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 2014  novembre 29 Sabato calendario

LA VERSIONE DI ALBERTO

Le vicende che hanno determinato il dissesto del gruppo Ligresti e gli accadimenti che nel corso del 2012 hanno portato Fondiaria-Sai sotto il controllo di Unipol, tornati all’onore delle cronache dopo la chiusura delle indagini da parte del pubblico ministero di Milano Luigi Orsi sul presunto patto occulto tra Salvatore Ligresti e l’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel, non possono essere compresi fino in fondo senza focalizzare l’attenzione su quello che è forse l’aspetto-chiave di tutta la vicenda: l’evoluzione storica del rapporto tra l’ingegnere di Paternò e la sua famiglia e la banca d’affari milanese. Un rapporto che in molte occasioni è stato rappresentato aderendo acriticamente a una tesi tanto suggestiva quanto semplicistica, che pur basandosi su una verità storica (il rapporto trentennale tra i Ligresti e Mediobanca) l’ha proiettata fino ai giorni d’oggi. Questa tesi è la seguente: se i Ligresti hanno potuto fare per oltre dieci anni quello che hanno fatto, utilizzando risorse del gruppo assicurativo Fondiaria-Sai per finanziare non solo le imprese di famiglia ma anche i vizi privati dei suoi componenti, un’importante fetta di responsabilità, oltre che dei regolatori compiacenti, a cominciare dall’Isvap e dalla Consob, è stata principalmente di Mediobanca e di chi l’ha guidata. L’istituto di Piazzetta Cuccia, secondo questa tesi, in quanto principale creditore di Fondiaria-Sai, avrebbe tollerato la scellerata gestione della compagnia da parte di Salvatore Ligresti e dei suoi figli, alla luce del fatto che FonSai ha rappresentato almeno per un decennio uno snodo centrale di quella rete di partecipazioni incrociate, una volta conosciuta come Galassia del Nord, che aveva in Mediobanca l’epicentro e sulla quale la banca d’affari avrebbe costruito nel tempo la sua forza. Una tesi che Nagel ha provato a confutare negli interrogatori con il pm, forte del cambiamento nella governance di alcuni dei grandi gruppi partecipati da Piazzetta Cuccia, tra cui Rcs, Telecom Italia e Generali, celebrato come la «fine dei patti di sindacato». Si tratta di uno spaccato, secondo la versione di Nagel, delle tensioni tra grandi soci e manager all’interno del cda di Piazzetta Cuccia che alla fine sarebbero poi deflagrate con soluzioni molto nette.
Nel verbale dell’interrogatorio del 1° agosto 2012 davanti a Orsi sulla vicenda del famigerato «papello» contenente i desiderata dei Ligresti per farsi da parte, è proprio l’amministratore delegato di Mediobanca a soffermarsi in modo dettagliato sull’evoluzione del rapporto tra la famiglia Ligresti e la banca d’affari, cercando di sfatare alcuni luoghi comuni e dando un nome e un cognome a quelli che, a suo modo di vedere, sono stati i veri referenti dell’ingegnere di Paternò nel sistema finanziario italiano. Si tratta di un documento che, al di là della specifica vicenda, su cui dovrà pronunciarsi un giudice, ha una particolare rilevanza, considerato che mai prima d’ora in occasioni pubbliche Nagel (fedele alla tradizione della casa, il banchiere non concede interviste) aveva preso posizione ed espresso considerazioni. Milano Finanza pubblica uno stralcio di quell’interrogatorio di cui è venuto in possesso. Una fotografia, benché vista dall’obiettivo di Nagel, utile per leggere gli eventi che negli ultimi anni hanno trasformato la finanza milanese e non solo.
I nuovi equilibri dopo Maranghi. Il racconto di Nagel inizia dal momento in cui, nella primavera del 2003, dopo l’allontanamento di Maranghi da Mediobanca ad opera dei principali soci della banca d’affari (l’Unicredit guidata da Alessandro Profumo e la Banca di Roma di Cesare Geronzi, con il supporto decisivo di Vincent Bolloré), assunse il ruolo di direttore generale dell’istituto. «Il rapporto con la famiglia Ligresti è un rapporto che Mediobanca ha da tanti anni e che io, quando sono succeduto a Vincenzo Maranghi nelle funzioni di direttore generale nel 2003, ho ereditato», spiega Nagel al pm. L’attuale numero uno della banca d’affari tiene subito a precisare però che proprio in quella fase ci fu un «cambiamento nel rapporto tra Ligresti e Mediobanca, nel senso che Mediobanca era esposta nei confronti del gruppo Ligresti, ma Ligresti aveva cambiato con la cacciata di Maranghi i suoi punti di riferimento». Prima di addentrarsi nella spiegazione dei nuovi equilibri nell’azionariato di Mediobanca, Nagel si sofferma sulla fusione del 2002 tra la Sai dei Ligresti e la Fondiaria, operazione che era stata caldeggiata da Maranghi ma i cui esiti non erano stati quelli attesi, anche alla luce della decisione dell’Ingegnere di licenziare dopo pochi mesi Enrico Bondi, il manager che, nella visione di Mediobanca, avrebbe dovuto fare da filtro tra famiglia azionista e la gestione della nuova compagnia. Una scelta, quella di Maranghi di affidare il controllo della Fondiaria ai Ligresti, che Nagel col senno di poi giudica sbagliata. «Secondo me fu un errore perché Maranghi pensava di avere una leva ancora su Ligresti e la leva di Maranghi e di Mediobanca su Ligresti è stata sempre quella di far gestire la società da soggetti con la schiena dritta. Quindi prima c’era Ciani, poi Maranghi suggerì Bondi e il signor Bondi venne licenziato dai figli di Ligresti, che sono l’origine di tutti i problemi».
Secondo il racconto di Nagel, è contestualmente all’uscita di scena di Bondi e all’ingresso dei figli di Ligresti nella stanza dei bottoni della nuova FonSai che, caduto anche Maranghi, i grandi azionisti della banca d’affari, riuniti nel patto di sindacato, prendono il sopravvento sul management. Ed è proprio con i grandi azionisti, prima Geronzi e Bolloré e poi, a partire dal 2007, anche Profumo, che, secondo la ricostruzione di Nagel, i Ligresti stringono un asse di ferro. Spiega Nagel: «Cioè nella testa dei Ligresti loro come ragionano? Chi è che ha il potere? Non c’è più Maranghi, c’è un illustre sconosciuto che si chiama Nagel e quindi sono i suoi azionisti quelli con cui noi ci dobbiamo interfacciare. E chi sono i suoi azionisti? Si chiamano Geronzi, Bolloré e Profumo. Ligresti», spiega ancora il banchiere, «trattava direttamente con i soci», mentre il management di Mediobanca aveva rapporti con chi operativamente guidava Premafin (Novarese e Carlino) e Fondiaria-Sai (Marchionni ed Erbetta). In altre parole, spiega Nagel al pubblico ministero, il management di Mediobanca non aveva il potere di dire a Ligresti «queste cose tu non le fai».
Management in minoranza su Rcs. L’ad di Mediobanca porta anche esempi concreti di come l’influenza dei grandi soci sulle decisioni strategiche dell’istituto fosse di gran lunga superiore a quello del management. «Siamo nel 2003-2004, Gabriele Galateri fa il presidente di Mediobanca, io faccio il direttore generale e Renato Pagliaro fa il condirettore generale. Romiti è uno dei principali azionisti di Rcs. A un bel momento i pattisti di Rcs pensano che sia utile liquidarlo e quindi comprarsi le sue quote. Noi compriamo la quota di nostra spettanza. La Fiat non fa il suo giro di prelazione, perché allora non aveva disponibilità. Io, Pagliaro e Galateri diciamo al consiglio: non è opportuno che Mediobanca cresca in Rcs. Lo facciamo solo sulla nostra quota. Su quella che spetta alla Fiat passiamo la mano, perché non crediamo che sia utile investire in un quotidiano». Ma la posizione del management, fa notare Nagel a Orsi, non passa per l’opposizione dei soci forti. «Andiamo in minoranza in consiglio», sottolinea il banchiere, e Mediobanca ha rilevato parte del pacchetto Rcs di Fiat pagando 4 euro ad azione. Un investimento che non si è certo rivelato azzeccato, considerato quanto perso da Piazzetta Cuccia sul titolo di via Rizzoli.
La fusione Unicredit-Capitalia. Nel 2007 Unicredit e Capitalia, che assieme detenevano il 18% di Mediobanca, annunciano un accordo di fusione. «Come parte di questo accordo», spiega Nagel al pm, «ci sta il fatto che il presidente di Capitalia (Geronzi, ndr) diventi vicepresidente di Unicredit , ma nella realtà non lo diventerà mai e diventerà subito presidente di Mediobanca». «Per noi» manager, osserva il banchiere, «è una fregatura. Per indorarci la pillola decidono di fare un cambio della governance e quindi passare dal modello tradizionale al dualistico, con Geronzi che diventa presidente del consiglio di sorveglianza. Pagliaro diventa presidente del consiglio di gestione e io consigliere delegato della banca. Ovviamente i Ligresti, festanti, votano questa cosa qua. Votano nel consiglio e nel patto perché Salvatore Ligresti è presente nel patto come individuo, mentre Jonella è stata a lungo consigliere di Mediobanca». Il sistema dualistico in Piazzetta Cuccia dura però solo un anno. «Dopo un anno che è con noi Geronzi, siccome capisce che la banca è un po’ diversa da lui, decide di dire “ma con questo consiglio di sorveglianza io non vedo niente, non partecipo manco alle riunioni” e spinge di nuovo per cambiare e tornare al modello tradizionale». Una richiesta, quella dell’ex presidente di Capitalia, che vede il pieno appoggio della famiglia Ligresti e che trova allineati anche Bolloré e l’ad di Unicredit, Profumo. A quella richiesta però il management si oppone. «Noi protestiamo e diciamo: scusate, al mercato avete detto che volete il dualistico, perché c’è Geronzi e adesso lo avvicinate alla gestione dopo un anno?». A fianco del management di Piazzetta Cuccia si schiera solo Dieter Rampl, l’ex manager di Hvb che allora ricopriva la carica di presidente di Unicredit e vicepresidente di Mediobanca. Ma la decisione passa comunque. Secondo Nagel, dunque, «ci sono plurime evidenze che (i Ligresti) hanno fatto asse con i soci importanti, una volta che Maranghi era uscito, perché hanno capito, anche correttamente dal loro punto di vista, che il potere stava là e non stava presso di noi, che eravamo visti come dei manager che facevano il loro dovere».
Geronzi passa alle Generali. L’asse tra Geronzi, Profumo, Bolloré e Ligresti ha un ruolo determinante, secondo Nagel, anche nel passaggio dell’ex presidente della Banca di Roma da Mediobanca alle Generali. Spiega Nagel a Orsi: «Nell’aprile 2010 Geronzi vuole andare alla presidenza delle Generali e io gli dico: secondo me non è un posto adatto a te e tu non sei adatto alle Generali». Ma anche in questo caso la volontà dei soci ha il sopravvento su quella del management della banca d’affari, che della compagnia triestina è il primo socio con circa il 13%. «La mia battaglia è perdente», continua Nagel, «perché nel comitato nomine di allora io e Pagliaro siamo in minoranza e quindi i soci sono favorevoli a che Geronzi vada a fare il presidente». Una posizione più che legittima da parte degli azionisti ma che il management, evidentemente, non prende bene.
L’accordo Ligresti-Groupama. È proprio dopo il passaggio di Geronzi a Trieste che vengono gettate le basi per l’accordo (supportato, secondo Nagel, anche da Bolloré e Profumo e gradito anche dal governo di Silvio Berlusconi) tra la famiglia Ligresti e la compagnia francese Groupama, socia di Mediobanca. Un accordo che, oltre a dare respiro a FonSai e Premafin, che già nel 2010 cominciavano a registrare segnali di crisi, avrebbe garantito una stabilizzazione degli assetti proprietari di Piazzetta Cuccia ostile alle prerogative del management della banca d’affari. I Ligresti e Groupama, spiega Nagel a Orsi, «fanno un accordo nei nostri uffici senza dire nulla, perché probabilmente capiscono che noi vediamo questa manovra in maniera non positiva».
Cade Profumo, cade Geronzi. «La situazione cambia», osserva Nagel, «nel momento in cui Profumo e Geronzi non hanno più rivestito le cariche che avevano fino a quel momento». L’uscita di Profumo da Unicredit, principale creditore delle società non quotate dei Ligresti, e l’arrivo al suo posto di Federico Ghizzoni mettono i Ligresti all’angolo. La Consob di Giuseppe Vegas boccia l’accordo con Groupama e crea le condizioni per l’ingresso di Piazza Cordusio nel capitale di FonSai. Nel frattempo (siamo nell’aprile 2011) a Trieste va in scena lo scontro frontale tra Geronzi e una parte del consiglio di amministrazione delle Generali, con in prima fila Nagel e l’amministratore delegato della De Agostini Lorenzo Pellicioli. «Io in particolare convinco Geronzi alle dimissioni», fa notare Nagel al pm. «Geronzi esce di scena e si aprono le condizioni per cambiare la governance di Mediobanca». Con Unicredit «dentro nella FonSai» e «una Mediobanca più indipendente e libera» i Ligresti «non possono più fare quello che hanno sempre fatto negli ultimi dieci anni.
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 29/11/2014