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 2014  novembre 28 Venerdì calendario

L’OPEC NON TAGLIA, PETROLIO A PICCO

I membri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio si sono accordati per mantenere invariato il limite massimo di produzione di greggio, a 30 milioni di barili al giorno.
La decisione dovrebbe comportare un limitato taglio, 300 mila barili al giorno, rispetto all’output di ottobre. L’annuncio ha innescato un’ulteriore brusca ondata di vendite di contratti sull’oro nero, che già in mattinata avevano accusato una pesante flessione. I future sul Brent e sul Wti con consegna a gennaio hanno perso entrambi più del 7%, attestandosi rispettivamente a 72 e ai 69 dollari al barile, i livelli più bassi da quattro anni. Anche le valute dei grandi Paesi produttori di petrolio hanno ripiegato, con il rublo che ha toccato i minimi storici contro il dollaro, a quota 48,66.
Secondo gli analisti, il taglio di 300 mila barili al giorno non è sufficiente a ridurre gli squilibri del mercato petrolifero mondiale, causati in gran parte dall’aumento della produzione di greggio degli Stati Uniti, dall’aumento della produzione in Iraq nonostante la guerra contro l’Isis, e dalla più debole domanda un po’ in tutte le aree del mondo a causa del rallentamento dell’economia globale. Infatti gli esperti ritengono che l’Opec debba tagliare da 1 a 1,5 milioni di barili al giorno la produzione di greggio per far risalire i prezzi, che da giugno hanno perso più del 30%.
Inoltre, non è chiaro come il cartello agirà per far rispettare il target. La cosa non ha mancato di ripercuotersi sui prezzi delle azioni delle grandi compagnie petrolifere, tutte in calo: Royal Dutch Shell ha perso il 3%, Total il 2,9%, Bp e l’Eni il 2%.
«Nell’interesse di ristabilire l’equilibrio del mercato, la conferenza ha deciso di mantenere il livello di produzione di 30 milioni di barili al giorno, come concordato nel dicembre 2011», dichiara l’Opec nel comunicato successivo alla riunione, aggiungendo che i Paesi membri si sono inoltre accordati sulla «necessità di rimanere vigili date le incertezze e i rischi associati con gli sviluppi futuri dell’economia mondiale». Dopo la riunione il ministro dell’Energia degli Emirati Arabi Uniti, Mohamed Faraj Al-Mazrouei, ha dichiarato: «La decisione presa va a vantaggio del mercato, dei clienti e dell’economia mondiale». Parole che suonano come frasi di circostanza.
Certo, il crollo dei prezzi ha aiutato i consumatori dei Paesi sviluppati come gli Stati Uniti, dove l’uso della benzina rimane elevato. Ma la decisione dell’Opec di mantenere invariato il target di produzione è in realtà una soluzione di compromesso che cerca di soddisfare le pressioni contrastanti dei vari Stati membri. Infatti, mentre la maggior parte dei Paesi Opec desidera ridurre l’output per far salire i prezzi del greggio, i singoli membri non hanno voluto tagliare la produzione per paura di perdere i ricavi legati al petrolio e quote di mercato. Insomma, si è scatenata un’autentica guerra dei prezzi che sembra contraddire la stessa ragion d’essere dell’organizzazione viennese. Tanto che l’Arabia Saudita, il più grande produttore dell’Organizzazione, di cui di fatto è il leader, non ha voluto ridurre la produzione senza le garanzie di un impegno da parte degli altri Paesi del cartello.
Tra l’altro la competizione instauratasi in seno all’Opec non va neanche a vantaggio dei singoli Paesi membri. All’attuale livello dei prezzi, tra gli Stati appartenenti all’Organizzazione solo il Kuwait e il Qatar saranno in grado di equilibrare i bilanci pubblici il prossimo anno, e anche i Paesi non-Opec che producono molto greggio, come la Norvegia e la Russia, hanno sofferto della recente caduta dei prezzi. Un altro problema per l’Opec è che se dovesse tagliare l’output drasticamente, il conseguente rincaro del petrolio finirebbe per incentivare ancora di più la produzione di idrocarburi da scisto degli Stati Uniti e del Canada, portando il cartello a perdere una fetta significativa della sua quota di mercato globale. Anzi, alcuni osservatori sospettano che la decisione di non tagliare sia stata presa proprio nel tentativo di mettere fuori mercato gli Usa, dove di recente il Congresso ha rimosso il divieto all’export di petrolio.
Da segnalare infine che il Parlamento della Nigeria ha stabilito che Royal Dutch Shell dovrà risarcire 3,96 miliardi di dollari per la fuoriuscita di petrolio dal suo giacimento offshore di Bonga, avvenuta nel 2011. Sempre in Nigeria Shell è già nel mirino di una class action per altre due fuoriuscite di petrolio nel delta del Niger nel 2008.
Francesco Colamartino e Jessica Longarini, MilanoFinanza 28/11/2014