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 2014  novembre 28 Venerdì calendario

UCCIDERSI MENTRE SI MUORE


Roma, 29 novembre 2010. Mario Monicelli, che ha già compiuto 95 anni (è nato il 16 maggio 1915), si getta dal quinto piano dell’ospedale San Giovanni, «presso cui è ricoverato per un cancro alla prostata in fase terminale» (Pascal Schembri, Mario Monicelli: la morte e la commedia. Armando Curcio Editore, Roma, 2013).
Monicelli è uno dei registi più celebrati in Italia. Ha saputo arricchire lo stile del racconto che si definisce «commedia all’italiana», togliendole il lieto fine, e sostituendolo con una conclusione che si pone tra il tragico e l’ironico.
L’elenco dei film che ha diretto è impressionante. Comincia nel 1934 (ha 19 anni) con Il cuore rivelatore e l’anno successivo prosegue con I ragazzi della via Paal. Nel 1951 raggiunge la popolarità con Guardie e ladri, nel 1957 con Padri e figli, nel 1958 con I soliti ignoti: un grandissimo successo. Da questo momento è più difficile individuare i non-successi, tanta è la sua capacità di interpretare il popolo italiano inclusi i comportamenti che egli non approva, ma che ama profondamente.
L’Armata Brancaleone è del 1966 e segna l’inizio di una serie che porterà questo nome. Nel 2010 produce l’ultima sua opera, incompleta, che ha per titolo proprio La nuova Armata Brancaleone. Dura soltanto 4 minuti, ma è straordinariamente indicativa di come Monicelli stesse lavorando nello stesso anno in cui decide di uscire di scena.
La scelta della solitudine
In una intervista per il suo novantesimo compleanno, dichiarava: «Spero di compierli sul set o in moviola. O morto sul campo. Perché nella vita io ho messo il lavoro davanti a tutto: all’amicizia, all’amore, a qualsiasi persona o responsabilità» (ibidem). La sua vita è un agire, un fare, e sembra che gli sia incomprensibile potersi dedicare a quell’otium che, fin dalla classicità, è considerato parte della saggezza.
Abitualmente si considera la solitudine nella vecchiaia la più grave delle disgrazie, sovente la si sente come una spinta a immaginare e a desiderare la morte. La solitudine, dunque, come anticamera della fine.
Non è così per Monicelli che, in una intervista del 7 giugno 2007 a «Vanity Fair» afferma che «preferisce vivere da solo per rimanere vivo il più a lungo possibile». Si distacca anche dalla sua compagna, Chiara Rapaccini, con cui si era unito all’età di 59 anni mentre lei ne aveva 19, e con la quale aveva generato una figlia, Rosa (quando lui aveva 74 anni e lei 34).
Teorizza che «la donna è infermiera nell’animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta a interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito» (ibidem).
Una solitudine, in ogni modo volontaria, che comporta un distacco dai legami affettivi. Gli unici che rimangono in piedi sembrano essere gli impegni di lavoro. Una posizione che mostra il suo cinismo, ma anche la sua lucidità. Cinismo, perché forse non si è nemmeno mai chiesto che cosa significasse per gli altri questa sua presa di posizione.
Ciò che colpisce in questa storia è il suicidio che sembra porsi proprio vicino alla morte «naturale». Verrebbe da dire che Monicelli mette in pratica un desiderio che è stato più volte espresso dall’uomo: poter beffare la morte, uccidendosi un secondo prima che sia lei a farlo.
Si trova in una stanza d’ospedale, il male alla prostata è probabilmente molto vasto e ha già prodotto metastasi, avverte un limite che i medici certamente gli mettono di fronte.
La finestra è aperta, e segue una pulsione, conseguenza di una considerazione, forse inconsapevole, che egli non si potrà più presentare sul set in quelle condizioni.
E così, egli stesso, diventa protagonista tragico di una nuova commedia all’italiana, che dura il tempo di un volo, quello che dal quinto piano del reparto di urologia lo fa sbattere sul selciato. Diventa egli stesso uno di quegli eroi che aveva prima fatto interpretare a Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Vittorio Gassman.
La smorfia di un sorriso amaro
Il suo «amore» per il suicidio risale a molti anni prima: nel 1946 il padre Tomaso si suicida. Era un giornalista che aveva diretto «Il Resto del Carlino». Un giornalista antifascista.
Così Monicelli ne parla: «Ho capito il suo gesto, era stato tagliato fuori ingiustamente dal suo lavoro, anche a guerra finita e sentiva di non aver più niente da fare qua. La vita non è sempre degna di essere vissuta, se smette di essere vera e dignitosa, non ne vale la pena. Il cadavere di mio padre l’ho trovato io. Verso le sei del mattino ho sentito un colpo di rivoltella, mi sono alzato e ho forzato la porta del bagno. Tra l’altro un bagno molto modesto» (ibidem).
Schembri si sofferma proprio su quest’ultima espressione – «tra l’altro un bagno molto modesto» – e scrive: «Il dettaglio sul rango del gabinetto in cui il padre giaceva morto, è di un cinismo straordinario. Sposta la fecalizzazione del pathos su un particolare squallido che solleva sulle labbra la smorfia di un sorriso amaro... Monicelli non lascia spazio a sentimentalismi. Li evoca per irriderli... È il suo modo di esorcizzarli... Peccato che non abbia lasciato un biglietto per dire com’era la camera dell’ospedale o l’asfalto su cui avrebbe cozzato» (ibidem).
Credo che non vi sia nulla del paziente depresso dentro questo gesto nemmeno nulla dell’eroe che sfida il destino; appare proprio come uno dei poveracci che egli mette in scena nei su film e che gli servono per descrive questo paese «pieno di perdenti». Dice «A me è sempre piaciuto parlare di questi poveracci... troppo sprovveduti per fare i malviventi, troppo pigri e opportunisti per diventare persone rispettabili» (ibidem).
Niente di serio
Il motto di Monicelli potrebbe esse «Niente di serio negli italiani» (ibidem). Nemmeno nel loro suicidarsi. Anche suo gesto «mostra all’Italia la sua ipocrisia, a una popolazione le sue bassezze, a una società i suoi vizi, e questo e il compito della Commedia» (ibidem).
L’aveva teorizzato già Molière nella prefazione a Il Tartufo. In fondo anche Monicelli si mostra Un borghese piccolo piccolo (titolo di un suo film del 1977 tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami). Certo non è questa l’espressione adatta alle sue convinzioni politiche, che si sono collocate a sinistra, e a lungo in Rifondazione Comunista ma un conto sono le ideologie e un altro i comportamenti della vita quotidiana.
Non siamo riusciti a trovare nemmeno un riferimento che ci riportasse alla psicopatologia, mentre questo suicidio ci ha stimolato a interrogarci su quale sia la migliore definizione di vita nel tempo presente, in questa società.
Mi pare che il termine di «funzioni vitali», quelle dell’attività cardiaca o i neuroni che possono giungere all’elettroencefalogramma piatto, non sia più adeguato. La vita si lega oggi al quantum di protagonismo che l’azione questi organi rendono possibile all’individuo; per Monicelli, vivere significa guardare il mondo dietro una macchina da presa. Nel novembre del 2010 la prostata aveva deciso di impedirglielo.