comuni». Matteo Renzi? «Ne sono infatuato. Mi piace la sua pars destruens. Penso che l’Italia vada destrutturata: sindacato, Pa, vecchi Pd. È la premessa per uscire dai guai. Renzi saprà poi ricostruire? Non so. Qui, torna la mia sfiducia verso l’Italia. Temo sia inguaribile». Che pensi della “ditta”: i Cuperlo, Civati, ecc? «Molti sono amici e non vorrei offenderli, ma mi fanno pensare all’evoluzione degli scimpanzé. Ci sono gli scimpanzè che escono dalle foreste e vanno nella savana in cerca di esperienze. E gli altri che restano nella foresta. Loro sono così: si rintanano e non affrontano il futuro. Ma se il mondo cambia, l’imperativo è cambiare». Patto del Nazareno? «Togliatti puro: il realismo di accordarsi per salvare il Paese. Lo fece Palmiro nel dopoguerra, Berlinguer col compromesso storico, ci provò D’Alema col Cav per le riforme costituzionali degli anni ’90. Se però lo fa Renzi, la ditta lo accusa di “riabilitare Berlusconi”. Questa è malafede». Berlusconi? «Grand’uomo. Confesso di subirne il fascino. Ne ammiro l’irriducibilità e la capacità di trattare su tutto. Grande lezione politica. Vergognoso che la sua vita privata sia stata portata sotto i riflettori». Rimproveri? «La classe dirigente di Fi non è brillante. Per questo ha fallito le riforme liberali. Io stesso mi sento orfano delle promesse non realizzate. Ma lui, il Cav, è forte: si sta gestendo meravigliosamente anche il tramonto». Grillo? «Ha portato in Parlamento solo dei rancorosi sociali. Rabbia e nient’altro. Fa ribrezzo». Salvini ha due obiettivi: uscire dall’euro, frenare l’immigrazione. Li condividi? «No. L’euro, come tutto ciò che unisce, rende la vita più facile e rappresenta il progresso. Sull’immigrazione sono per le porte aperte. Penso sia un diritto naturale vivere la vita come e dove uno vuole. Se sono in un posto di merda e cerco una vita migliore, ne ho diritto. Io poi sono stato fregato più dagli italiani che dagli stranieri». Napolitano? «Ha fatto il possibile e di più». Hai fiducia e rispetto per la magistratura? «Fiducia, no. Al rispetto sono costretto». Il politico che più ti è piaciuto? «Posso dire Renzi? Come politico è grandissimo. Prima, a parte D’Alema che per me è come un parente, c’è solo Craxi. Lo statista Renzi, invece, è tutto da dimostrare. Sono però affascinato dal suo gioco». Emigrerai o ci terrai compagnia? «Conto di passare più tempo negli Usa. Lì mi sento a casa e appagato. Ho il mal d’Africa per l’America».