Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 29/11/2014, 29 novembre 2014
LA GUERRA DEL TESORO CONTRO I DERIVATI APERTI DALLE REGIONI
La posta in gioco è altissima: smontare quella cattedrale di derivati sul debito delle amministrazioni pubbliche che in questi anni ha arricchito banche, consulenti e avvocati creando buchi milionari nei conti di Comuni, Regioni e anche Stato centrale (nel 2012 il governo Monti pose fine a un contratto con Morgan Stanley pagando un’enormità, 2,6 miliardi di euro). Se riesce l’operazione sulle otto Regioni pilota, tutto cambierà. Sono in molti a disperarsi e quindi è cominciato una sottile azione di lobbying per far saltare il progetto del Tesoro che porterebbe benefici alle casse pubbliche, ma estinguerebbe una fonte finora generosa di benefici per molti, grazie ad amministratori locali sprovveduti o corrotti.
Il tesoro sta aiutando otto Regioni a ricomprarsi il proprio debito sul quale sono stati stipulati derivati, sostituendo i crediti verso banche private a crediti verso il ministero. Per questo piano la legge di Stabilità 2014 ha messo a disposizione 8,2 miliardi di euro: lo Stato si indebita agli attuali tassi di mercato molto bassi e poi presta i soldi alle Regioni che si ricomprano vecchio obbligazioni costose nei portafogli dei loro creditori. Se si estingue il debito, va chiuso anche il derivato costruito a suo tempo su quel prestito (di solito venivano fatti per proteggersi da rischi come un improvviso aumento dei tassi, convertendo una rata variabile in una fissa, oppure, se in altre valute, dal rischio di cambio).
Con qualche numero si capisce meglio: il Lazio ha rinegoziato un debito da 5 miliardi con scadenza 2037. Dopo aver trasformato un debito verso le banche in un debito verso il Tesoro (e dopo il pagamento della rata 2014), la nuova scadenza è 2044, il capitale da rimborsare 4,4 miliardi e la rata annua di interessi è scesa da 325,4 milioni a 240,6. Un risparmio di 84,9 milioni all’anno per la Regione Lazio che si somma a quello di 5,6 ottenuto rinegoziando un altro debito da 3 miliardi. La Campania ha fatto l’operazione su 1 miliardo di debiti e ora risparmia 16,8 milioni l’anno. La Sicilia, rinegoziando 2,6 miliardi, ora ha un beneficio di 43,8 milioni annui. Il decreto Irpef, quello sugli 80 euro di Matteo Renzi, stabilisce che le Regioni possono rinegoziare i contratti derivati soltanto se alla fine ci guadagnano: non possono chiudere alcuna operazione che faccia aumentare l’indebitamento della Pubblica amministrazione. E i risparmi di spesa devono andare “prioritariamente” a rimborsare i debiti arretrati delle Regioni verso i fornitori.
Il modo in cui è scritta la norma ha suscitato una dialettica piuttosto vivace tra ministero del Tesoro e Regioni: visto che sono vietate le operazioni in perdita, se un’amministrazione non rinegozia i suoi derivati pur potendolo fare (i risparmi si possono stimare ex ante), potrebbe rischiare un intervento della Corte dei conti per danno erariale. Ma come, si può risparmiare e voi non lo fate, magari per proteggere gli interessi di una banca?, direbbero i magistrati contabili. La Lombardia di Roberto Maroni, per esempio, è una delle Regioni ancora incerte se aderire, anche se è tra quelle che potrebbe avere i benefici maggiori visto che un decreto di luglio l’ha autorizzata a rinegoziare un costoso prestito da 1 miliardo con scadenza 2032.
La legge di stabilità 2014 che ha dato il via alle rinegoziazioni ha stabilito un’altra novità cruciale: gli enti locali hanno il divieto di aprire nuovi derivati, l’epoca della finanza creativa è finita. Possono soltanto ristrutturare o estinguere in anticipo quelli già aperti. Da allora c’è chi cerca il modo di aggirare quel divieto: l’Anci, l’associazione dei Comuni che pure ufficialmente guarda con interesse alle ultime mosse del Tesoro, a ottobre ha pubblicato con il suo centro studi Ifel un quaderno dedicato a “L’uso dei derivati degli enti locali”. In quelle pagine si lamenta che non sia mai stato approvato un emendamento alla legge di Stabilità, che in questi mesi è rispuntato in versioni fotocopia più volte in Parlamento (sempre respinto), che introduceva “ulteriori disposizioni in materia di finanza locale degli enti locali” che in apparenza introduce requisiti più stringenti all’uso dei derivati. Ma, come si legge nella spiegazione, si riferisce anche alla “stipula” di nuovi contratti. Che è vietata dalla legge di Stabilità. Tradotto: è un modo per reintrodurre di soppiatto quanto il Tesoro ha bloccato (ma il tentativo è facile da riconoscere, perché il riferimento è sempre all’articolo 16 della legge di Stabilità, che però non esiste, perché aveva un unico articolo 1).
La partita è delicatissima, si decide il destino di miliardi di euro di denaro pubblico, se ne occuperà anche la Commissione di inchiesta sui derivati che sta per insediarsi, su iniziativa del deputato di Sel, Giovanni Paglia.
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Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 29/11/2014