Davide Gangale, Lettera43 27/11/2014, 27 novembre 2014
FREEMAN RANCH, LABORATORI DELLA DECOMPOSIZIONE UMANA
Corpi umani nudi, in stato di decomposizione, sparsi su 16 ettari di terra. Sono 50, o forse anche di più. Alcuni completamente mummificati, altri morti da poche settimane, divorati dagli avvoltoi e gonfi di vermi. Il posto si trova in Texas, sette chilometri a Ovest della cittadina di San Marcos, ed è chiamato Freeman Ranch. Fa parte del Forensic Anthropology Center della Texas State University, ed è una delle cinque body farm esistenti al mondo, tutte negli Stati Uniti.
I corpi senza nome sono stati donati dalla polizia all’istituto per un fine scientifico: vengono lasciati all’aperto, sottoposti all’azione degli elementi, per studiare il loro processo di decomposizione. Un’arma in più al servizio degli investigatori che si occupano di omicidi e altri reati penali.
Joseph Stromberg di Vox ha visitato il Freeman Ranch e ne ha tratto un reportage. Quando un corpo non identificato viene ritrovato dalla polizia, spesso la prima cosa che gli investigatori si domandano è da quanto tempo la persona in questione sia morta. Le osservazioni fatte alle body farm sono fondamentali per avere una risposta. I ricercatori del Freeman Ranch usano le loro conoscenze sul decadimento anche per tentare di dare un nome ai corpi delle centinaia di persone che muoiono ogni anno di disidratazione o per i colpi di calore, quando dal Messico provano ad attraversare il confine.
«Quello che vogliamo veramente capire è, sostanzialmente, come funziona la decomposizione», ha detto Daniel Wescott, professore di antropologia della Texas State University e direttore della body farm.
«Ogni corpo è come un piccolo ecosistema in azione, proprio qui, e noi vogliamo capire ogni sua parte».
La stragrande maggioranza degli esseri umani condividono la stessa sorte dopo la morte: la decomposizione. A meno che il nostro corpo non venga congelato, cremato o distrutto in altro modo dopo la morte, sarà inevitabilmente consumato da batteri, insetti e animali che riciclano le sostanze organiche trasformandole in nuove forme di vita. L’imbalsamazione e le bare non fermano il processo, semplicemente lo ritardano. Ma le nostre conoscenze sul processo di decomposizione, fino a poco tempo fa, erano davvero scarne.
Il primo studio noto al mondo sulla decomposizione umana è il Washing Away of Wrongs, opera di un giudice cinese chiamato Song Ci. Si tratta di un trattato del XIII secolo sui principi di base dell’autopsia, che spiega come esaminare un corpo e come determinarne la causa di morte, per esempio. Questo lavoro è stato poi proseguito da una serie di scienziati europei, che riesumarono corpi nel corso dell’Ottocento e fecero le prime osservazioni sulle loro specifiche fasi di decomposizione. Si trattava però di studi che facevano ampie generalizzazioni sulla base di pochi corpi esaminati.
Nel corso degli Anni 70 gli scienziati forensi ricorrevano ancora in gran parte a ricerche compiute sulle carcasse di suino per dare le loro consulenze legali in casi di omicidio e tentare di determinare l’importantissimo intervallo post mortem, cioè il tempo che intercorre tra il decesso di una persona e il ritrovamento del suo cadavere. Nessuno aveva infatti mai osservato in prima persona il decadimento di un corpo umano in un ambiente controllato. Le cose sono cambiate soltanto a partire dal 1980.
Nel 1980 alla University of Tennessee l’antropologo William Bass fondò la prima body farm. Bass ha avuto l’idea dopo essere stato chiamato dalla polizia locale a collaborare per un caso di omicidio: le forze dell’ordine avevano ritrovato un cadavere in una vecchia tomba risalente all’epoca della Guerra civile. Sospettavano che il cadavere fosse recente, e che fosse stato messo lì di proposito per occultarlo. Bass analizzò gli indumenti e altre caratteristiche del corpo, e scoprì che non era così. Ma rimase turbato constatando l’incompletezza delle conoscenze sulla decomposizione umana. E così iniziò a raccogliere corpi a scopo scientifico.
Il primo corpo in assoluto è stato quello di un uomo di 73 anni, morto di malattia cardiaca. Il cadavere è stato lasciato a decomporsi sul terreno in una fattoria abbandonata che era stata donata all’Università, appena fuori la città di Knoxville. Alla fine, Bass e i suoi studenti recintarono alcuni ettari di bosco all’interno della proprietà e iniziarono a studiare più cadaveri contemporaneamente.
Nel corso degli anni, i ricercatori della Tennessee body farm ne hanno trattati più di 650, dando legittimità allo studio della decomposizione umana e fissando la maggior parte delle conoscenze che abbiamo attualmente.
Ma ci sono ancora molte cose che non sappiamo: «Il calore e l’umidità influiscono sul tasso di decomposizione. Ciò significa che il processo varia da regione a regione», ha detto Daniel Wescott, direttore del Freeman Ranch.
Un corpo insomma può decadere secondo ritmi molto diversi. Questo è il motivo per cui altre body farm sono state successivamente fondate nel North Carolina, nell’Illinois e, appunto, in Texas. Dal momento che un’operazione come questa sarebbe stata illegale in Europa, il progresso delle conoscenze scientifiche dipende interamente da tali strutture.
Quattro persone impiegate a tempo pieno, insieme con decine di laureandi e di volontari, lavorano nella body farm texana, pagati da finanziamenti della Texas State University e dalle commissioni delle forze dell’ordine.
Il personale mantiene una collezione sempre crescente di circa 200 scheletri umani. «Questi esemplari contemporanei sono preziosi», ha detto il professor Wescott, perché le proporzioni dei corpi umani sono sempre in evoluzione, oggi in gran parte a causa dell’aumento del tasso di obesità, che altera il tasso di usura.
Poter osservare in maniera diversa un processo di decomposizione è praticamente impossibile al giorno d’oggi. La maggior parte delle persone vede raramente resti umani di qualunque tipo: negli Stati Uniti, circa il 70% degli americani muore negli ospedali o in altre strutture piuttosto che a casa, e i corpi che vengono imbalsamati per essere visti sono conservati con un fluido, ricoperti di trucco e sigillati nelle bare.
Un sipario è calato tra la vita e la morte, e la maggior parte di noi raramente ha la possibilità di ’sbirciare’. Inoltre, ha aggiunto Antonius Robben, professore di antropologia che ha studiato le credenze e le pratiche che coinvolgono la morte, «non c’è cultura sulla Terra che abbandoni un corpo senza mettere in atto dei rituali. Si tratta di una delle poche caratteristiche davvero universali tra i gruppi umani. Come uomini abbiamo un forte senso dell’integrità del nostro corpo, e una grande preoccupazione per ciò che gli succede, anche se sappiamo che la persona ormai non c’è più».
Uno dei motivi per cui è così difficile fissare lo sguardo sui corpi del Freeman Ranch, che riposano nella polvere, che vengono divorati da insetti e animali, che trasudano liquido di decomposizione sul terreno, risiede nel fatto che la loro vista fa esplodere l’umana preoccupazione per le sorti del nostro involucro terreno.
La decomposizione sembra trasformarci in esseri di un’altra specie, ma la verità difficile da accettare è che, alla fine, quasi tutti dovremo affrontare il processo del decadimento. Il Freeman Ranch in sé, tuttavia, è un posto bellissimo: 3.500 ettari di terreno, punteggiati da salvia e cactus. Oltre alla body farm, è sede anche di un vero agriturismo gestito dall’Università, che funziona anche da aula per i corsi di zootecnia.
Cinque o sei volte al mese, un corpo umano appena defunto viene portato nella body farm, dove ricercatori e studenti volontari entrano in azione. Innnanizutto lo scaricano e lo portano nel laboratorio, dove prendono le misure, scattano fotografie, prelevano capelli e campioni di sangue.
Un numero identificativo viene assegnato al cadavere. Quando ci sono le condizioni, il corpo viene portato immediatamente all’aperto per la decomposizione.
Ma quando il personale scarseggia, il corpo viene tenuto in un contenitore di acciaio inossidabile e messo in frigorifero per un giorno o due, per arrestarne il decadimento. Poi, la salma viene posizionata nell’area boscosa recintata, monitorata 24 ore su 24 dalle telecamere di sicurezza.
Alcuni corpi sono volutamente lasciati sotto il sole cocente, in mezzo all’erba, altri giacciono sotto l’ombra degli alberi. La maggior parte degli esemplari sono protetti da gabbie di metallo, ma alcuni sono completamente esposti, per cui i ricercatori possono osservare anche gli effetti degli avvoltoi attraverso le telecamere.
I corpi sono attualmente nudi, ma in passato i ricercatori hanno studiato gli effetti della decomposizione anche sull’abbigliamento.
Una stazione meteo registra continuamente la temperatura, la quantità di radiazione solare, quella delle precipitazioni e altri parametri. L’odore caratteristico è un mix di marciume umido e carne rancida, ma meno pungente di quanto ci si potrebbe aspettare.
Quando il professor Wescott porta nuove persone alla body farm, il tour inizia in genere con i corpi più antichi, quelli in più avanzato stato di decomposizione, per dare ai visitatori la possibilità di abituarsi.
Questo perché le prime fasi del decadimento, quando la morte è più recente, sono le più impressionanti. Tuttavia, per comprendere il processo di decomposizione, è necessario vedere tutte le fasi in sequenza, dall’inizio alla fine.
La prima fase inizia poco dopo la morte. Una volta che il cuore ha smesso di battere, le cellule del corpo non possono più mantenere l’omeostasi (l’equilibrio stabile di temperatura, ph e altri fattori) e quindi si rompono.
«Quando ciò accade, la pelle inizia a staccarsi», ha spiegato il professor Wescott, «e così si avvia la putrefazione. I batteri cominciano a nutrirsi del corpo morto: improvvisamente, una fonte molto ricca di carbonio diventa per loro disponibile».
Nel giro di pochi giorni, il ’banchetto’ dei batterteri conduce alla seconda fase: il rigonfiamento.
I batteri, digerendo i componenti solidi del corpo, emettono dei gas (solfuro di idrogeno, anidride carbonica e metano) che inducono il corpo a gonfiarsi enormemente.
Al Freeman Ranch, un corpo può espandersi fino a raggiungere una dimensione due volte superiore a quella del corpo in vita, in alcuni casi facendo sollevare da terra la gabbia di metallo.
Durante questa fase, la produzione batterica di zolfo dà anche al corpo uno strano colorito giallastro, parte di un processo chiamato ’marezzatura’.
Il rigonfiamento innesca anche l’arrivo delle mosche, che depongono le uova in ogni orifizio esposto: occhi, orecchie, naso e bocca e, per i corpi che sono stati sottoposti ad autopsia, nell’incisione che corre lungo il torace.
Un paio di giorni più tardi, queste uova si schiudono e generano le larve, destinate a espandersi sul corpo come uno sciame.
Poiché moltissime larve si schiudono sul viso, ne consumano la carne più velocemente che altrove. Si crea così uno strano accostamento: un viso avvizzito, dal cranio annerito e scarnificato, su un corpo ancora gonfio. L’ultimo episodio di questa fase è forse il più impressionannte: un corpo vividamente colorato, ancora abbastanza carnoso per assomigliare più o meno a quello di un essere umano vivente, ricoperto però da un tappeto di vermi.
Dopo tre giorni di decomposizione, è la volta della terza fase: lo spurgo. Il corpo si sgonfia e si riduce, la pelle scoppia e consente la fuoriuscita dei fluidi.
«I liquidi che defluiscono dal corpo sono così ricchi di azoto che in realtà uccidono tutta la vegetazione che c’è intorno», ha chiarito il professor Wescott, «ma se si ritorna nello stesso posto a distanza di un anno, sarà molto ricco di vita vegetale, perché la decomposizione del corpo alla lunga agisce come un fertilizzante».
Nel giro di poche settimane, i batteri e le larve avranno consumato la maggior parte della carne del corpo. A questo punto interviene la fase più lunga, quella in cui versano la maggior parte dei corpi presenti al Freeman Ranch: il degrado avanzato.
Quelli rimasti al sole si asciugano e si mummificano, perché il calore li rende inospitali anche per le mosche e i batteri. Quelli deposti all’ombra continuano a consumarsi lentamente, fino a quando tutta la carne non viene mangiata. A questo punto, i corpi appaiono riconducibili a esseri umani solo in modo indiretto e astratto.
Infine, entro un periodo che varia da sei mesi a un anno a seconda delle condizioni meteo, arriva la fase finale secca, quando il corpo è ridotto solo a un mucchio di cartilagine, ossa e brandelli di pelle che potrebbero essere scambiati per indumenti sporchi.
Quando la decomposizione è terminata, le ossa vengono prelevate e portate nel laboratorio, cotte in pentole da cucina industriali per rimuovere le restanti tracce di carne, ripulite da stagisti laureandi che lavorano con gli spazzolini da denti e aggiunte alla collezione.
Tutto il processo è drasticamente diverso se i corpi non vengono contenuti nella gabbia protettiva.
«Si possono osservare ossa sfilacciate e piume», ha spiegato il professor Wescott, «la prova che gli avvoltoi sono stati qui».
Le immagini riprese dalle telecamere dimostrano che spesso gli avvoltoi arrivano pochi minuti dopo la deposizione del corpo, e che vere e proprie orde, composte anche da 40 avvoltoi in una volta sola, possono circondare un corpo e ripulirlo nel giro di poche ore.
Gli avvoltoi non mangiano la pelle, bucano il corpo per nutrirsi delle interiora. A volte si posano sulla parte superiore della gabbia toracica e ne rompono le costole. Altre volte possono trascinare il cranio e altre parti del corpo in direzioni diverse.
Per Wescott e gli altri ricercatori, la decomposizione in gabbia rappresenta il più interessante esperimento scientifico effettuabile in una body farm. Un tempo si pensava che i batteri all’opera nel processo di decomposizione fossero semplicemente della stessa specie di quelli presenti nell’organismo vivo.
In realtà, è una successione di diverse specie di batteri a prendere parte al processo nel corso del tempo. Sono coinvolti anche mosche scarafaggi.
Alcune specie di batteri rilasciano poi sostanze chimiche che attraggono particolari tipi di insetti. A loro volta, questi insetti sono preda dei topi, che attirano serpenti a sonagli e altri predatori più grandi. Un corpo umano in decomposizione, insomma, crea una notevole complessità: un ecosistema spesso sottovalutato, che gli scienziati vorrebbero chiamare necrobioma.
Il professor Wescott spera di riuscire a mappare tutto il necrobioma per riuscire a determinare con precisione l’intervallo post-mortem. Capire da quanto tempo una persona sia morta, se il suo cadavere viene ritrovato dopo poco tempo, è abbastanza facile.
Ma per quei corpi ritrovati mesi dopo, restringere il campo con precisione è molto più difficile. La soluzione potrebbe essere appunto la mappatura del necrobioma: un giorno, secondo Wescott, gli investigatori potrebbero semplicemente prelevare con un tampone la sequenza di Dna batterico rinvenuta sul cadavere, e usare la concentrazione delle diverse specie per stabilire esattamente da quanto tempo sia in stato di decadimento.
Se questo scenario però è ancora lontano nel tempo, ci sono comunque altri metodi di calcolo dell’intervallo post-mortem che il personale della body farm insegna alla polizia.
Uno di questi consiste nell’analisi dei gas emessi dal corpo, dal momento che la concentrazione dei vari gas cambia in maniera prevedibile nel tempo.
I ricercatori addestrano anche i cani polizotto, e fanno fare ai cadetti appena entrati in servizio degli esercizi per abituarli alla vista dei cadaveri.
Tra tutti i progetti in corso di realizzazione nella body farm, quello forse più importante è gestito dal professor Kate Spradley, ed è chiamato Operazione Id.
Nel corso degli ultimi anni, un numero crescente di migranti che attraversano il confine texano dal Messico sono stati trovati morti in luoghi inaspettati, come Brooks County, che si trova a 70 chilometri dal confine, ma è stata la tomba di più di 100 migranti nel 2013.
«È una strage, ma nessuno vuole riconoscerlo», ha detto Spradley, anche lui antropologo, che prima di arrivare al Freeman Ranch aveva già lavorato sull’identificazione dei migranti nella contea di Pima, in Arizona.
Centinaia di persone muoiono ogni giorno cercando di entrare clandestinamente negli Stati Uniti. Dopo che i migranti messicani vengono fatti passare dai trafficanti attraverso il confine con il Texas, in genere finiscono all’interno di camion diretti a Falfurrias.
Ma in una stazione di confine a Sud della città, uno dei 71 punti di controllo lungo il confine con il Messico, tutti i veicoli vengono scrupolosamente controllati.
Per questo motivo i trasportatori di clandestini li abbandonano a pochi chilometri dal posto di blocco, e spiegano loro che devono camminare per altri 70 chilometri se vogliono arrivare alla meta.
Questa fase del viaggio, a piedi sotto il sole del Texas, è estenuante e molti non ce la fanno. «Di solito sono vittima dei colpi di calore o della disidratazione», ha spiegato Spradley, «e vengono abbandonati dai trafficanti».
I cadaveri vengono recuperati dalla polizia e dalle guardie di frontiera a distanza di ore o di giorni dopo la morte, il più delle volte sotto l’ombra degli alberi. Spesso i cadaveri vengono sepolti in tombe senza nome, senza autopsia e senza tentativi di identificazione dei resti né di contatto con le famiglie.
Pochi americani conoscevano il problema, prima che il professor Spradley con le sue ricerche riuscisse a capire che cosa può effettivamente accadere ai corpi di questi migranti.
Nel corso dell’ultimo anno, assieme ad altri antropologi provenienti dalla Baylor University, dal Forensic Anthropology Team argentino e dal Centro Colibri per i diritti umani ha lavorato per riesumare i corpi dalle tombe anonime e restituire i resti alle famiglie dopo averli analizzati al Freeman Ranch.
Spradley e il suo team di ricerca hanno iniziato con la ricostruzione del profilo biologico di ciascun corpo, nel tentativo di determinarne l’età, il sesso, l’intervallo post-mortem e altri fattori.
Hanno poi messo insieme un profilo culturale, attraverso l’abbigliamento, i gioielli e gli altri oggetti sepolti con il corpo, per tentare di saperne il più possibile sulla sua origine.
I beni personali dei defunti, accuratamente ripuliti, sono stati infine fotografati e pubblicati nel database online Namus, consultabile dai parenti alla ricerca di informazioni.
«Quando si guardano gli effetti personali di una persona morta in questo modo, non si può fare a meno di identificarsi con lei», ha detto Spradley.
«Penso che la cosa peggiore per i parenti sia non sapere cosa possa essere successo a un loro caro. Non è mai una buona notizia sapere che un membro della famiglia è stato identificato, ma credo che questo almeno permetta loro di poter iniziare a elaborare il lutto. Hanno i suoi resti, possono celebrare un funerale e avere un posto dove andare a piangere. Penso che tutto questo sia molto significativo».
Per realizzare tutto questo, per restituire i corpi dei migranti ai loro cari e contribuire a risolvere omicidi, Spradley, Wescott e il resto dei ricercatori che lavorano nella body farm sono costantemente a contatto con corpi umani morti, su base giornaliera.
Un lavoro simile diventa più facile nel corso del tempo: «È come qualsiasi altra cosa, il modo migliore per abituarsi è farlo», ha detto Wescott, «più si lavora con persone morte, e meno se ne avverte il fastidio».
Tenendo sempre in mente però che «quel corpo una volta era una persona viva. Ci sono parenti e amici che l’hanno amata e le sue spoglie, adesso, meritano rispetto».