Matteo Pucciarelli; Giacomo Russo Spena, il Venerdì 28/11/2014, 28 novembre 2014
I POPULISTI DEL PUGNO CHIUSO
MADRID. Non sono «né di destra né di sinistra», eppure le settemila persone stipate sugli spalti del palazzetto Vistalegre per l’assemblea di fondazione, alla periferia di Madrid, intonano El pueblo unido jamás sera vencido. Non sono «né di destra né di sinistra», eppure il leader Pablo Iglesias, 36enne professore universitario, saluta col pugno chiuso e cita Marx e Gramsci. Eccolo qui Podemos (possiamo), la scheggia impazzita della politica iberica: un movimento nato il febbraio scorso e che alle elezioni europee ha eletto cinque parlamentari; poi diventato partito ad ottobre e, secondo i sondaggi, già in testa nelle intenzioni di voto, scavalcando prima il Psoe e dopo il Pp in una rincorsa che non ha eguali nella storia della Spagna. Secondo un recente sondaggio di El País, il movimento sarebbe oggi al 27 per centro, contro il 26,2 dei socialisti. Tracollo del Partido Popular del primo ministro Mariano Rajoy, che passerebbe dal 44,6 per cento del 2011 al 20,7 per cento. Parole d’ordine vincenti? Democrazia, sovranità, cittadinanza, uguaglianza, trasparenza e utopia.
Un animale strano dove dentro si trovano tutti gli elementi della modernità, nel bene e nel male: l’utilizzo del web per le candidature e le proposte programmatiche, ma anche quello della televisione per far conoscere le proprie idee; il discorso post-ideologico che va oltre alle categorie classiche (destra vs sinistra) e che tenta un approccio diretto con gli elettori, senza intermediazioni. Così, come una formula matematica, ecco la politica che si fa tecnopolitica e offre un nuovo prodotto, subito richiestissimo sul mercato. Appunto, Podemos.
Un M5S in salsa spagnola? Le affinità ci sono, ma i primi a prendere le distanze dalla creatura del comico genovese sono proprio loro. «Siamo un’altra cosa» racconta Jorge Lago, responsabile culturale del partito e un passato nel partito comunista. «Noi applichiamo davvero la democrazia diretta: tutte le nostre decisioni passano dal portale podemos.info, che ha 260mila iscritti. Il sito non lo gestiamo noi, ma è in mano a una società esterna. Qui non vedrete mai un’epurazione di chi dissente con la linea politica, perché la linea la decide la base. E poi in Europa noi stiamo con Alexis Tsipras, Beppe Grillo ha scelto un conservatore come Nigel Farage». Certo è che Podemos (come i Cinque Stelle) ha trovato una prateria davanti a sé grazie alla crisi economica che in questi anni ha colpito la Spagna e alla contemporanea crisi del bipolarismo, piegato dalla cattiva gestione del potere quando la nave andava a gonfie vele (prima del 2008, il Pil viaggiava a un +4 per cento annuo) e da scandali e corruzione quando la bolla immobiliare è scoppiata, visto che mentre si chiedevano improvvisi e pesanti sacrifici, la classe politica non dava il buon esempio.
Per spiegare la genesi di un successo così repentino, non si può prescindere dallo stesso Iglesias, il cui volto era nel simbolo di Podemos alle europee, caso più unico che raro. È stato lui, conosciutissimo opinionista televisivo, il creatore e il megafono del movimento. Fidanzato con una dirigente di Izquierda Unida (la federazione della sinistra radicale), un passato di studente in Erasmus a Padova (e da lì la tesi sui disobbedienti di Luca Casarini), è l’uomo politico più scandagliato del momento, anche fuori dai confini nazionali. Linguaggio elegante ma diretto, una discreta parlantina e capello lungo legato – da cui il suo soprannome el coleta (il codino) – rivendica quella che altrove è considerata una parolaccia: populismo. Declinandola in un programma politico radicale ma chiaramente di sinistra, anche se «a me non interessa l’unità della sinistra, ma quella popolare, del 99 per cento contro l’1». La nuova dicotomia è quella del basso contro l’alto. Il ragionamento è stato semplice: se l’80 per cento degli spagnoli condivideva o comunque simpatizzava con le ragioni degli indignados, perché non trasformare quel sentire comune in consenso elettorale? Per farlo, però, occorreva non limitare il recinto a sinistra. Bisognava parlare a tutti, al pueblo. «Se volevamo fare bene, non dovevamo fare quello che la sinistra avrebbe fatto», è la provocazione ripetuta più volte dallo stesso Iglesias. Ovvero, quel parlare sempre a se stessa, di se stessa, senza saper cavalcare l’onda del momento.
L’odio contro la casta, ad esempio. Chi se ne importa se la retorica del nuovo contro il vecchio è un po’ sempliciotta, l’importante è che faccia breccia. «La casta ci attaccherà, ma voi sorridete. Podemos è la scopa per spazzare via la corruzione dalla società spagnola. Vinceremo» eccita i suoi Iglesias. Che però quando parla di casta si riferisce, contemporaneamente, a quella politica e a quella finanziaria.
«Podemos si genera nel momento di massima crisi della politica e si configura come il più grande atto di insubordinazione a chi pensava di ricattare il Paese con la paura della crisi» racconta Miguel Urbán, uno dei fondatori, iPhone in mano ma con mascherina militante: il faccione di Marx. «Podemos trasforma l’indignazione in cambiamento politico. Con un programma, di fatto, già scritto nel maggio 2011, con le accampate davanti alla Puerta del Sol». Secondo Teresa Rodríguez, oggi eurodeputata, era necessaria la nascita di un soggetto «semplicemente perché nessuna delle opzioni politiche della sinistra ci convinceva né questa si è mostrata in grado di affrontare l’avanzata della destra: abbiamo accumulato l’indignazione provocata sia dalle misure antisociali, di austerità, autoritarie e antidemocratiche dell’élite che dalle vecchie organizzazioni incapaci di canalizzare il malcontento». Guai a definirli antipolitica però, «un termine del tutto fuorviante per dipingerci. Gli antisistema sono Psoe e Pp, perché loro stanno distruggendo la scuola e la sanità pubblica, loro deturpano l’ambiente e privano i cittadini dei loro diritti e di un futuro. Non certo noi».
A guidare il processo populista c’è una nuova generazione che guarda al modello latino-americano (da Evo Morales a Pepe Mujica), ma rifiutando la riproposizione degli classici, senza radici né simulacri Novecento. Negli attuali circoli di Podemos, quasi 1.500 sparsi per la Spagna, è impensabile trovare sulle pareti poster di Salvador Allende, Che Guevara o del subcomandante Marcos. Solo il viola, colore della ribellione di Podemos, con sopra un banalissimo cerchio bianco a raffigurare il potere decisionale diffuso. Sulle pareti della sede nazionale del partito a Madrid, non a caso, non c’è una immagine sacra, nessun santino della sinistra. Aria nuova, insomma.
Il programma di Podemos, in caso di vittoria alle elezioni del 2015, non sarà facile da realizzare. Salario minimo garantito a tutti, pensione a 60 anni, nazionalizzazione delle industrie strategiche, no agli sfratti, lotta all’evasione fiscale e più tasse per i ricchi, ristrutturazione del debito pubblico, no all’uscita dell’euro ma sì a una «nuova Europa» contro l’austerità di Angela Merkel. La quale, l’ascesa di Tsipras, rischia di ritrovarsi un altro piantagrane (definì così il leader di Syriza) alla guida di un Paese europeo, che stavolta però conta assai più della Grecia. Lo sa bene anche il mondo finanziario. L’agenzia di rating Standard & Poor’s in un report avvertiva come ci siano «rischi per l’economia spagnola per la possibile ascesa di forze politiche che producano scenari molto frammentati e mettano in pericolo la crescita».
Nei prossimi mesi Iglesias & Co. dovranno decidere se allearsi con altre formazioni e se sì, quali. Pare possibile un’intesa con Izquierda Unida e con altri movimenti indipendentisti di sinistra, visto che Podemos si schiera per l’autodeterminazione dei baschi e dei catalani. Intanto la lunga fase congressuale (è durata due mesi, si è snodata per metà su internet e per metà in assemblee tradizionali) ha dimostrato che il gruppo dirigente del neo partito ha idee diverse su che tipo di organizzazione prediligere. Se più novecentesca, con un ruolo centrale conferito ai circoli; o se più mobile e verticista, con la figura di Iglesias praticamente onnipotente, perlomeno in questa fase. Ha trionfato la seconda opzione. «Podemos vuole essere unicamente una forza governativa, per il potere, o anche un quadro di mobilitazione e di lotta? Il dibattito» dice la Rodriguez, finita in minoranza «si colloca in una tensione tra l’ambizione di arrivare al potere per via elettorale, non essendo troppo definiti sulle rivendicazioni, e il bisogno di precisare il nostro programma e ciò che difendiamo. Da un lato il rischio è che, se si precisano troppo le cose, questo possa farci perdere voti sul piano elettorale. Ma noi dobbiamo essere diversi rispetto a chi pensa che la partecipazione numerica tramite internet sia di per sé sufficiente».
Intanto el coleta, appena eletto segretario generale con un voto online a cui hanno partecipato 107mila persone (oltre 95mila hanno scelto lui), fa esercizi di realismo: «Adesso per noi comincia il difficile, ma non è niente rispetto a quando vinceremo le legislative».
Matteo Pucciarelli; Giacomo Russo Spena