varie 28/11/2014, 28 novembre 2014
ARTICOLI SUL PETROLIO DAI GIORNALI DI VENERDI’ 28 NOVEMBRE 2014
MAURIZIO MOLINARI, LA STAMPA -
L’Opec decide di non tagliare la produzione di greggio premiando la strategia saudita di tenere bassi i prezzi per mettere in difficoltà i produttori nordamericani di “Shale Oil”, contando sul sostegno della Russia di Putin. Dall’andamento della sbrigativa riunione dell’Organizzazione dei 12 maggiori produttori di greggio (Opec) a Vienna esce una duplice novità: gli sceicchi di Riad considerano lo “Shale Oil” a stelle e strisce il maggior avversario e per metterlo fuori mercato sono alla guida di una coalizione di pozzi da Hormuz alla Siberia.
È la cronaca di quanto avviene dentro e fuori della sede Opec a Vienna che descrive i contenuti del «summit petrolifero più importante del secolo» come alcuni analisti lo definiscono. Il ministro saudita del Petrolio, Ali al-Naimi, inizia la giornata con un comunicato diffuso prima di uscire dall’hotel: «C’è l’accordo con i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo sul mantenimento della produzione a 30 milioni di barili al giorno». Ovvero: Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Qatar fanno quadrato con Riad. Poco dopo, entrando nella sede del summit, al-Naimi ricorda ai reporter in attesa che «c’è convergenza con la Russia».
Mosca non appartiene all’Opec ma è uno dei maggiori produttori, teoricamente dovrebbe sostenere un taglio della produzione perché ha bisogno di prezzi alti per equilibrare le finanze pubbliche ma sei giorni prima al Cremlino il ministro degli Esteri Segrei Lavrov ha siglato un patto con il collega saudita Saud Al-Faisal su «crisi regionali e greggio» che include l’avallo alla strategia di Riad. Il sostegno di Mosca conta per Ali al-Naimi perché è la carta che, al tavolo del summit, gli consente di neutralizzare l’opposizione dell’Iran, favorevole assieme a Iraq, Algeria, Venezuela e Libia a tagliare la produzione di 1 o 2 milioni di barili. Mosca è l’alleata strategica di Teheran in Medio Oriente – dalla difesa di Bashar Assad in Siria, al negoziato sul programma nucleare ancora in corso fino al patto per la fornitura di otto reattori – e gli ayatollah non vanno contro il Cremlino.
La seduta del summit Opec dunque si conclude senza storia – assicura chi siede nella sala – e poco dopo le 16 l’intesa è ufficiale: «La produzione resta stabile, niente vertici straordinari fino a giugno». Immediata la reazione sui mercati con il Brent che perde 6 dollari, attestandosi a 71,25 a barile.
«È una grande decisione» commenta Ali al-Naimi sfoggiando il sorriso del vincitore mentre da Mosca è Leonid Fedun, vicepresidente del gigante energetico Lukoil, a chiarire i motivi della scelta di Lavrov: «La politica Opec porterà al collasso la produzione di Shale Oil americano». Il riferimento è al boom di estrazione di greggio estratto con la tecnologia del “fracking” in Usa e Canada che sta consentendo al gigante nordamericano di emanciparsi dalla dipendenza dal Golfo fino ad accarezzare il miraggio dell’indpendenza energetica.
Per gli sceicchi del Golfo significa perdere l’acquirente più importante e la contromossa sono i prezzi bassi perché, come spiega Olivier Jakob di “Petromatrix”, «l’interesse dell’Opec è rallentare lo sviluppo dei progetti energetici in Nordamerica» che diventano fuori mercato se il prezzo dei barile si avvicina a 60 dollari. Non a caso il ministro del Petrolio kuwaitiano, Ali Saleh al-Omair, e quello iracheno, Adel Abdel Mehdi, parlano di un «limite minimo di 60-65 dollari» che consentirà «un nuovo equilibrio negli anni a venire sopra gli 80 dollari».
È la scommessa di Riad e Mosca: trasformare lo Shale Oil americano in un prodotto troppo caro al fine di prendere, assieme, le redini del mercato dell’energia globale. Per gli sceicchi di Riad significa fare lo sgambetto all’alleato Usa, partner privilegiato nel petrolio dai tempi di Franklin D. Roosevelt, mentre per Mosca è quella che alcuni reporter arabi definiscono “vendetta ucraina”: la risposta di Putin alla scelta di Washington di giocare la carta delle sanzioni economiche per mettere alle strette la Russia.
Maurizio Molinari
*****
LUIGI GRASSIA, LA STAMPA -
La benzina non smette di stupire. Ieri i prezzi del petrolio, cioè della materia prima per raffinare i carburanti delle auto, sono crollati dopo la decisione dell’Opec di non tagliare le quote di produzione. Il barile di Brent che fa da riferimento in Europa è sceso a 72,94 dollari e il Wti americano a 69,28 dollari. Gli automobilisti non pretendono che la benzina e il gasolio si adeguino di minuto in minuto, ma ormai il movimento al ribasso del greggio dura da cinque mesi ed è un fatto curioso che i prezzi dei distributori non se ne siano quasi accorti.
Un gap che si allarga
Ricostruiamo in poche battute la storia del 2014. Fra gennaio e giugno il Brent oscillava fra 105 e 115 dollari al barile e la benzina in Italia costava fra 1,7 e 1,8 euro al litro. La situazione era stabile e la relazione fra i prezzi di greggio e carburante appariva consolidata (e fondata, si suppone, su parametri oggettivi). Poi per il petrolio sono cominciati cinque mesi di declino ma con effetti insignificanti sui listini di benzina e gasolio (il che mette in dubbio l’oggettività dei parametri). Impressionante il confronto complessivo sugli undici mesi, fra il 5 gennaio e il 27 novembre: Brent a 107,78 dollari al barile e benzina a 1,729 al litro come dati di partenza, e come numeri finali 76,26 dollari e 1,718 euro al litro. Quindi il Brent in dollari ha perso il 29% e la benzina in euro solo lo 0,6 per cento.
Perché tanta timidezza
Le compagnie petrolifere potrebbero accampare tre giustificazioni. Siccome i prezzi del barile e del litro sono espressi in valute differenti, la diversa dinamica dei listini potrebbe essere attribuita alla variazione del cambio tra monete. Ma non è vero. Il cambio al 5 gennaio era 1,302 dollari per un euro, ieri ne bastavano 1,2481 ma la variazione percentuale del prezzo del petrolio negli undici mesi si riduce di poco se il barile si misura in euro (-26,2% anziché -29%).
La scusa delle scorte
Un’altra giustificazione tradizionale da parte delle compagnie è che bisogna prima smaltire le scorte di greggio comprate ad alto prezzo e solo in seguito, man mano che affluisce il petrolio meno caro, si possono adeguare al ribasso il listino della benzina e quello del gasolio. Ma neanche questa scusa regge. Fatto 100 il prezzo di inizio gennaio, le ultime scorte di greggio comprate a prezzo 100 risalgono a luglio; da allora a novembre si è smaltito così poco da giustificare un taglio del prezzo finale di appena lo 0,6 per cento?
Le quotazioni Platts
Dulcis in fundo la spiegazione più tecnica fornita dalle compagnie petrolifere: quella che fa riferimento alle quotazioni Platts. Quando né le variazioni del cambio né lo smaltimento delle scorte vengono in aiuto, si sostiene che la vera variabile a cui guardare non è il prezzo del barile di greggio ma quello dei carburanti raffinati, di cui l’indice Platts costituisce la sintesi. Ebbene, neanche da questa variabile arriva una giustificazione plausibile per la benzina troppo timida nell’andare giù: le quotazioni Platts sono scese negli ultimi mesi in parallelo con quelle del barile.
Tabarelli: 4,2 cent di troppo
Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, dice al telefono che «il Platts benzina il primo giugno era a 55 centesimi di euro al litro, adesso» (cioè ieri, ndr) «è sceso a 44,5 centesimi», quindi in calo drastico. Stessa storia per il prezzo Platts gasolio: «Il primo giugno era 56 centesimi, poi è crollato a 48,6».
Nomisma Energia pubblica regolarmente nel suo sito web l’andamento di quello che definisce il «prezzo ottimale» della benzina e del gasolio, confrontati con l’andamento dei prezzi reali. Nella schermata di ieri fra il prezzo ottimale della benzina, basato sulle quotazioni Platts, e quello effettivo al distributore, risultava uno scarto di 4,2 centesimi al litro, e per il gasolio un divario di 2,6 centesimi calcolato con gli stessi criteri.
Ma Tabarelli non è ottimista sul calo dei prezzi dei carburanti: fra l’altro segnala come possibile, e forse anche probabile, un rimbalzo del petrolio, che per le compagnie chiuderebbe il discorso.
Luigi Grassia
*****
ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE -
I mercati fanno i barili (di petrolio) ma non sempre i coperchi. Siamo così sicuri che il ribasso dell’oro nero ci porterà solo benefici? L’ultima guerra nel cuore del Medio Oriente, contro il Califfato, è la più paradossale vista negli ultimi anni: i prezzi del petrolio invece di salire, come quasi sempre è accaduto in passato, stanno crollando.
Non è questo l’unico precedente. Al vertice arabo del giugno 1990 Saddam Hussein esplose in una filippica contro il Kuwait e le monarchie del Golfo: «Estraete troppo petrolio, ogni calo di un dollaro della quotazione costa all’Iraq un miliardo l’anno. Contro di noi è in corso una guerra economica». Oggi sotto i 100 dollari al barile ci sono Stati che non raggiungono il pareggio di bilancio e come il Venezuela stanno esaurendo le riserve.
L’Iraq nell’estate del ’90 era diventato insolvente e non poteva rifondere i debiti contratti per fare la guerra all’Iran di Khomeini. Il greggio valeva in quel momento 11 dollari e la notte del 2 agosto del ’90 i carri armati iracheni invasero il Kuwait.
Ricordiamoci allora di questo vertice Opec che si è concluso lasciando invariata la produzione perché forse le decisioni di Vienna non ci accompagneranno a un roseo ribasso della nostra benzina ma verso orizzonti più oscuri e complessi. La spiegazione della crisi dei prezzi è politica, oltre che economica. Tutti sanno del calo della domanda mondiale e dell’impatto dello shale oil degli americani che esportano ormai quasi quanto Libia, Iran e Nigeria messi insieme. Ma a guidare la discesa dei prezzi aumentando la produzione sono i sauditi (un terzo della produzione Opec) che stanno orchestrando da alcuni mesi una manovra con conseguenze assai gradite agli americani: creare altri problemi a Russia e Iran, due Stati nemici e sotto sanzioni che dipendono per i loro bilanci da gas e petrolio. I proventi energetici contano per il 60% del bilancio di Teheran, per il 50% nella Russia di Putin.
L’Arabia, con la copertura americana, è quindi tornata protagonista garantendosi una sorta di rendita geopolitica in Medio Oriente. Sono stati i sauditi a decidere come e quando agire contrastando il fronte sciita di Iran e Iraq che all’inzio dell’anno puntavano a triplicare la produzione e sottrarre i mercati orientali agli altri concorrenti del Golfo.
Nella guerra del petrolio ha giocato un ruolo assai interessante il Califfato. L’obiettivo di questo conflitto, ad alto contenuto di atti barbarici ma a bassa intensità militare, non è far fuori subito i jihadisti dello Stato Islamico ma pilotare la caduta di Bashar Assad in Siria, alleato di Mosca e Teheran, e mettere con le spalle al muro gli sciiti in Iraq, per renderli più ragionevoli con la minoranza sunnita. Spuntare l’arma petrolifera in mano a Baghdad e a Teheran fa parte di questa strategia.
A Vienna, quasi a sorpresa, l’Iran si è allineato con la posizione saudita. È un accordo di comodo, che fa di necessità virtù. Teheran, dopo il rinvio dei negoziati sul nucleare, ha capito che non saranno tolte le sanzioni e per non perdere quote di mercato si è adeguata. L’Iran ha mangiato la foglia: non ci sarà un accordo strategico che riconoscerà un suo ruolo predominante nel Golfo e guadagna tempo cercando di minare le sanzioni con l’ingresso nella Shanghai Cooperation Organization (Sco), con il patto nucleare con Mosca e quello energetico con la Cina. In attesa che Mosca e Pechino creino a San Pietroburgo la camera di compensazione finanziaria alternativa a Swift per aggirare l’embargo finanziario.
Ma c’è un’altra faccia della medaglia. Anche i bilanci dei sauditi ne risentiranno. Questa volta però, al contrario degli anni ’90, l’Arabia può contare su riserve abbondanti: 750 miliardi di dollari. Non è detto però che chi produce i barili di greggio abbia pensato a fare anche i coperchi. La manovra di mettere alle corde Russia e Iran per rendere più malleabili Putin e gli ayatollah potrebbe non funzionare. Con il greggio a 10 dollari il governo del moderato Mohammed Khatami venne messo alle strette e a prevalere poi fu Ahmadinejad, esponente della linea dura dei Pasdaran. La situazione potrebbe ripetersi se il presidente Hassan Rohani non porterà a casa qualche risultato. Se Rohani fallisce, a Teheran vedremo altre facce al comando e ci ricorderemo di questo vertice Opec.
Alberto Negri
*****
SISSI BELLOMO, IL SOLE 24 ORE -
Nessun taglio della produzione di petrolio. Nessun richiamo ufficiale a rispettare il limite di 30 milioni di barili al giorno, fermo da dicembre 2011. E nemmeno l’annuncio di un vertice straordinario, prima di quello già fissato per giugno. L’Opec alla fine è riuscita a sorprendere tutti e non è un’esagerazione prevedere che il meeting di ieri resterà nella storia. Non fosse altro che per la reazione del greggio: le quotazioni del barile, già ai minimi da 4 anni, sono arrivate a perdere quasi l’8%, con il Brent che è affondato sotto 72 dollari e il Wti addirittura sotto 68 dollari.
Benché alla vigilia fosse già chiaro che l’Organizzazione degli esportatori di greggio non si apprestava a chiudere vigorosamente i rubinetti, nessuno si aspettava che il vertice avrebbe avuto un esito così estremo da poter essere sintetizzato con un ossimoro: il Cartello ha sposato la causa del liberismo. Già, perché l’intento - reso decisamente esplicito da diversi ministri dell’Opec - è quello di affidare alle leggi di mercato il compito di riequilibrare domanda e offerta, attraverso gli opportuni aggiustamenti di prezzo. Il mercato non si è lasciato pregare. E il crollo del petrolio sarebbe forse stato addirittura più forte, se gli americani non fossero stati assenti dal mercato, intenti a festeggiare il Thanksgiving.
Alla conferenza stampa post vertice le risposte del segretario generale dell’Opec Abdallah El Badri sono state memorabili. Avete rinunciato a contrastare l’eccesso di petrolio che si è creato con lo shale oil? «La nostra risposta è questa: manteniamo ferma la produzione». E la caduta dei prezzi non vi preoccupa? «Non abbiamo un prezzo di riferimento, né minimo né massimo». «Perché vi preoccupate tanto della nostra produzione? – ha poi scherzato El Badri, allontandosi forse un po’ troppo frettolosamente dalla sala – Capirei se foste dei trader, ma siete giornalisti. Rallegratevi, ora potrete risparmiare quando fate il pieno all’automobile».
Il tono lieve del segretario generale non mascherava del tutto l’imbarazzo di dover difendere come unitaria una linea d’azione che invece sicuramente scontenta una buona fetta dell’Opec. Il saudita Al Naimi ieri non ha voluto aprire bocca, irritato per la diffusione il giorno prima di un suo commento che era inteso come confidenziale. Ma è chiaro che la nuova linea è quella di Riyadh e dei suoi alleati del Golfo Persico, che – ormai ci sono pochi dubbi – hanno scelto di combattere fino in fondo la guerra dei prezzi. Con l’obiettivo di costringere altri (leggasi i frackers americani) a tagliare la produzione. La guerra rischia di essere lunga e anche molto dolorosa per quei paesi che già erano al collasso col petrolio a 80 $, come il Venezuela – che infatti premeva per un taglio di 2 milioni di barili al giorno – o la Nigeria, che ha già quasi esaurito le riserve di valuta pregiata e ha appena dovuto procedere a una maxisvalutazione della naira.
I nigeriani forse sono stati convinti, dietro le quinte, a dare il proprio assenso alla strategia saudita (si veda l’intervista a fianco). Ma il ministro iraniano Bijan Zanganeh – che pure il giorno prima aveva dichiarato «unità di intenti» con Riyadh – si è allontanato dal vertice borbottando che la decisione finale «non è quella che volevamo».
Anche se l’Opec ormai da anni sottolinea di non avere più un obiettivo di prezzo, né una banda di oscillazione di riferimento, durante questo vertice ha iniziato a circolare con insistenza la cifra di 60 dollari al barile. Una novità che gli analisti più attenti non hanno mancato di rilevare. A gettare il sasso per primo è stato il kuwaitiano Ali Saleh Al-Omair, spesso schierato coi sauditi: «Dobbiamo imparare a convivere col petrolio a 80 dollari così come a 60 o a 100». Ma anche l’iracheno ha detto di aspettarsi un "price floor", guarda caso, intorno a 65 $ anche se «per noi un buon prezzo è quello dell’anno scorso» (oltre 100 $ di media, Ndr).
«I sauditi – osserva Olivier Jacob di Petromatrix – stanno forse cercando di vendere l’idea che nel breve termine il petrolio deve scendere a 60 $, in modo da garantire maggiore stabilità dei prezzi negli anni a venire, a 80 $ e più, quando lo sviluppo dei progetti di shale oil avrà rallentato».
Si vedrà col tempo chi l’avrà vinta tra Usa e Opec. Nel frattempo i russi di Rosneft hanno rapidamente raccolto il guanto di sfida: «Non sta accadendo niente di straordinario – ha detto in un comunicato, pochi minuti dopo la fine del vertice – Rosneft ha margini di sicurezza sufficienti visto che il nostro costo di produzione netto è tra i più bassi del mondo, poco sopra 4 $/barile».
*****
ANDREA GRECO, LA REPUBBLICA -
Per parafrasare il generale von Clausewitz siamo alla continuazione della politica con altri mezzi. E poiché la guerra tra potenze nucleari è meglio non farla, Stati Uniti, Russia e paesi del Golfo Persico se le suonano usando l’arma del petrolio. Ognuno con peculiari, vitali interessi. La turbolenza è appena cominciata, né si sa come e dove finirà. Fino ad agosto, e da quattro anni, i prezzi non s’erano molto discostati dall’area dei 100 dollari a barile, soglia di sicurezza per tutti i produttori. Sia quelli Opec, che hanno bilanci statali non certo immacolati, sia i non Opec, di rilevanza crescente sullo scacchiere geopolitico. Dapprima le tigri del Caspio con la Russia, di recente gli Stati Uniti, che inventandosi la produzione di oli e gas di scisto hanno smesso di importare e guardano aggressivi all’export. Così si sono create geometrie variabili, e il senso di un’equazione a troppe incognite per essere risolta. «Controllare un aumento dei prezzi è relativamente facile, controllare una caduta libera non lo è affatto — dice Alberto Clò, ex consigliere Eni e coordinatore scientifico del Rie — . L’Opec non può e non vuole intervenire ». Ma dietro le dinamiche di mercato si cela, appunto, Clausewitz. L’Opec s’è mostrata inerme, divisa. L’Arabia Saudita lascia correre (all’ingiù) i prezzi, alleata ai paesi vicini. Nel “non detto” gli arabi, signori del petrolio con i pozzi più grandi, antichi e a basso costo, vogliono dare una lezione agli americani, divenuti rivali insidiosi con gli idrocarburi dalle rocce frantumate. Tale pratica, che prevede migliaia di piccoli pozzi vicini, è costosa e non conveniente se il greggio scende dai 60 dollari. Mentre i pionieri dello shale iniziano a tremare (ma l’America e i suoi consumatori se ne fanno più di una ragione) i paesi Opec africani rischiano la bancarotta statale. Libia, Nigeria, Algeria, Iran e Irak hanno parità dei conti ben sopra i 100 dollari, e pagano dazi salati, anche in termini di produzione, ai loro instabili sistemi politici. «Non è la decisione che voleva l’Iran», ha detto il ministro iraniano Bijan Zanganeh. Anche Venezuela ed Ecuador hanno simili guai: difatti erano per tagliare la produzione, o almeno le quote eccedenti (600mila barili attualmente). «Dovremmo ritirare la sovrapproduzione del mercato», ha detto il ministro degli esteri venezuelano Rafael Ramirez, promettendo di «tenere i contatti con i paesi non Opec e convocare un vertice straordinario se ci sarà bisogno». Contatti con Messico e Russia c’erano da giorni, senza costrutto. È Mosca il vero convitato di pietra a Vienna, in quello che pare il bluff di un atto di forza. Putin non molla di un metro la presa sulla Crimea e i suoi oligarchi dell’energia ostentano sicurezza: ma ieri il ministro delle finanze Anton Siluanov ha detto alla tivù russa che «coi prezzi attuali perdiamo tra 90 e 100 miliardi di dollari l’anno», oltre il doppio rispetto alle sanzioni Usa e Ue per la Crimea. Così l’Opec lavora anche contro la Russia, o meglio i suoi cittadini, visto che i produttori esportano e riconvertono le valute in rubli deprezzati. Lukoil e Rosneft comunque stanno tagliando budget e produzione, e qualche analista stima che con 2-3 anni di greggio a 70 dollari l’economia crollerà. Washington studia l’inerzia degli alleati sauditi e ride sotto i baffi.
*****
FRANCESCA BASSO, CORRIERE DELLA SERA -
La parola rimane al mercato. L’Opec, l’organizzazione che riunisce dodici Paesi esportatori di petrolio e conta per un terzo della produzione mondiale di greggio, ha deciso di mantenere invariata la quantità di barili giornaliera pari a 30 milioni. Non è passata la richiesta di un taglio per fronteggiare il crollo del prezzo del petrolio, che dai 115 dollari di giugno ha perso il 35%, dopo lo scivolone di ieri del Brent a 71,25 dollari per effetto della decisione del cartello.
Nello scontro tra falchi e colombe ha vinto la linea dell’Arabia Saudita, tra i primi tre produttori mondiali con Russia e Stati Uniti. Fin dall’inizio delle trattative Riad si è detta contraria a una contrazione della produzione, vedendovi solo il rischio di una perdita di quote di mercato a favore dei produttori di petrolio da fonti «non convenzionali», Washington in testa. Il Venezuela, la Nigeria e l’Iran chiedevano invece una riduzione della produzione per spingere al rialzo i prezzi: dal petrolio dipendono i loro bilanci statali, ora in difficoltà, e dunque la loro stabilità economica e sociale. Così come quella della Russia, Paese non-Opec, che martedì ha spedito a Vienna il proprio ministro dell’Energia Alexander Novak con Igor Sechin, presidente del colosso Rosneft (di proprietà in maggioranza del governo russo), per trattare possibili contromisure coordinate in un incontro in cui hanno partecipato anche Messico (Paese non-Opec) e Venezuela. In quella occasione l’Arabia Saudita aveva lasciato il tavolo confermando il suo «no» a un’eventuale riduzione.
Gli effetti della decisione dell’Opec si sono visti subito sui mercati. Oltre al prezzo del petrolio, che ha raggiunto i livelli del 2010, il rublo ha perso il 27% da metà giugno, toccando ieri un nuovo record negativo a 48,7 sul dollaro e a 60,75 sull’euro, nonostante le rassicurazioni di Rosneft, che comunque ha deciso di ridurre dell’1% la propria produzione: «La situazione del mercato — ha dichiarato il gruppo — non ha bisogno di misure improvvise, non sta accadendo niente di straordinario». Intanto però le compagnie petrolifere ieri in Borsa hanno chiuso in ribasso: Eni -1,96%, Total -4,42%, Bp -2,94%, Repsol -1,60%.
La prossima riunione del cartello, che ha nominato come presidente per il 2015 una donna, la ministra del petrolio della Nigeria Diezani Alison-Madueke, sarà il prossimo anno a giugno. Intanto sarà il mercato a fare il prezzo. E per vedere gli effetti del calo sul costo dei carburanti ci vorrà ancora tempo, tenuto conto di accise e Iva: a giugno la verde costava 1,743 euro mentre due giorni fa era a 1,716 euro, il gasolio è passato da 1,632 a 1,639.
Francesca Basso
*****
STEFANO AGNOLI, CORRIERE DELLA SERA -
Dopo le scaramucce degli ultimi giorni, lo stallo era tra le conclusioni attese del vertice Opec. Così come era tra gli eventi possibili il crollo delle quotazioni del petrolio, che dopo il mancato taglio della produzione hanno sfiorato i 71 dollari. Dai valori di giugno, quando il barile veleggiava intorno a 115 dollari, il passo indietro è superiore a un terzo.
Degli effetti di questo improvviso dietrofront si è discusso a lungo, mettendo ad esempio l’accento sulla politica dell’Arabia Saudita, che sta lasciando correre all’ingiù il barile per mettere fuori mercato i rivali all’interno dell’Opec e le «nuove» produzioni americane di petrolio non convenzionale. Oppure sulle difficoltà politiche e sociali che i «Petrostati» potrebbero incontrare se i loro budget fossero messi a rischio.
Minor enfasi, invece, sul significato del crollo del barile per i Paesi occidentali. Fino ad oggi, grazie all’abbondanza di gas e petrolio non convenzionali e a prezzi in calo, sono stati proprio gli Usa e le sue imprese a trarne il maggior beneficio. Non così è stato, sempre fino ad oggi, per l’Europa. Non si tratta per i Paesi Ue di trasporre la «rivoluzione» energetica Usa da questa parte dell’Oceano, questione complessa e fonte di conflitto. Quanto di prendere atto che si è aperta una finestra di opportunità notevole: approfittare della riduzione dei costi dell’energia per dare consistenza a una ripresa debole.
Per qualcuno sarà più facile, per altri più difficile: se come accade in Italia il peso del Fisco su benzina e gasolio si aggira intorno al 60%, anche una diminuzione del 30% del barile di petrolio verrà diluita parecchio sui prezzi finali. E ancora (questioni vecchie ma sempre attuali): i prezzi Platt’s dei prodotti, sui quali si basano quelli dei carburanti, paiono scendere sempre un po’ meno (del 20% da giugno a novembre secondo i dati Mise), e i prezzi industriali meno ancora (sotto il 20%). Insomma, l’impressione che il calo trovi sempre qualche «attrito» fatica a sparire.
Stefano Agnoli
*****
UGO BERTONE, LIBERO -
«Continueremo a produrre 30 milioni di barili al giorno nella prima metà del 2015». Così, senza sprecare parole inutili, il segretario generale dell’Opec Abdalla El-Badri ha annunciato le decisioni dell’Opec, il cartello che un tempo decideva il prezzo del greggio. Ma le cose sono cambiate, come ha commentato il ministro degli Emirati Arabi Uniti, Suhai al Mazrahi: «Siamo tutti d’accordo che oggi si estrae troppo petrolio rispetto alla domanda. Ma questo non dipende più da noi». Ancor meno combattivo Bijan Zanganeh, ministro del petrolio di Teheran. «Questa non è certo la decisione che voleva l’Iran - dice - ma non sono affatto arrabbiato con l’Opec». Insomma, almeno prima vista, hanno vinto i produttori Usa di shale gas che dalle viscere del Texas fanno sgorgare ogni giorno quasi 9 milioni di barili, sufficienti a mettere in ginocchio il cartello. GUAI RUSSI E ancor di più Vladimir Putin, il più colpito dalla caduta del greggio. I conti sono presto fatti. Per evitare la recessione dell’economia e sostenere la spesa pubblica senza infliggere nuovi sacrifici ai russi, Mosca ha bisogno di vendere il suo petrolio a 90 dollari il barile. Ieri, pochi attimi dopo la notizia in arrivo da Vienna, si è scatenata una pioggia di vendite, nonostante la festa del Ringraziamento americano che ha spopolato recinti di Chicago e New York. Il Brent, il petrolio più negoziato in Europa, è scivolato a 70,87 dollari il barile, in calo di quasi il 5 per cento sulle quotazioni già depresse della mattinata. Il crude oil americano tratta a 74,36 dollari. Rispetto a metà giugno la perdita si avvicina ormai al 35%. E probabilmente non è finita qui. Per la Russia questo vuol dire un nuovo salasso delle riserve valutarie (scese di 100 miliardi di dollari nel 2013 dai 470 accumulati negli anni del caro petrolio) ma, soprattutto, una minaccia mortale sul fronte del debito: la Russia, dovrà restituire ai creditori occidentali 130 miliardi di dollari l’anno prossimo, un’impresa sempre più difficile vista la stretta delle banche dopo la crisi ucraina, come dimostra la notizia che Rosneft, il colosso di Stato vicino al presideNte, ha dovuto chiedere al Cremlino 44 miliardi di dollari per pagare una rata di debito. È una minaccia temibile, soprattutto dati i precedenti: nel 1998, infatti, Boris Eltsin fu travolto dal default finanziario, ipotesi non campata in aria visti i problemi attuali. Ma è difficile che Putin, forte di un grosso consenso alla sua politica, intenda fare un passo indietro: la decsione dell’Opec, imposta dal cartello dei Paesi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Kuwait) altro non è che una tappa del «complotto» antirusso scattato dopo la visita dello scorso settembre del segretario di Stato John Kerry in Arabia Saudita. In realtà, la geopolitica non spiega il complesso intreccio diplomatico e finanziario che sta dietro il calo del prezzo del greggio. In origine, come ha spiegato Leonardo Maugeri, docente ad Harvard e guru indiscusso del settore (il primo a prevedere l’attuale scenario): «Ci troviamo di fronte a un superciclo di investimenti dell’industria petrolifera mondiale, partito nel 2010. In questi quattro anni sono stati spesi circa 2.500 miliardi di dollari complessivamente, dalle national oil company e dalle major, una cifra enorme destinata a scoperta e sviluppo di nuove riserve di petrolio e gas. Lo chiamo superciclo perché tutto ciò è avvenuto a seguito di un ciclo già robusto di investimenti avviato dal 2003 in poi. La conclusione è che ora sta entrando nuova capacità produttiva frutto di questi investimenti passati». Insomma, per ora di petrolio ce n’è in abbondanza. LA FINANZA Le conseguenze? Scendono, come è ovvio, i titoli petroliferi. Meno ovvie, ma non meno pesanti, le conseguenze per la grande finanza: Barclays e Well Fargo, che pochi mesi fa hanno investito 850 milioni di dollari per favorire la fusione tra due medie società Usa, Sabine e Forest Oil, rischiano di perdere tutto. Potrebbe essere la punta dell’iceberg di un piccolo terremoto: il 15% dei junk bond (cioè le obbligazioni ad alto rischio) emessi a Wall Street riguarda il settore petrolifero e dintorni. Non meno rilevanti le conseguenze per produttori e consumatori. Tra i primi, reggono senza sforzi il calo degli introiti le monarchie del Golfo («noi stiamo bene con il greggio a 60,80 o 100 dollari» ha detto il rappresentante del Kuwait), forti di immense ricchezze. Patisce assai il Venezuela, sarà più complesso decifrare la strategia dell’Iran, concentrato sulla questione nucleare. Tra i consumatori si avvantaggia senz’altro l’India, il più dipendente dal greggio, un po’ meno la Cina in frenata. CALO BENZINA Per l’Italia, il calo della bolletta petrolifera è senz’altro una buona notizia destinata ad accelerare il buon andamento dei conti commerciali. Ma, nota stamane John Gapper sul Financial Times, l’Europa rischia una vittoria dimezzata: si riduce la bolletta petrolifera, ma non il distacco dagli Stati Uniti, l’ultimo più temibile sceicco. Gli Usa, grande produttore e grande consumatore, stanno sfruttando l’energia a basso prezzo (meno della metà di quel che pagano le aziende europee) sia per poter competere meglio sui prezzi che per attrarre nuovi investimenti: raffinerie, industrie chimiche, impianti per l’alluminio e acciaierie, produzioni ormai tabù nella vecchia Europa e più convenienti in Usa rispetto alla Cina, ove la forza lavoro costa sempre di più. Insomma, a vincere questo round sono stati gli Usa, grazie al sostegno garantito dall’Arabia Saudita. Sapremo presto a quale prezzo.
*****
ROBERTA AMORUSO, IL MESSAGGERO –
L’Opec ha deciso. Il taglio della produzione di petrolio non ci sarà. Almeno non per ora. Come nelle attese, ha prevalso dunque la linea morbida di Riad - che ha applaudito a «una grande decisione» - sui falchi come Venezuela e Iran, che premevano per una riduzione capace di far risalire i prezzi. Ma è bastato che ieri il ministro del petrolio saudita, Al-Naimi, annunciasse da Vienna di lasciare la produzione petrolifera invariata a 30 milioni di barili al giorno, per spingere il prezzo del petrolio ancora più in basso: il greggio americano (Wti) è crollato sotto 70 dollari al barile sul mercato di Londra per la prima volta dal giugno del 2010 (è sceso fino a un minimo di 69,91 dollari con un calo del 7%). Stesso trend per il petrolio del Mare del Nord (il Brent) scivolato ai minimi da luglio 2010: 71,46 dollari (-8,24%). Prezzi destinati a mettere ancora più sotto pressione i bilanci delle big del greggio. Non a caso i titoli petroliferi Ue hanno perso oltre il 3% mentre le peggiori a Piazza Affari sono state Saipem (-4,8%) ed Eni (-1,9%), che tra l’altro hanno progetti di ampliamento nel settore con aziende russe e di ex repubbliche sovietiche. Sotto pressione anche Tenaris (-3,6%).
Il punto è che il maggior livello di estrazione registrato negli Usa da trent’anni, insieme alla crisi europea, hanno ormai provocato una caduta del prezzo del greggio pari al 30% da giugno. Ma il fronte guidato dall’Arabia saudita resiste con forza a un taglio della produzione. Sicuramente per la paura di perdere quote di mercato, proprio mentre cresce l’energia Usa basata sullo shale gas. Ma c’è altro. Lasciando tracollare le quotazioni, anche al prezzo di un taglio degli utili, gli Stati Opec cercano di mettere fuori mercato la nuova industria Usa che estrae shale oil, il petrolio che si ricava frantumando le rocce, portandola a livelli di prezzo insostenibili (pare che al di sotto dei 80 dollari lo shale oil non sia più competitivo). Non solo. La stessa Arabia Saudita (in linea con gli Stati Uniti) può avere un certo interesse ad assestare un colpo a Paesi come Iran e Russia, che ricavano dal petrolio rispettivamente il 60% e il 46% delle entrate.
CHI CI GUADAGNA E CHI NO
Se in generale l’industria del petrolio è destinata ad archiviare un anno amaro, c’è però chi fa festa. Tra questi ci sono sicuramente le compagnie aeree. Ma si festeggia anche in Asia. E in particolare in Cina, il secondo importatore mondiale di oro nero. Buone notizie anche i prezzi per la benzina in Italia? Non ancora. Malgrado il prezzo del greggio sia ai minimi da 4 anni, quello dei carburanti è del 40% più alto rispetto al 2010. Colpa delle accise (+30%) e dell’Iva. Nonostante il calo del petrolio, infatti, l’incidenza del costo della benzina sul prezzo finale è stabile al 40%: una vera beffa, per i consumatori.
Roberta Amoruso
*****