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 2014  novembre 28 Venerdì calendario

ROURKE: BELLO, DANNATO E UN SOLO AMORE

Fissando negli occhi l’avversario prima dell’ultimo match, Johnny Walker si lascia sopraffare dalla malinconia e gli rivolge una frase che è il compendio definitivo di un’esistenza bruciata: «Riuscirò mai ad essere un bravo ragazzo?». A volte, il cinema lascia nella storia piccole perle misconosciute, capolavori minimali in cui l’arte e la vita si mescolano e si intrecciano in un copione da brividi. E’ il caso di «Homeboy», film del 1988 in cui Mickey Rourke, anche sceneggiatore, interpreta il ruolo di un pugile/cowboy che declina lento e inesorabile verso l’autodistruzione nelle mani di un manager senza scrupoli.
LA SALVEZZA Solo tre anni dopo, la disperazione e la rassegnazione tratteggiate con vigore e talento di attore di gran vaglia, e che fecero scrivere a Bob Dylan «ogni volta che Mickey entra in scena è un colpo al cuore», diventarono compagne perverse di una tragica quotidianità. Era passato solo un lustro da «Nove settimane e mezzo», la pellicola che aveva reso Rourke il sex symbol più cool degli spumeggianti anni 80, invidiato da almeno un paio di generazioni di uomini che sognavano quel loft a New York, le camicie bianche tutte in ordine nell’armadio e Kim Basinger in camera da letto: «Eppure io non avevo più rispetto di me stesso e della mia professione, accettavo bruttissimi film solo per guadagnare qualche soldo, sono tornato a Miami e sono diventato un nomade senza meta. Mi hanno salvato i miei cani e la boxe».
UNA PROMESSA Già, il pugilato. La redenzione attraverso la rabbia più nera. Un faccia a faccia con sé stessi prima ancora che con un altro uomo. Così, è il 1991, Mickey decide di tornare sul ring, su quel quadrato che non è solo uno spazio fisico, ma anche un luogo della mente. Da ragazzino, in Florida, è stato dilettante di ottimo livello. Cresciuto a Liberty City, un quartiere nero di Miami, deve imparare presto a difendersi, lui che a scuola è tra i pochi bianchi. Soprattutto, in palestra, può sublimare l’avversione verso il patrigno, che picchia spesso lui e l’amatissimo fratello Joey. Esordisce a 12 anni con il nome vero, Philip, e grazie alle indubbie doti gli si schiudono le porte della 5th Street Gym, la palestra più celebre di South Beach, dove si è allenato anche Muhammad Ali. A 17 anni, fa da sparring a Luis Rodriguez, che sta preparando il match con Benvenuti per il Mondiale dei medi. Insomma, la boxe sembra davvero una strada lastricata di gloria verso il futuro, ma ai Florida Golden Gloves del 1971 il giovane Rourke subisce una commozione cerebrale. Sta fermo un anno, poi disputa altri tre match, però i medici gli consigliano di smettere: dopo 30 incontri con 27 vittorie, finisce la carriera di promessa tra le 16 corde e comincia quella di attore.
RISPOSTE Ma quando la vita sta per metterlo k.o., Mickey conosce qual è la via dolorosa del riscatto: «Cercavo delle risposte, solo il ring con le sue regole poteva tornare a darmele». In tre anni, disputa 8 incontri, vincendone 6 e pareggiandone 2 e portando la sua fama graffiata in giro per il mondo. Combatte da massimo leggero, contro avversari che sostanzialmente sono figuranti del quadrato. I media non gli perdonano quelle esibizioni kitsch, tanto che la rivista World Boxing arriva a chiedersi se sia un attore che recita come un pugile o un pugile che si batte come un attore. Il fatto, però, è che è sbagliato e ingiusto applicare per lui le categorie dell’agonismo: «Mi sarei sentito un mezzo uomo se non avessi reagito con violenza alla guerra che avevo dentro la mia testa». La nuova carriera non è senza prezzo: ancora oggi, lui tende a perdere l’equilibrio e, soprattutto, i pugni presi gli hanno devastato il volto. Eppure, arrivato sull’orlo della perdizione e rimesso in riga dall’antico amore, il bello e dannato degli anni 80 si ricostruisce pian piano una verginità esistenziale e lavorativa, fino all’apoteosi del 2008, con il ruolo da protagonista nel film «The Wrestler», che gli vale una nomination agli Oscar come miglior attore. E il percorso iniziato con «Homeboy» si completa: c’è sempre un ring, anche se non c’è la boxe. Ma, sopra ogni altra cosa, c’è ancora il duro tentativo di rinascere aggrappandosi al legame mai spento con lo sport che ti ha segnato la vita. Una vita da film.