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 2014  dicembre 01 Lunedì calendario

FORTINI, O DELLIMPERDONABILE

For­tini, o dell’imperdonabile. Per­dono e verità sono tra i lemmi più impor­tanti del les­sico poe­tico for­ti­niano: «Non è vero che saremo per­do­nati», si legge in «Prima let­tera da Babi­lo­nia» (da Una volta per sem­pre, 1963); «Ma la verità non per­dona», risponde, a distanza nel tempo, un verso di «Con­si­dero errore…» (nell’Appen­dice di light ver­ses e imi­ta­zioni che chiude l’ultimo libro di poe­sie: Com­po­sita sol­van­tur, 1994). Il per­dono (anzi, la nega­zione del per­dono) e la verità sono figure eti­che e ideo­lo­gi­che tra loro con­nesse, spe­cial­mente nella poe­sia di For­tini. Ma la ricerca di una verità e la sua anta­go­ni­stica affer­ma­zione non por­tano ad alcuna con­ci­lia­zione; impli­cano piut­to­sto la neces­sità del rilan­cio, il gesto del con­fronto, al limite la tre­gua prov­vi­so­ria. For­tini, per­ciò, non è uno di que­gli imper­do­na­bili a cui Cri­stina Campo inti­to­lava un suo sag­gio famoso: non c’è in lui la vel­leità di fis­sare con occhi puri la bel­lezza cac­ciata dal mondo; non c’è, in par­ti­co­lare, la difesa dell’impassibilità come valore. For­tini non fu mai impas­si­bile, spe­cial­mente di fronte alle urgenze sto­ri­che e civili, come illu­strano gli scritti, i versi e la sua stessa espe­rienza. Fu sem­mai costante. Ci sono in lui, però, altre qua­lità dei cosid­detti imper­do­na­bili: soprat­tutto la chia­rezza, rivolta anche verso sé stesso. L’io dei versi di For­tini non si per­ce­pi­sce solo come il depo­si­ta­rio di verità da impar­tire, ma anche come incar­na­zione, spesso dolo­rosa, di verità di cui con­vin­cere e con­vin­cersi per via di pro­vo­ca­zione: «Com’è chi per sé vuole più verità / per essere agli altri più vero e per­ché gli altri / siano lui stesso, così sono vis­suto e muoio» («Il comu­ni­smo»). Il primo a non essere per­do­nato, né per­do­na­bile, è For­tini stesso, come rive­lano i suoi esami di coscienza, con­dotti per le inter­po­ste per­sone degli ‘amici’, degli inter­lo­cu­tori costan­te­mente inter­pel­lati e spesso appunto pro­vo­cati. Tra que­sti c’è Sereni. For­tini gli dedica «A Vit­to­rio Sereni» (in Que­sto muro), ma soprat­tutto la splen­dida, l’intollerabile «Leg­gendo una poe­sia» (in Pae­sag­gio con ser­pente): «Non ho mai capito gli altri né me stesso / ma il modo che ho di sba­gliare que­sto sì. Se mi arriva / una verità è nel mezzo della fronte: è / un’accusa. Ragiono / senza com­pren­dere. Mai sono dove credo».
Biso­gna riper­cor­rere l’intera opera in versi for­ti­niana per cogliere meglio gli ele­menti di con­ti­nuità e di frat­tura lungo la linea di que­ste e altre ricor­renze ver­bali e tema­ti­che; oggi final­mente, a vent’anni dalla morte dell’autore, pos­siamo farlo con più sicu­rezza, gra­zie al volume curato da Luca Len­zini, tra i mag­giori e più sen­si­bili stu­diosi for­ti­niani, non­ché coor­di­na­tore del Cen­tro inti­to­lato allo scrit­tore presso l’Università di Siena: Franco For­tini, Tutte le poe­sie, «Oscar» Mon­da­dori (pp. LXIV-881, euro 22,00). Col­pi­sce – impos­si­bile non notarlo – che la prima rac­colta com­pleta di uno dei mag­giori poeti ita­liani del secondo Nove­cento non esca nei «Meri­diani» (col­lana nella quale era apparso, nel 2003, il volume dei Saggi ed epi­grammi for­ti­niani, sem­pre a cura di Len­zini), ma in una sede desti­nata a un pub­blico largo e che per­ciò non con­tiene appa­rati critico-filologici. La depre­ca­zione, legit­tima, rischie­rebbe tut­ta­via di far pas­sare in secondo piano l’importanza di quest’«Oscar» (che pro­se­gue la serie «Poe­sia», nella quale pure sono apparsi di recente com­menti e edi­zioni di rife­ri­mento per rileg­gere il Nove­cento). La rac­colta com­prende l’intera opera poe­tica di Franco For­tini, da Foglio di via a Com­po­sita sol­van­tur, com­presi il cospi­cuo qua­derno di tra­du­zioni (Il ladro di cilie­gie e altre ver­sioni di poe­sia, 1982), i Versi primi e distanti 1937–1957 (pub­bli­cati in edi­zione non venale nel 1987) e le Poe­sie ine­dite uscite da Einaudi a cura di Men­galdo. Per la lezione dei testi inclusi nei primi libri (Foglio di via, Poe­sia e errore, Una volta per sem­pre, Que­sto muro), Len­zini si è basato sulla rac­colta einau­diana del ’78; per quelli, oltre che per Pae­sag­gio con ser­pente e Il ladro di cilie­gie, ha tenuto conto anche della varianti appor­tate dall’autore nell’antologia dei Versi scelti (Einaudi, 1990).
Pro­prio Versi scelti e la pre­ce­dente rac­colta del ’78 erano fino a oggi le edi­zioni (ormai dif­fi­cil­mente repe­ri­bili) in cui leg­gere For­tini. Il gua­da­gno por­tato ora dal volume di Tutte le poe­sie non è cal­co­la­bile solo in ter­mini quan­ti­ta­tivi, ma si misura anche in ter­mini di com­pren­sione del per­corso for­ti­niano. A comin­ciare dalla più appa­ren­te­mente ovvia, tau­to­lo­gica con­si­de­ra­zione: cioè che For­tini è un poeta. E un poeta memo­ra­bile: va detto a bene­fi­cio di quei let­tori, i più gio­vani e gli stu­denti in par­ti­co­lare, che hanno avuto accesso fin qui con più faci­lità agli scritti sag­gi­stici e agli epi­grammi (spesso fol­go­ranti, ma nel com­plesso respon­sa­bili di un’idea par­ziale di For­tini: il ‘pian­ta­grane’, tutto idio­sin­cra­tico e umo­rale, in cui si iden­ti­fi­cano gli intel­let­tuali arrem­banti che esi­bi­scono come lascia­pas­sare gli animi for­ti­niani, frain­ten­den­doli). Che For­tini, ador­niano e mar­xi­sta ete­ro­dosso, sia stato anche un grande cri­tico e un grande pole­mi­sta è fuor di dub­bio: basta non far dipen­dere troppo la poe­sia dalle altre com­po­nenti del suo lavoro intel­let­tuale (e viceversa).
La seconda con­si­de­ra­zione riguarda la tenuta di quella poe­sia, che nei decenni non ha ceduto alla ten­ta­zione di rove­sciare il guanto, di invol­vere verso la rare­fa­zione o verso l’oltranza espres­siva. Le risorse reto­ri­che di For­tini si pre­ci­sano nel tempo ma non si smen­ti­scono; tra que­ste, spe­cial­mente nelle prime rac­colte, c’è il ricorso alle figure di ripe­ti­zione, usate per con­fe­rire al discorso la peren­to­rietà epico-sacrale della for­mula (con una fun­zione, per­ciò, quasi oppo­sta a quella dell’iterazione in Sereni): se è vero, come ha scritto Raboni, che For­tini è un «poeta essen­zial­mente metrico», è vero anche che tale qua­lità dipende dalla neces­sità di arti­co­lare la forma in strut­ture nette (quasi il cor­re­la­tivo for­male della sua ten­sione verso la verità). Nette, non esi­bite in volute manie­ri­sti­che. Quello di For­tini è uno stile disci­pli­nato, che si eleva basan­dosi più sulla costru­zione che sull’espressività.
Da qui occorre pro­ce­dere alla terza con­si­de­ra­zione indotta dalla rilet­tura dell’opera in versi: la sostan­ziale auto­no­mia dai modelli ita­liani sto­ri­ca­mente influenti. L’estraneità di For­tini all’ermetismo sem­bra innata alla sua scrit­tura; aspetto que­sto che appare tanto più note­vole quanto più si pensa alla sua età (nato nel ’17, For­tini è quasi coe­ta­neo di Luzi, Bigon­giari, Par­ron­chi) e alle sue ori­gini fio­ren­tine. Ma Firenze, che nelle poe­sie for­ti­niane resta per lo più il luogo dell’elegia (pen­siamo a «Cam­po­santo degli Inglesi» o a «Nella mia casa di Firenze»), fu comun­que impre­scin­di­bile: come spiega Len­zini, nella sua bella, lucida intro­du­zione, il «carat­tere vel­lei­ta­rio e regres­sivo», per­ce­pito nella cul­tura fio­ren­tina dei primi anni di for­ma­zione, ali­mentò in For­tini quasi un senso di colpa e un con­se­guente risen­ti­mento verso un’aristocrazia intel­let­tuale dalla quale si tenne distante, ma da cui pure si sentì con­ta­mi­nato, per certi resi­dui di este­ti­smo. Lon­tano è anche Mon­tale, di cui For­tini risente, sì, ma nei tratti este­riori: la mise en page dei mot­tetti, ad esem­pio, può aver agito su certi com­po­ni­menti di Foglio di via (soprat­tutto le Ele­gie); così come il for­mu­la­rio sintattico-lessicale di Ossi, Occa­sioni e Fini­sterre può aver inciso nei tim­bri e nei ritmi, nell’energetica del verso (emble­ma­tica è «Guarda que­sta rena», in Poe­sia e errore: «Umida l’ala che ora s’allenta / eli­tra nel mez­zodì sarà come stocco di spiga secante»). Ma sono forme di memo­ria pra­tica, che non impli­cano un’adesione né al sistema retorico-stilistico, né alla dispo­si­zione cono­sci­tiva e ideo­lo­gica di Mon­tale. Val­gono più per distin­guere che per assi­mi­lare. L’«Oscar Mon­da­dori», che rende dispo­ni­bile e frui­bile l’opera in versi for­ti­niana, con­tri­bui­sce a met­terne a fuoco pro­prio i carat­teri distin­tivi e a veri­fi­carne la con­si­stenza piena; senza, con ciò, monu­men­ta­liz­zare il poeta For­tini (vor­rei dire ancora: senza per­do­narlo, cano­niz­zan­dolo), ma rimet­ten­done in gioco i valori, lascian­doli tor­nare in circolo.