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 2014  novembre 29 Sabato calendario

GIONI: “ECCO LA MIA NUOVA BIENNALE”

[Intervista] –
«Il problema nella gestione dei musei è quello della divisione dei ruoli. In America è molto chiara: un donatore non interferisce mai nella programmazione scientifica. In Italia, le ingerenze nella cultura sono troppe: degli sponsor come della politica». Viaggiando verso Memphis e la casa di Elvis, un anno dopo la sua Biennale, Massimiliano Gioni racconta del modello americano dei musei, del conflitto pubblico- privato e anticipa la grande mostra che sta preparando con la Fondazione Trussardi in vista di Expo 2015.
La grande Madre sarà un allestimento di 2000 metri quadri, al piano nobile del Palazzo Reale di Milano. Il progetto verrà annunciato ufficialmente entro una decina di giorni e aprirà tra nove mesi, il tempo di una gravidanza, appunto.
Gioni, conferma questo titolo?
«Sì. La Grande Madre racconterà l’iconografia e la rappresentazione della maternità. Ma sarà soprattutto una mostra sul potere della donna come potenza generatrice. In un Expo che parla di nutrizione volevamo partire dal principio: si analizzerà l’iconografia e la rappresentazione della maternità nell’arte del Novecento, fino a oggi».
Farà concorrenza alla Biennale?
«Non sarà ciclopica come la Biennale, non voglio creare false aspettative. Ma in qualche modo segnerà una linea di continuità con l’esperienza che ho fatto a Venezia: si tratta di una mostra enciclopedico- pedagogica di carattere storico. Ci saranno un’ottantina di artisti, dall’inizio del XX secolo ai contemporanei. Si inaugurerà nel secondo trimestre di Expo: resterà aperta dalla fine di agosto a metà novembre».
In Italia si dibatte ancora sul rapporto tra pubblico e privato nella gestione dei musei. Si stenta a trovare un giusto equilibrio. Il caso della successione alla direzione del Mart di Rovereto ne è un esempio. Qual è la sua opinione?
«Sono restio a parlare di politiche dei beni culturali: quando bisogna affrontare il tema, significa che qualcosa non va. Il fatto che io non lavori in un museo pubblico italiano vuol dire o che ho avuto paura che non ne sarei uscito vivo, o che ho trovato un migliore equilibrio altrove».
Altrove significa in America: dal dicembre 2007, lei è direttore artistico del New Museum di New York...
«In America i musei, come il mio, sono di fatto privati, ma in realtà non importa da dove vengano i soldi. I musei sono “pubblici” nella loro missione: hanno lo scopo di catturare l’interesse generale e garantire la propria credibilità. Conquistata questa, ricevono sgravi fiscali, pagano meno tasse e quindi, in qualche modo, sono pubblici».
C’è un modello americano che si potrebbe esportare in Italia?
«Negli Stati Uniti, storicamente, più soggetti privati si uniscono per creare musei: il Whitney e il Guggenheim sono nati così. E i donatori hanno affidato la gestione e la cura delle istituzioni a dei professionisti. I ruoli sono sempre stati molto ben definiti. Al New Museum io dipendo da un direttore esecutivo, che non è un manager, però: proviene da esperienze curatoriali. Questo è a sua volta soggetto a un board di donatori che non decide assolutamente nulla sulla programmazione scientifica. Il direttore esecutivo lavora perché il museo raggiunga un determinato successo: il giusto equilibrio tra il riconoscimento della comunità scientifica e l’affluenza di pubblico. I biglietti staccati non sono il solo parametro per valutare il successo».
In Italia, invece?
«Pubblico e privato non parlano la stessa lingua. Da un lato c’è una macchina statale burocratica, lenta, grigia. Dall’altra ci sono investitori che vedono il settore pubblico come un territorio da conquistare. Entrambe le parti dovrebbero riconoscere i propri limiti e le zone di non interferenza. Il pubblico deve accettare l’importanza del privato. E il privato deve capire che, se contribuisce al miglioramento di un’istituzione, non ne diventa però il padrone. Negli Stati Uniti i donatori si “accontentano” di riconoscimenti “immateriali”. C’è l’orgoglio di rendere un museo e una città un posto migliore. In Italia, mi pare siamo ancora lontani da questo. E poi c’è il problema della politica...».
Cioè?
«Anche qui, altre interferenze. La continuità dei direttori dei musei è messa a rischio. Spazi d’arte contemporanea che erano fiori all’occhiello del Paese mentre io mi formavo, hanno perso smalto, non sono più “aggressivi”. Penso a Rivoli, al Macro di Roma che non ha un direttore. A New York, ho un contratto di cinque anni. Nel mentre, possono rinnovarmelo o licenziarmi, indipendentemente dalla maggioranza politica».
Ci sono esempi virtuosi italiani?
«Spero che la collaborazione con il Comune di Milano per la mostra di Palazzo Reale possa diventarlo: con l’assessore Filippo Del Corno c’è un buon dialogo. Ma oggi le maggiori novità in questo settore arrivano dalla moda, che ha intercettato la velocità di comunicazione del contemporaneo. Fondazioni come Trussardi, Sandretto, Prada hanno portato avanti una ricerca che ha una missione “pubblica” nell’offerta. L’unica critica che si può muovere è che le fondazioni legate alla moda prediligono visibilità e mostre che facciano parlare. Ma mi sembra il male minore».
La Fondazione Trussardi da dodici anni è una costante nella sua vita...
«La considero un’istituzione “pubblica” nell’accezione americana: utilizza e valorizza spazi pubblici e propone ogni anno mostre gratuite. Quando è nata, con Beatrice Trussardi, volevamo dimostrare che un museo esiste con le idee: non servono le cattedrali nel deserto costruite dalle archistar».
Cosa si aspetta dalla Biennale d’arte di Okwui Enwezor?
«La scelta del presidente Paolo Baratta è stata geniale: a una Biennale intimista, come è stata la mia, seguirà una mostra progettata dal curatore più interessato all’arte come fenomeno politico. Dalle ossessioni private alla res publica ampia. Enwezor si è sincronizzato sui movimenti sociali di più parti del mondo, ha una visione geografica allargatissima».
Durante la Biennale, si leggerà Marx.
Lei ha letto Il Capitale?
«Solo alcune parti».
Cosa si fa quando a 41 anni si è già guidata la Biennale di Venezia?
«Non lo so. Il problema della Biennale è non lasciare che ti dia alla testa. Harald Szeemann, dopo la mastodontica Documenta del 1972, allestì una piccolissima mostra nel suo appartamento dedicata al nonno parrucchiere. Nel mio caso, avere il lavoro alla Fondazione Trussardi e al New Museum mi garantisce la continuità di un progetto. Dopo aver preparato il banchetto della regina, torno a fare da mangiare per trenta persone».
Dario Pappalardo, la Repubblica 29/11/2014