Giovanni N. Ciullo, D, la Repubblica 22/11/2014, 22 novembre 2014
Biografia di Anna Caterina Antonacci
[Anna Caterina Antonacci]
Nel Teatro alla Scala, in un giorno senza recite né prove. Come essere in un labirinto magico: fra lunghi corridoi silenziosi che portano ai camerini, locandine incorniciate delle rappresentazioni storiche, tende di velluto rosso dietro le quali si apre improvvisa la sala con l’enorme lampadario spento. Poi nel backstage, solitario anche lui, il cavallo di Troia: macchina infernale in formato gigante utilizzata per Les Troyens, opera di Berlioz diretta da Antonio Pappano, grande successo del cartellone 2014 (mentre il 7 dicembre debutterà la nuova stagione con il Fidelio diretto da Daniel Barenboim). In scena, accanto a quel cavallo e nel ruolo di Cassandra – la più titolata Cassandra fra i soprani contemporanei –, lei, l’ultima diva della lirica italiana: Anna Caterina Antonacci.
Un curriculum ricco di ruoli (Carmen, Elettra, Medea, Cassandra appunto) e grandi direttori, il suo. Da Riccardo Muti («Divertente ma inarrivabile, sulla cima della sua montagna») a Claudio Abbado («Lui era più alla mano, aveva il gusto del buttarsi nei progetti, un entusiasmo persino infantile per la musica»). Proprio Abbado si mise a suonare al clavicembalo per accompagnarla durante due concerti barocchi («Fu un regalo incredibile»). Anche se, aggiunge, con i direttori più giovani c’è più affinità: «È un fatto generazionale. Io stimo Pappano, per esempio: artisticamente e umanamente trovo sia un grandissimo». Già Cavaliere della Légion d’Honneur, nella scuderia di Askonas Holt come solo i più grandi della musica mondiale, Anna Caterina è il classico esempio del profeta inascoltato in patria. Fu infatti il trasferimento in Francia, dopo un clamoroso successo all’Opéra di Parigi, a segnare la svolta della sua carriera. «Andando via dall’Italia ho fatto esperienze che mi hanno fatto crescere. Non che avessi tutta questa voglia di crescere, almeno con l’età», sorride. Nata a Ferrara nell’aprile 1961, cresciuta a Bologna dove il padre era stato trasferito per lavoro (Mario Antonacci fu il giudice di primo grado della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna «e io ho avuto davvero paura che ci lasciasse le penne», dice oggi), vacanze a Leuca con la famiglia salentina che le ha trasmesso un amore viscerale per quella terra, il mare e gli ulivi («Sarebbe il posto più bello mondo, se solo smettessero di violentarlo», aggiunge raccontando dell’uliveto che ha comprato in provincia di Lecce e dell’olio che produce per regalarlo agli amici), si considera una giramondo. «Non ho mai avuto difficoltà ad adattarmi e non ho mai sofferto la lontananza da nulla. Negli anni ho capito che lascio i luoghi come lascio le persone: tanti ricordi, nessun rimpianto, sapendo di poter ricominciare altrove». Cosi dopo otto anni a Parigi «L’ho molto amata ma era diventata troppo caotica per me» –, oggi ha rifatto le valigie per andare a Ginevra con il figlio Gillo, avuto dalla relazione con il campione di pallanuoto Luca Giustolisi. «Volevo una città più piccola e meglio organizzata. Una tappa di ravvicinamento all’Italia? No, non credo».
Intanto è stata molto felice del ritorno alla Scala la scorsa primavera, racconta mentre chiacchieriamo passeggiando nel teatro silenzioso. Un ritorno, perché proprio qui nel 1985 una giovanissima Anna Caterina debuttava nel ruolo di Kate Pinkerton nella Madama Butterfly diretta da Lorin Maazel. «E portare a Milano Les Troyens mi ha fatto piacere perché è un’opera che sento molto. Cassandra è la mia preferita. Un’emarginata totale che vive in una solitudine assoluta, schifata da parenti e concittadini. Passa per malata o folle, ma ha solo qualcosa in più degli altri. E fa paura. Io trovo che sia molto attuale, è uno di quei devianti più avanti dei loro tempi, che nessuno capisce e che ritrovi in ogni epoca storica. Io non mi sento così, però è un personaggio che mi affascina».
Anche il 2015 per Antonacci sarà un anno pieno di impegni: continuerà a portare in giro per il mondo uno dei suoi ultimi successi, La voix humaine di Poulenc. Terrà recital e concerti sinfonici a Londra, ancora con Pappano. Sarà nella Penelope di Fauré a Bruxelles e in Ifigenia in Tauride di Gluck a Ginevra. Infine per La Ciociara di Marco Tutino, opera ispirata al film di De Sica, sbarcherà nella seconda parte dell’anno a San Francisco. «Il rapporto fra lirica e cinema per me è fondamentale, per La voix humaine mi sono ispirata a Ingrid Bergman, così come Annie Girardot in Rocco e i suoi fratelli è stata la mia ispirazione per la morte di Carmen. Il primo a farmi scoprire l’interazione fra il bel canto e la capacità attoriale fu Gabriele Lavia, in una Maria Stuarda di tanti anni fa. Era un talento, quello dell’attore, che non pensavo di avere: da giovane avevo solo una cotta per la voce, poi ho capito quanta teatralità c’è dietro». Fu il padre, grande appassionato, a farle scoprire l’opera, riempiendo la casa di dischi. «E io cantavo appena possibile, mi piaceva. Chi credeva in me? Praticamente nessuno. Solo io pensavo di avere una voce importante, ma quando mi feci sentire non impressionai: ero solo una fra tante. Però ero musicale, mi piaceva stare in scena, così continuai a studiare, credendoci, inventando un mio modo personalissimo di cantare. E infine ebbi fortuna trovando un maestro (Alain Billard, ndr) che è stato fondamentale per la mia carriera». Certo la lirica di oggi non è più quella delle Callas, dice. «È cambiato molto, era un’epoca in cui i cantanti erano davvero dei divi. Io ho iniziato con un piccolo ruolo accanto a un mostro sacro come Shirley Verrett. Oggi direttori e registi sono diventati più importanti e il pubblico si aspetta uno show completo, non solo musica. Se mi sono mai immaginata come cantante pop? Assolutamente no. E forse ho sbagliato», sorride, «magari sarei diventata ricca e famosa».
Ma che bambina era Anna Caterina Antonacci? «Timida, sognatrice e solitaria. Un po’ grassoccia, con due fratelli maschi più piccoli. Una a cui piaceva fantasticare, raccontandosi da sola le favole. E se devo confessarlo, ho continuato almeno fino ai 20 anni». E cosa immaginava? «C’erano principi azzurri, fughe, situazioni noir. Un mondo molto romantico e brontiano. Ho spesso pensato di scriverle, queste fantasie, ma poi la pigrizia prendeva il sopravvento: mettere i pensieri nero su bianco lo trovo un lavoro mostruoso perché penso che la mente sia più veloce della scrittura». Lei canta l’amore, ma non ci crede troppo. «È una fiction, un falso storico. Non è disincanto, è realismo. Nella mia vita ho amato molti uomini, ma nulla è veramente durato. Per la mia carriera, certo. Ma soprattutto per la mia indipendenza, caparbia e irriducibile. Gli uomini davanti a una cosa così non sanno come reagire. E io ci ho fatto i conti. Non tutti abbiamo bisogno di essere in coppia, si può amare anche senza essere in un rapporto amoroso stabile». Nessun rimpianto? «Sogno di ritornare ai miei 3 anni, ma so che poi rifarei tutto. Sbagli compresi. Perché sì, umanamente ho fatto un sacco di errori. E la cosa che mi rimprovero di più è una superficialità che a volte ha fatto soffrire gli altri. Quando hai una vita che cambia rapidamente, oggi qui e domani altrove, sei costretta a concentrarti subito su altro, lasciandoti alle spalle le persone. Le uniche costanti che ho sono gli amici veri. E i miei beni-rifugio: una foto di mio padre che gli fece un pittore, la bicicletta che è una delle mie passioni (le è capitato di fare anche 100 chilometri in un giorno, ndr), il purè di fave con le cicorie della mia amica Maria Grazia, le olive del mio uliveto nel Salento». E il rapporto coi colleghi? «Ci sono stati legami forti e separazioni strazianti, team con cui si è stabilito uno spirito goliardico e grandi solitudini in scena e fuori. A ogni modo nel nostro lavoro creazione e concentrazione sono individuali, tendiamo a chiuderci in una forma di autismo».
E quando cala il sipario, che mamma è? «Una mamma-amante. Faccio tante cose con Gillo, cerco di trasmettergli l’amore per la cultura. Lui si diverte molto a teatro, gli piace recitare. È un ragazzino sensibile, sempre preoccupato per me: che venga criticata o delusa. Una sera a Marsiglia sbirciò dalla porta del camerino e non sapendo che la security non aveva fatto passare né i fan né i mazzi di fiori, pensò a un fiasco e mi disse: “Non te la prendere mamma, ma volevo avvisarti che fuori non c’è nessuno”».