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 2014  novembre 29 Sabato calendario

DATECI PIÙ IDRAULICI E STUREREMO LA CRISI

Michael Bloomberg, miliardario americano con la passione per la politica (è stato per tre volte sindaco di New York), non ha dubbi: meglio fare l’idraulico che andare al college. Dall’alto dei suoi soldi, ma soprattutto delle due lauree conseguite alla Johns Hopkins University e alla Harvard Business School, la sua può apparire come una provocazione un po’ snob, ma l’imprenditore motiva il suggerimento con un ragionamento che non fa una grinza. Un idraulico comincia la sua carriera con meno debiti di quelli che deve accumulare un giovane per andare all’Università. Come è noto, negli Usa non esiste un diritto allo studio come da noi, e dunque andare a scuola costa. Se non si è ricchi e non si hanno genitori che mettono mano al portafogli si è costretti a chiedere un mutuo, che si ripagherà negli anni a venire, quando la carriera lo consentirà. «Uno studente», spiega Bloomberg, «spende in quattro anni al college non meno di 40-50 mila dollari in tasse e tutto ciò senza guadagnare un soldo. L’idraulico invece, a parte per il materiale che gli serve per fare il suo lavoro, non ha bisogno di finanziamenti». Ma ancor più del discorso economico, l’ex sindaco della Grande Mela mette l’accento su un aspetto: il lavoro dell’idraulico non potrà mai essere rimpiazzato da un computer, perché è difficile automatizzare quel mestiere. In sovrappiù Bloomberg aggiunge: il mio idraulico ha sei dipendenti e ha più tempo di me per giocare a golf. Morale della favola, la laurea non assicura la felicità e neppure la ricchezza, mentre l’una e l’altra un giovane le può trovare se si rimbocca le maniche e sceglie di fare un lavoro artigiano. L’apologo di Bloomberg mi è tornato alla mente leggendo un articolo sugli effetti dell’introduzione delle nuove tecnologie. Già ora assistiamo alla sostituzione dell’uomo con le macchine: là dove prima era necessario un operaio ora c’è un computer. Sistemi automatizzati che fanno ciò che una volta si faceva con il tornio a mano, robot che montano macchine che prima erano imbullonate dall’uomo. Se poi presto sarà possibile fabbricarsi da soli qualsiasi oggetto, scaricando da internet un file e inviandolo alla propria stampante tridimensionale, la distruzione di posti di lavoro sarà compiuta. Qualche futurologo addirittura prevede il dimezzamento dei negozi, perché passando dall’elettronica (telefonini e oggetti vari) agli utensili domestici non ci sarà bisogno che nessuno venda alcunché, perché ciò che serve si potrà fare in casa o al massimo in un laboratorio attrezzato con le migliori stampanti. Fantascienza? Forse, ma forse no, perché come abbiamo visto ciò che sembrava di là da venire solo vent’anni fa è venuto molto prima e oggi l’internet banking ha mandato in pensione decine di migliaia di bancari e il commercio on line rischia di fare presto altrettanto con decine di migliaia di commessi, ma in poco tempo potrebbe succedere la stessa cosa con operai e impiegati di molte medie e piccole aziende. Previsioni catastrofiste? Forse, ma forse no. Nel frattempo converrebbe riflettere sull’apologo dell’idraulico di Bloomberg, un signore che con poco investimento e zero studio si è fatto largo nella vita e ora gioca a golf più del suo principale. Siamo sicuri che il modello culturale che abbiamo imposto dagli anni Sessanta in poi sia il modello giusto o per lo meno sia ancora quello vincente? Mi spiego: non voglio invitare i giovani a disertare le lezioni né il mio è un inno all’ignoranza. Semplicemente rifletto su un fatto: per anni si è creduto e si è fatto credere che studiare fosse il modo per assicurarsi un posto di lavoro di prestigio. Avvocati, architetti, dottori: milioni di genitori hanno sostenuto i propri figli perché avessero un futuro migliore del loro, convinti che la laurea fosse un ascensore per salire in fretta la scala sociale. In realtà da molti anni l’ascensore si è rotto e fare l’Università non sempre, anzi quasi mai, significa garantirsi un’occupazione (e un reddito) migliore di quella dei propri padri e delle proprie madri. Spesso, concluso il corso di studi si è costretti ad accettare lavori precari e qualche volta modesti oppure a emigrare in cerca di fortuna, nella speranza di trovare all’estero ciò che non si trova più da noi. Sta di fatto che la scolarizzazione di massa ha prodotto una disoccupazione giovanile di massa che ormai sfiora il 50 per cento: vuol dire che per ogni ragazzo fra i 14 e i 24 anni che trova lavoro ce n’è un altro che resta a casa senza far niente. Naturalmente di tutto questo possiamo dar colpa alla congiuntura economica, augurandoci che una volta passata la crisi l’occupazione torni e anche i giovani riescano a trovare posto. Ma se vogliamo non farci illusioni, dobbiamo guardare in faccia la realtà e comprendere che un’epoca si è chiusa e un’altra si sta aprendo. Il lavoro che c’era - quello al quale ci siamo abituati e vorremmo che ritornasse - non c’è più e non ci sarà. Troppa la concorrenza dei Paesi in via di sviluppo, definitiva quella dei computer. E allora forse è il caso di ripensare il nostro modello scolastico e le aspettative dei nostri giovani. La lezione di Bloomberg potrà apparire snobistica, se la si pensa pronunciata da uno con due lauree e il portafoglio gonfio, ma in realtà è una lezione di vita. In Italia gli unici posti di lavoro che crescono sono quelli che le macchine non possono occupare. Ma i nostri giovani - nonostante non abbiano alternative - preferiscono lasciarli agli immigrati. Preferiscono fare un buco nell’acqua piuttosto che riconoscere che il futuro è l’idraulico di Bloomberg.