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 2014  novembre 28 Venerdì calendario

LA BIOGRAFIA DI NIBALI

Il pidone, “’u pidune” in siciliano, è una specie di piccolo calzone messinese di pasta fritta, con ripieno di pomodoro, provola, scarola e acciuga, «una sola, se no diventa troppo salato». Senza pidoni, un ragazzo nato a Messina il 14 novembre 1984 forse non sarebbe diventato lo Squalo dello Stretto. Sono infatti citati diverse volte nella sua autobiografia, intitolata Di furore e lealtà, dal 2 dicembre in libreria, scritta con Enrico Brizzi, l’autore di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Erano la sua merenda preferita, che mangiava da bambino all’ombra degli aranci insieme ai suoi primi “minigregari”, quando facevano una pausa durante le prime scorribande in bicicletta sulle strade costiere o dell’interno, in campagna. Altre volte era il premio messo in palio dal padre Salvatore per chi vinceva la volata al rientro: “’u pidune” al primo, focaccia al secondo, granita al terzo. Di solito erano in tre, quindi nessuno restava a bocca asciutta. Dai pidoni adesso invece, anche quando sta in Sicilia a trovare parenti e amici, deve cercare di stare alla larga, perché con la dieta di un campione c’entrano come i cavoli a merenda: «In una settimana me ne concedo uno o due al massimo». Essere l’unico ciclista italiano della storia, oltre a Gimondi, ad aver conquistato la “Tripla Corona” – Giro d’Italia, Tour de France, Vuelta di Spagna – comporta delle rinunce. E quella dei piduni e della pasta n’casciata, a sentire come ne parla, non è tra le minori.
Vincenzo Nibali è salito in bici prestissimo, un po’ messo da suo papà che era già da anni un ciclista amatore, «non proprio con fisico da corridore», e un po’ perché ci è saltato sopra da solo visto che era un bambino che non stava fermo neanche a legarlo. «Mio padre me lo ricordo così: in sella a una bici, che considerava praticamente un oggetto sacro». Salvatore, soprannominato “Lupo”, si era innamorato delle due ruote nel 1980. «Ho cominciato ad andare con la bici da corsa per recuperare un po’ di forma: visto quello che mia moglie metteva in tavola, ero aumentato 25 chili dal giorno del matrimonio». A casa Nibali si mangia bene, ecco perché la dieta da campione resta dura da digerire per Vincenzo. Suo padre prima era stato operaio verniciatore, poi ha aperto un negozio di videonoleggio, che ha tuttora. «Non ha mai smesso di macinare chilometri, sognando le imprese del suo idolo Moser». Appena aveva un momento libero partiva, da solo o con gli amici. «La bicicletta è la libertà», mi ripeteva spesso mio padre. «Quando la vita si fa noiosa, o arrivano le preoccupazioni» diceva, «per seminare i cattivi pensieri basta saltare in sella e pedalare forte».
Il periodo con la bici a rotelle, per Vincenzo, è durato poco. A dieci anni, all’inizio della quinta elementare, in seguito a bei voti, è arrivata la “bicicletta bella”: la prima da corsa. Non nuova, assemblata: telaio marca Viner, corone, pignoni, catena, leve dei freni. Tutto montato alla perfezione da Salvatore, sotto gli occhi rapiti di Vincenzo, Enzo in famiglia. Una volta finita l’opera, c’era da verniciarla, altra specialità del Lupo. «Ma il colore l’avevo scelto io: un bel rosso, che faceva pensare alla velocità e alle auto da corsa». Con la bicicletta bella scattano le prime gite fuori porta, «con mio papà verso Torre Faro, dove la città si perde nella campagna e la Sicilia si stringe tra i due mari». E poi esplorazioni, avventure, scatti a perdifiato tra muretti a secco, fichi d’india e aria di mare respirata a bocca aperta, «con mio cugino Nino Smiriglia, che era due anni più grande di me, e Mariano, amico del quartiere e suo coetaneo». Si autonominano “i bucanieri”, e vanno: giri al lago di Ganzirri, o a sud, verso Alì Terme e Taormina. Oppure salite su per le rampe tra i boschi dei monti Peloritani, fino al punto in cui il panorama si apre sul blu sbiancato dalle creste delle onde. «Sotto di noi si stendeva una terra da favola, lambita a nord dalle acque azzurre del Tirreno che si mescolavano a quelle più dense e profonde dello Ionio». Spesso, d’estate, ci scappava anche un bagno in mare se poi si recuperava il tempo perduto andando a tutta birra, in modo da rientrare prima che il Lupo si innervosisse.
Una roulette russa che giocavano con le ruote delle bici era la fuga dai cani per le strade di campagna. «Sapevamo alla perfezione quali contadini lasciavano le bestie sciolte, a presidiare l’ingresso dei loro terreni, e ci andavamo apposta, pronti a lanciare la volata non appena i cani uscivano ringhiando nella nostra scia. A volte ci arrivavano davvero vicini, ma non bisognava perdersi d’animo: di solito, dopo due o trecento metri si stancavano e tornavano a casa». Quando non c’erano scatti, fughe o altri momenti dove ci voleva la massima concentrazione queste tre pesti in libertà, pedalando, cantavano. «Era quasi sempre Mariano a intonare i nostri inni, i versi di 50 Special dei Lùnapop modificati per l’occasione – «Ma quant’è bello andare in giro per i colli messinesi» – o Nord sud ovest est degli 883.

Morte e resurrezione. Quando Nibali ricorda e racconta le sue prime “tappe” con i bucanieri, gli si dipinge spesso sul volto un bel sorriso che, a volte, diventa risata e si capisce che la bicicletta può essere davvero libertà, soprattutto se a pedalare sono ragazzini in mezzo alla natura. «Ma per me quelle sensazioni non sono finite. Certo, le corse sono un’altra cosa, ma quando sono in Sicilia esco spesso con mio papà, mio fratello, o altri amici. Con la mountain bike sono un rompiballe terribile perché, se vedo un sentiero che non conosco, mi ci infilo subito, e mio padre che mi segue mi maledice perché spesso non porta da nessuna parte e bisogna tornare indietro. Poi a me piace molto anche allenarmi da solo. E, se faccio le salite col mio passo, mi guardo anche in giro e resto incantato dai panorami che vedo. Per me la salita più spettacolare è quella del Mont Ventoux, poi vengono quelle delle Dolomiti».
Insomma la bicicletta bella, a 10 anni, gli ha insegnato a correre e a sognare. Ma quel primo incantesimo, colorato rosso corsa, era destinato a finire bruscamente, con una nota in condotta, da far firmare a casa, per le ripetute risse con due compagni di classe. «Adesso ti sistemo io», è una frase che il campione dell’ultimo Tour de France ricorda come se l’avesse sentita ieri, così come il rumore dei denti della sega che entrano nel telaio della bicicletta bella. «Io urlavo: “Mamma, aiuto: mi sta segando la bici”. Ricordo che c’erano nonni e zii quel giorno a pranzo, ma non si è mosso nessuno».
Il ciclismo, del resto, è anche sofferenza, e Vincenzo Nibali forse l’ha imparato così. Dopo qualche mese, lunghissimo, a terra, passato a vedere gli altri due bucanieri che scomparivano pedalando, grazie a una condotta scolastica diventata impeccabile il pelo del Lupo era tornato liscio. E così un giorno, verso Pasqua, sono andati tutti insieme, padre, figlio e pezzi della bicicletta bella da un amico fabbro, che l’ha rimessa sulle ruote, come nuova. Il rito iniziatico era compiuto. Si poteva riprendere a correre, più forte di prima e, questa volta, anche con un numero sulla maglia: tesseramento in federazione, gare regionali e vittorie. Tante, a raffica, e la notizia di quei tre ragazzini che vanno così forte, uscita anche sulle pagine dello sport dei giornali locali, non passa inosservata tra gli amatori di Messina. Alla domenica mattina i bucanieri escono per il loro allenamento ma dietro cominciano a pedalare anche tanti adulti. Ciclisti della domenica appunto, ma accaniti. Un gruppone: 40, a volte anche 50 o 60, tutti d’accordo per tentare di mettere in riga i piccoli fenomeni. Vincenzo Nibali aveva due nuovi bucanieri al fianco, i primi due erano arrivati all’età del motorino e avevano cambiato sella: adesso c’erano il cugino Giuseppe Bongiovanni, più piccolo di un anno, e il vicino di casa Raffaele Andò. La sfida domenicale di solito si svolgeva sulla strada litoranea fino a Villafranca e ritorno: una settantina di chilometri. Altre volte Taormina e ritorno. «Facevamo le nostre strategie per staccarli, visto che se arrivavamo in gruppo, loro in volata di solito ci fregavano. Ma al ritorno, sulla salita di Calamona io spesso riuscivo a scappare e non mi prendevano più». Tre ragazzini possono fare una squadra, e in bici succedono miracoli. Girarsi, prima del traguardo, e vedere che il mucchio selvaggio dei “grandi” sbuffa, sbanda, schiuma rabbia ma resta lontano era una bella soddisfazione che meritava sicuramente un pidone per tutti e tre. «Salvatore Famà, uno di quel gruppone, è rimasto un mio amico e, quando vado in Sicilia, a volte usciamo ancora in bici insieme. È un bel tipo, forte, anche di carattere. Anni fa gli hanno diagnosticato il diabete, ma lui non ha mollato la bici, anzi. Quando ero in Sicilia, mi ha chiamato per sentire se uscivamo insieme il giorno dopo. Io gli ho detto che dovevo fare un allenamento abbastanza duro, sulla distanza, quasi 200 km. Lui ha detto: “Va bene, vengo, ci provo, al massimo torno indietro prima”. Alla sera mi ha telefonato per dirmi che dopo quel giro non aveva dovuto neanche fare l’insulina».
Un arrivo sui sanpietrini. I pedali di Vincenzo Nibali giravano forte, non solo nelle sfide sulla litoranea con gli adulti e, a 16 anni, viene ingaggiato dalla Mastromarco, squadra toscana che lo può far correre in gare importanti. Bisogna lasciare tutto alle spalle: papà, mamma, amici, una fidanzatina, piduni, fichi d’india, Sicilia, tutto. Scelta difficile, ma inevitabile; si apre un nuovo mondo. Allenamenti duri, compagni di squadra diversi dai bucanieri, orari rigidi, impegno estremo nella nuova vita lontano dal mare che manca non poco. Ma tutta questa fatica viene ripagata da sensazioni che possono esplodere in poche centinaia di metri, per esempio sulla salita dell’arrivo del campionato juniores ad Asolo. Dietro a Vincenzo c’erano solo le moto della televisione. Di fianco c’era un signore paonazzo che urlava: «Attento Nibalino, non cambiare! Non cambiare!». «Era il mio direttore sportivo Carlo Franceschi, fuori di sé per la tensione che mi correva di fianco travolgendo gli altri spettatori. Siccome si arrivava sui sanpietrini, era terrorizzato dall’idea che cambiassi rapporto, rischiando di fare cadere la catena». Nibali non cambiò, e divenne campione italiano Juniores. Da allora di strada, e di strade, ne ha fatte tante: centinaia di migliaia di chilometri a pedali, per poi salire in cima a tanti podi: 2007 Giro di Toscana, 2008 Giro del Trentino, 2009 Giro dell’Appennino, 2010 Giro di Slovenia e Vuelta di Spagna, 2012 Tirreno-Adriatico, 2013 Tirreno-Adriatico e Giro d’Italia, 2014 Tour de France.
Alfredo Martini, il grande signore del ciclismo scomparso pochi mesi fa, una volta che Gianni Mura gli chiese di dire le prime tre parole che gli faceva venire in mente la bicicletta, rispose “dignità, libertà e speranza”. Per Nibali «sono parole giuste, come erano sempre quelle di Martini, che sapeva andare dritto al cuore delle cose e delle persone. Io, se tra le tre dovessi sceglierne una, direi libertà. La bicicletta per me è libertà, sono d’accordo con mio padre».
Il ciclismo, ovviamente, è anche molto altro: «80% testa, 20% gambe» secondo Alessandro De Marchi, uno dei corridori emergenti. «No, queste percentuali io le correggerei in 50% e 50%. De Marchi è un grande faticatore e forse per questo lui attribuisce così tanta importanza alla tenuta mentale. Ma, se le gambe non girano più, non c’è testa che tenga». Il ballerino russo Rudolf Nureyev, invece, sosteneva che «il talento conta per il 10%, il 90% è costanza». «Ecco, questo è giusto anche per il ciclismo. Se molli, sei finito. Per esempio, due settimane lontano dalla bici ci stanno, tre diventano un rischio. Quello che è importante è che quando stacchi, devi staccare del tutto. Meglio ingrassare anche due o tre chili, ma risalire in bici con la voglia di fare fatica, anche in allenamento».
Uno che non aveva paura di far fatica, e forse molta gliel’hanno fatta fare per niente, è stato Pantani. Era l’idolo di Nibali, come del resto di tutti i ragazzini della sua età che amavano il ciclismo. Dopo l’arrivo della tappa del Giro a Messina, voleva portare a casa un pezzo d’asfalto dove era passato il Pirata. «Io, quando lui vinceva, avevo 13 o 14 anni e per me era un eroe, soprattutto per il suo modo di correre, di staccare tutti in salita. Era un fenomeno, irripetibile. È stato fermato per ematocrito alto, non è stato un caso di doping, questo è sempre giusto ricordarlo. Dopo, non ho più seguito bene quello che è gli è successo, ma mi sembra che sia stato tutto assurdo, fino alla fine».

Samurai e funamboli. Pantani diceva di andare forte in salita «per abbreviare l’agonia». «C’è qualcosa di vero, nel senso che il livello di fatica e sofferenza può arrivare a livelli estremi. A volte hai brutte sensazioni: di non farcela più, di andare piano, di doverti fermare. E non sai se le provano anche i tuoi rivali. L’unico modo per capirlo, è guardarli in faccia quando ce li hai di fianco». Il ciclismo è uno sport bello forse anche perché è crudele. L’importante, per Nibali, è che sia pulito. Il doping degli altri ha già sgonfiato più volte anche le sue ruote, e il suo morale. Ha avuto come capitano Di Luca, come rivale Riccò, prima fenomeni e poi presi con le mani, e la testa, nella marmellata. La Fassa Bortolo, prima squadra in cui Nibali aveva trovato ingaggio come professionista, ha tirato giù la serranda dopo il caso Frigo, lasciando anche lo Squalo a terra, in tutti i sensi. «Ma adesso io sono convinto che sia lo sport più pulito di tutti. Basta vedere quanti sono i controlli che facciamo rispetto agli altri. Qualcuno può ancora provare a fare il furbo, e forse lo farà, ma tanto poi lo beccano. E il gruppo capisce chi fa risultati che non tornano con l’andamento della stagione». Il ciclismo è bello per tanti motivi: perché è “dignità, libertà, speranza”, ma anche talento, coraggio e fatica. Perché è sport di squadra, ma anche individuale. È forza da samurai in salita, ma anche destrezza da funambolo in discesa, dove si possono superare 100 km all’ora in equilibrio su un filo di copertone spesso qualche millimetro.

Gare e allenamenti con Nibalino jr. Il ciclismo è bello sicuramente anche perché è uno sport popolare. «Sai perché lo è?». Nibali torna a sorridere come quando parlava dei bucanieri: «Perché è uno sport di strada: spesso capita che quando mi alleno da solo, o con il mio compagno di squadra Alessandro Vanotti, ci affiancano altri ciclisti. Fanno domande, chiedono consigli, magari sulla bici da prendere. E pedalano un po’ con noi». Il sorriso diventa risata di nuovo: «Certo, fin che ce la fanno». Uno che ce la fa a pedalare con lui e il “Vano”, o altri professionisti che a volte si uniscono per gli allenamenti, è Antonio, il Nibalino jr., fratello 22enne dello Squalo, che dal prossimo anno diventa professionista ingaggiato dalla Vini Fantini Nippo. «Riesco a fare tutto l’allenamento con Enzo. Dai, prenderò un minuto o due su una salita di cinque o sei chilometri. Certo in gara è diverso: a Camaiore ne ho presi dieci. È ovvio che se apre il gas mi lascia lì. Comunque per me resta mio fratello e ogni tanto mi aiuta anche. Ai Campionati italiani, quando eravamo ancora tutti in gruppo, è venuto di fianco per avvisarmi che dopo poco avrebbero iniziato a tirare di brutto. Così mi sono preparato a non mollare, e meno male». Nel frattempo, per la cronaca, lo Squalo andava a vincere.
Mentre i due Nibali spiegano perché la passione per la bicicletta non smette di scorrere nel loro sangue, Rachele, la moglie di Vincenzo, con in braccio la figlia Emma di otto mesi, lì guarda un po’ perplessa dal divano. «Figurati che all’inizio non capivo perché avevamo sempre una bicicletta nel bagliaio! Gli ho chiesto di regalarmene una elettrica, ma lui dice di no, perché con la bici si deve faticare. E io invece me la prenderò proprio elettrica. Ho visto che ci sono modelli che vanno a più di 50 km all’ora, così lo batto. Comunque, quando Vincenzo porterà Emma sul seggiolino della bici, so che sarà in buone mani». Lui torna a sorridere, come se stesso pensando ancora ai bucanieri.
Venerdì 14 novembre, giorno dei suoi 30 anni, a Messina era una giornata nuvolosa, pioggerellina a tratti, ma lui e Salvatore sono usciti lo stesso: lo Squalo e il Lupo; gran bella coppia, non solo sui pedali. «Siamo andati verso sud, in direzione di Taormina ed è uscito anche un po’ di sole. Sulla strada abbiamo fatto sosta in non so quanti bar e pasticcerie dove c’erano un sacco di amici, conoscenti e tifosi che aspettavano Enzo per fargli gli auguri. È stato emozionante festeggiare pedalando i suoi 30 anni. In una pasticceria, che ha tutte le foto di Enzo appese ai muri, il titolare quando ci ha visto si è commosso». È bello per l’Italia avere un campione così.
Attento Nibalino, non cambiare! Non cambiare!