Cosimo Rossi, il Venerdì 21/11/2014, 21 novembre 2014
DEI DELITTI E DELLE PENE 250 ANNI DOPO. E IL MONDO ANCORA TRADISCE BECARIA
Probabilmente non se lo figurava neanche lui che dopo due secoli e mezzo quel suo libriccino potesse esser ancora in auge. Se non fosse la cronaca a incaricarsi di far presente, con l’algida pignoleria che le è propria, quanto i principî filosofico-giuridici enunciati da Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene siano lungi dal venir accolti dal mondo civilizzato alla ricorrenza del 250esimo anniversario dalla pubblicazione, nel 1764. Pena di morte e tortura, infatti, che Beccaria confuta in ragione del fatto che non esiste libertà laddove in nome di quella medesima libertà il cittadino si assoggetti a render disponibile la propria vita e tangibile il proprio corpo da parte di un’autorità costituita, affliggono il pianeta con indefessa crudeltà.
Secondo Amnesty International al marzo 2014 sono 58 su 191 i Paesi dove vige la pena capitale. Tra questi spiccano gli Stati uniti, dove il boia opera in 27 stelle su 51. Ma è la tortura a far registrare un’allarmante recrudescenza: tra il 2009 e il 2014 Amnesty ha potuto accertarne la pratica in 141 Paesi. In quest’epoca dove sentiamo riproporre «il valore della sicurezza come fondamento esclusivo della legittimità dello stato destinato a prevalere in ultima istanza sulle garanzie individuali», lo storico del diritto Piero Costa rileva dunque come il pensiero di Beccaria stia lì a ricordare quanto invece «non solo i trasgressori, ma tutti cittadini vadano difesi dalla durezza delle pene e la tentazione di rinunciare alle libertà».
È ascoltando le esperienze dell’amico Alessandro Verri in qualità di «protettore dei carcerati» per il senato milanese che Beccaria prende spunto. Nato marchese di Gualdrasco e Villareggio nel 1738 a Milano, studia dai gesuiti a Parma e si laurea in giurisprudenza a Pavia. Insofferente e irrequieto, nel 1760, oltre che delle Lettere persiane di Montesquieu, Cesare s’innamora della 16enne Teresa Balsco, che sposa contro la volontà del padre rinunciando ai diritti di primogenitura, e che gli darà quattro figli; di cui sopravvive solo la primogenita Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, con cui il rapporto sarà sempre difficile. Cacciato dalla famiglia, vive per qualche tempo ospite di Pietro Verri, che lo mantiene anche economicamente. Ed è al cenacolo dei fratelli Verri che si forma la sua coscienza di intellettuale, cofondatore nel 1761 dell’Accademia dei pugni e poi collaboratore della rivista II Caffè, intorno cui si raccolgono le idee dell’aristocrazia progressista nella Milano del dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria.
Non son del tutto spenti i secenteschi roghi per stregoneria – gli ultimi ardono in Svizzera e Polonia tra il 1782 e il 1793 – quando il venticinquenne Beccaria scrive Dei delitti e delle pene, pubblicato a Livorno nella primavera 1764 dal tipografo Cortellini, che stamperà anche l’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert e dal quale, grazie a una legge granducale, il marchese può ottenere l’anonimato per eludere la censura cattolica. E a ragion veduta, visto che il 3 febbraio 1766 il libro viene messo all’Indice. Poco dopo anche gli stati austriaci lo escludono dalla vendita al pubblico tranne che «per la gente di giudizio»; mentre sarà Gabriele Verri, padre di Pietro e Alessandro, a formulare il parere del senato meneghino contro l’abolizione della tortura.
Allora come oggi il divieto suggella comunque il successo. E quello del giurista milanese rimbalza da un capo all’altro del mondo. A partire dalla Francia, dove dell’entusiasmo di Voltaire e i philosophes si fa interprete l’abate André Morellet, che nel 1766 – anno in cui l’opera riporta per la prima volta l’attribuzione a Beccaria e un’articolazione in paragrafi – redige una traduzione con note di Denis Diderot riorganizzando il testo in una trattazione sistematica più efficace; tanto da riscuotere l’encomio dello stesso marchese e venir assunta come «vulgata» ufficiale per quasi due secoli anche in italiano (fino all’edizione del 1958 che ripristina la versione dell’autore). In omaggio alle sue tesi nel 1786 il granduca di Toscana Leopoldo II abroga la pena di morte, ma è sul nascente sistema penale americano che lo scritto ha maggiore influenza: Thomas Jefferson lo legge dall’italiano attraverso Filippo Mazzei, suo vicino di casa a Monticello, ispirandosi per una formulazione delle sanzioni che abbandoni le pene corporali del cosiddetto Bloody Code in favore del sistema penitenziario. Caterina II di Russia, invece, invita lo stesso Beccaria a entrare in una commissione per la revisione dei codici. Ma lui rinuncia, sconsigliato anche da D’Alambert e memore dalla delusione per il viaggio in Francia di fine 1766, quando si era trovato a disagio nell’intellettualismo dei salotti parigini, a loro volta spiazzati dalla timidezza scontrosa del marchese. Logorato anche dalla gelosia per la moglie, Beccaria aveva fatto pronto rientro a Milano. Sempre più schivo, non si muoverà più: progetta una grande opera sulla convivenza umana che non vedrà mai la luce e nel 1771 entra nell’amministrazione asburgica come consigliere economico. Nel 1774, appena tre mesi dopo la morte di Teresa, si risposa con Anna dei conti Barnaba Barbò, da cui avrà il figlio Giulio. Muore per un ictus a 56 anni nel 1794, quando ormai il terrore rivoluzionario ha ghigliottinato la forza delle sue idee, oscurandola praticamente fino al secondo dopoguerra.
Nomo propheta in patria, ancora oggi nei libri di scuola italiani il nome di Beccaria ricorre più che altro in quanto nonno di Manzoni, che, pur ritenendolo «un grande ingegno», definiva non senza dissensi il suo come «un libriccino fortunato». Eppure: «Solo dopo di lui l’esecuzione della pena si realizza in discontinuità con la vendetta – rileva il presidente del Consiglio europeo per la cooperazione in materia penale, Mauro Palma – affermando che il soggetto non può a nessun fine esser ridotto a oggetto, quindi la supremazia della ragione giuridica su qualunque ragione politica». Teorizza infatti Beccarla traendo la celebre conclusione alla propria trattazione: «Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi».