Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 22 Sabato calendario

LA SCOMPARSA DEI POVERI


«Ci stanno tre tipi di barbone: quello terra terra, che è deciso a fare questa vita; quello a metà, che vuole migliorare ma gli manca qualche rotella; e quello vip, che si fa sempre la doccia e trova da vestirsi. Io modestamente sono un vip» dice Daniele, fra i 35 e i 40 anni, accento che più campano non si potrebbe. Sabato sera e piove. Piove così forte che il taccuino s’inzuppa anche sotto una tettoia. Dalla mensa della Caritas di via Casilina si sente la musica del karaoke settimanale, fuori è una processione di senzatetto intirizziti.
«Barboneggio da otto mesi – continua Daniele –. Avevo un bar con un paio di amici, poi siamo falliti. Allora sono venuto a Roma: tenevo una ragazza a Centocelle, e mo’ nun o’ sacce cchiù se la tengo. Però boh, se devi fare il barbone meglio non farlo nella tua città».
Qualche notte a Termini, giusto il tempo di farsi rapinare, e poi domicilio su una panchina a due passi da Palazzo Chigi. Ti hanno mai fatto storie? «No, anzi: se tu non rompi o’ cazzo non tè lo rompe nessuno. Mi sento di fargli un ringraziamento alle guardie, mi proteggono pure». Poi sorride e tira fuori di tasca un salamino che ha rubato: «Qua le amicizie te le devi comprare, vado a spartirlo».
Cento metri più in giù, sotto gli archi di via Casilina, un mazzo di fiori ricorda un senzatetto italiano: l’hanno ritrovato freddo come il ghiaccio poche settimane fa, in un giardinetto che si affaccia su una scuola elementare. «Nella fontanella del giardino ce se fanno er bidet, li ho visti con gli occhi miei» racconta un abitante del quartiere. «Fanno tutto pe’ strada, d’altronde ‘ndo vanno? So’ esseri umani pure loro».
Una tolleranza inattesa, frutto della crisi, che ha decostruito lo stereotipo del clochard: «Prima la maggior parte lo faceva per scelta, oppure erano pazienti psichiatrici e alcolisti – ci racconta un lavoratore della Caritas –. Ora è cambiato tutto. È pieno di italiani costretti dalla necessità: esodati, disoccupati, padri single». Gente come l’ex posteggiatore che ci saluta entrando nel centro: 50 anni, tre figli, cacciato di casa poco dopo aver perso il lavoro. Storia identica all’uomo che lo accompagna, avvolto in una giacca della Lazio, padre di famiglia ed ex impiegato finito per strada. Pranzo in qualche mensa, cena distribuita dai volontari e quando capita pure una mezza doccia. Il tran tran è lo stesso, sia per chi la sfanga al dormitorio, sia per chi veglia la notte sul marciapiede.
In Piazza dei Cinquecento, appoggiato sulla porta a vetri della Stazione Termini, troviamo Francesco, abruzzese di 59 anni. Sorride, la pelle cotta dal sole e il volto incorniciato da una foltissima barba. Vive a Roma da 30 anni, fino a pochi mesi fa faceva il lavapiatti. «M’hanno cacciato dalla trattoria e ci hanno messo uno più giovane». Ogni mattina, appena sveglio, si premura di nascondere le coperte e i due stracci rimasti, come l’altro Francesco – 58 anni, abruzzese pure lui –, che gli ronza attorno e si è appena procurato una bottiglia. Lui lavorava in un garage a Ponte Lungo, «poi sono cominciati i problemi» e da due mesi dorme a Termini. Intorno sporcizia e odore di urina, mentre un uomo defeca contro il muro prima di sdraiarsi.
Chi sta in strada per scelta è Felicia, accompagnata dal marito Rimmentas, lituani intorno alla sessantina. Appena ci avviciniamo Felicia tira fuori da un carretto una terza sedia, con cui costruisce una parvenza di salottino. Lingua affilata e accento duro come le sue scelte, Felicia ci racconta di un inferno romano. «Sono apolide, ho rinunciato alla cittadinanza lituana nel 1999. Non rinnego le mie origini, rinnego le istituzioni. Siamo partiti verso l’Europa occidentale convinti di trovare la vera democràzia (l’unica parola che non riesce ad accentare correttamente, ndr). Spagna, Austria, Germania: un Paese violento e inumano come l’Italia non l’avevamo visto». Vivono a Roma da otto anni e non si sono mai allontanati da Termini, troppo intimoriti per avventurarsi in zone sconosciute. «Quand’ero giovane credevo che l’Urss fosse eterna. Mio padre diceva “vedrai, crollerà”, e io non gli davo corda. All’Italia succederà la stessa cosa con l’Unione europea».
Intanto Giulio – 25 anni, siciliano – cammina avanti e indietro come una trottola, sguardo basso e sorriso obliquo. Chissà in quale viaggio s’è perso. Da quanto tempo sei a Roma? «Ah, siamo a Roma?». «Non lo so perché sono tornato in Italia, zio. Famiglia non ce l’ho, mi hanno denunciato dopo che ho picchiato mia sorella» dice prima di riprendere a consumare le scarpe di tela, da cui sono spariti anche i lacci. Una donna attraversa la strada urlando.
A pochi passi Francesca e Maria, sorelle palermitane di 75 anni, sonnecchiano vigili. Poi si alzano, e come tartarughe spingono piano piano due sedie a rotelle sovraccariche. Appena ci avviciniamo Maria stringe i bastoni che tiene in mano, pronta a difendersi. Un’alluvione ha distrutto la loro casa nel 1978: da allora solo strada, masticata fra Napoli e Roma. «Qui si vive di paura» dicono. Una banda le rapina periodicamente, e Francesca mostra i vestiti che le hanno lacerato a mo’ di sfregio. «A mia sorella un giovane ha pure tirato una busta d’acqua, s’è asciugata solo di mattina» continua Maria. A due passi, un gruppo di turisti in toga si mette in fila per il taxi.
Via Golitti e via Marsala, ai lati della stazione, sono una distesa di cartoni, e qua e là spuntano pure delle tendine. Tre uomini hanno piazzato un materasso sullo spartitraffico di una galleria, mentre due persone senza coperte ne giornali dormono rannicchiate su una grata da cui esce un soffio d’aria calda.”
«Ho paura di quello che vedo» ci confida Rolando, salernitano sulla cinquantina, a Termini da un paio di giorni. Ha lasciato casa e gelaterie ai figli «per il bene di tutti» ed è salito su un treno per Roma. «Mi vedo come quelli che ho intorno. Sia chiaro, non li giudico: ognuno di loro è qualcuno. Però molti bevono o si drogano. Io no, io resterò lucido. Bisogna saper strisciare fra i pericoli come un serpente».
I porticati di via della Conciliazione, a 20 metri da Piazza San Pietro, sono impregnati dello stesso odore di urina, anche se il caos di Termini sembra cosa di un altro mondo. Solo un ronzio elettronico macchia il silenzio dell’alba, che i senzatetto salutano barcollanti andando a nascondere le coperte. Sotto un cartone un uomo trema come una foglia: non piove da ore, ma l’umidità ha vinto le ossa. Francesco non sa quanti anni ha, ne dove è nato. «Sono morto, sono lo Spirito Santo. Sono vivo fra i vivi: parlo di qualcuno e quello c’ha la grazia e la resurrezione perché io sono Gesù Cristo. Ora vado a vedere se trovo un caffé».
«In dieci anni il numero di senzatetto a Milano è più che triplicato: da meno di 5 mila –soprattutto stranieri o barboni per scelta – abbiamo superato i 15 mila, e gli italiani hanno quasi raggiunto gli extracomunitari» spiega Wainer Molteni, fondatore del collettivo Clochard alla riscossa. «L’anno scorso, in un inverno mite, quattro persone sono morte di freddo a Milano, 38 - più di una ogni tre giorni – in tutta Italia. Dal 2010 siamo a 186 decessi, e chi rischia sono soprattutto le new entry». Wainer sa bene di cosa parla: laureato, ex direttore del personale di una catena di supermercati, è finito per strada dopo la bancarotta fraudolenta dell’azienda. Otto anni di gelo e stenti, trascorsi in parte sotto casa di Letizia Moratti, «perché era lei che mi doveva delle risposte». Nel 2004, con l’occupazione di un dormitorio in via di sgombero, dà vita al collettivo che oggi distribuisce sacchi a pelo ai clochard di mezza Italia.
Incontriamo Wainer a Sesto San Giovanni, dove un gruppo di cui fa parte anche l’Unione degli inquilini ha dato il via all’occupazione di un edificio in rovina dal 2009, di proprietà dell’Alitalia. Lo hanno trasformato in un’isola per 53 famiglie in attesa di alloggio popolare: appartamenti ricavati dai vecchi uffici – con tanto di Ioghi Alitalia ai vetri e mobili in stile chek-in – e una serie di spazi comuni, come la sala giochi per i 24 bambini che lì vivono da marzo. «L’assistenza ai senzatetto va ripensata da cima a fondo» dice Wainer. «Questo sistema rende il barbone passivo, lo incatena per i giorni che gli rimangono. Bisogna restituirgli speranza in una vita dignitosa, cazzo. Qui ci stiamo provando». Di notte, in zona Duomo, fra i marmi del centro spuntano figure rannicchiate nei sacchi a pelo di Clochard alla riscossa.
Piazza Affari. Il dito medio della scultura di Cattelan sembra scolpito per la decina di senzatetto che dorme di fronte al palazzo della Borsa. «Sei un giornalista?» esordisce Alejandro, 40 anni e parlantina da avvocato. «Adoro Travaglio, anche se si sta sgarbizzando» ride. Ecuadoregno, a Milano dal 1996, vive per strada da un anno e mezzo, da quando la cooperativa per cui lavorava ha perso un appalto. Finché aveva una tv non si perdeva mezzo talk-show, e nei venti minuti che seguono cita in ordine sparso Minzolini, la Gabanelli («c’ha due palle così»), Landini, Crozza, Lerner, Razzi. Di fianco, un uomo si rigira infastidito nel suo cartone. «Ho consegnato le chiavi di casa al custode un giorno prima dello sfratto. Ho lasciato tutto al proprietario come risarcimento». «Vi renderete conto che c’è bisogno di noi extracomunitari quando l’Inps entrerà in crisi».
Non la pensa così Salvatore – siciliano di 41 anni –, che incontriamo fuori dalla mensa dell’Opera di San Francesco (2.700 pasti gratuiti al giorno in una delle zone più chic della città): «Gli stranieri sono molto più assistiti di noi: perché io c’ho un telefonino da 18 euro e loro lo smatphone?» si chiede, raccogliendo il consenso degli amici che lo accompagnano. A Milano da due mesi, vive per strada dopo un anno di cassa integrazione in Sicilia. Si dice «povero, pazzo, disperato». «A star senza far niente ti gira la testa, basta poco e sei capace di fare una cazzata». Tu ne hai già fatte? «Qualche furtarello».
La strada ha indotto in tentazione anche Mario, napoletano 63enne, che dal 2012 dorme sui treni parcheggiati alla stazione Garibaldi assieme ad altri cinque italiani – fra i quali un neo-padre di 28 anni. «Saliamo a mezzanotte e scendiamo alle 5, prima che li puliscano. Sono tentato di tornare a rubare, questa società non offre nulla». Mario – racconta – ha trascorso 16 anni a singhiozzo in carcere: era un’altra vita, quando svaligiava negozi a Napoli e non dimenticava di versare una quota alla camorra. Poi si è inventato muratore, finché un doppio infarto l’ha costretto in rovina. «Tante volte ho pensato al suicidio. Sono credente, non mi piace che bestemmio tanto. Però poi con rispetto parlando penso che bestemmia solo chi crede, e Dio saprà perdonarmi». Sono anni che straccia la scheda elettorale, ma non nasconde la simpatia per Berlusconi: «Lo vedo una persona molto sana, con principi giusti». «Tre anni alla pensione? Ma io non so se ci vivo fino a tre anni».
Piero, milanese sulla quarantina, dice di aver scelto la strada per studiare chi lo circonda: «Parlano tutti della crisi economica e nessuno di quella individuale da cui si è originata. Non sappiamo più chi siamo». Passa le notti sul 90, l’autobus che percorre la circonvallazione destra. Da un anno, racconta, non sente più il freddo, come dimostra la maglietta lercia che indossa a dispetto dei 15 gradi. Quando l’autista pompa aria gelida, però, anche lui scende e cambia bus. «Il 90 è un cesso. Stiamo diventando un Paese di barboni».