Massimo Gaggi, IoDonna 22/11/2014, 22 novembre 2014
NELLA PRATERIA, TRA I DELUSI DI OBAMA
Giunti a metà del secondo mandato alla Casa Bianca, tutti i presidenti Usa deludono, chi più chi meno, le attese degli elettori. L’America che ha votato il 4 novembre, però, più che delusa, è sembrata in rivolta contro Barack Obama.
Il leader incoronato nel 2008 con grande entusiasmo, e che ancora due anni fa è stato riconfermato con un buon margine, è stato improvvisamente abbandonato anche da una parte dell’elettorato progressista: mentre i maschi bianchi hanno votato per i repubblicani ma con una maggioranza più ampia del previsto, donne e minoranze etniche, i principali serbatoi elettorali di Obama, stavolta hanno disertato in massa le urne.
I perché di quello che solo in apparenza è un repentino voltafaccia sono molti: dalla ripresa economica che ha arricchito pochi, mentre il 70 per cento degli americani pensa di aver perso terreno anche negli ultimi due anni, alla mancanza di leadership del presidente tanto in casa quanto all’estero. Le origini della frana obamiana le troviamo nei giorni del suo primo, trionfale successo: le promesse impossibili di una campagna elettorale giocata su parole d’ordine di cambiamento radicale che avevano fatto sognare. E l’illusione di poter superare l’ostilità repubblicana con accordi “bipartisan” sulle riforme e di governare un Paese pronto a seguirlo ovunque e a dargli carta bianca anche per riscrivere il contratto sociale.
Nel giorno del suo trionfo - la cerimonia d’insediamento nel gennaio 2009 davanti a quasi due milioni di americani arrivati a Washington per acclamarlo - Obama disse che chi considerava i suoi programmi esageratamente ambiziosi, chi sosteneva che «il sistema americano non tollera riforme troppo impegnative, è solo un cinico che non si rende conto che il terreno sotto i suoi piedi è cambiato, che le vecchie regole, i meccanismi stantii che hanno logorato la politica per tanti anni, sono usciti di scena».
I fatti degli anni successivi - sicuramente propiziati dall’ostilità preconcetta e dagli agguati dei repubblicani, oltre che dagli errori del presidente - hanno dimostrato che Obama si era illuso. Del resto, nella storia americana le riforme radicali, quelle nelle quali un presidente riesce a manipolare la bussola del destino, sono arrivate solo con il Paese davvero con le spalle al muro, in genere per una guerra: come disse un secolo fa Theodore Roosevelt, «se Abramo Lincoln non fosse stato presidente durante la guerra civile, nessuno ricorderebbe il suo nome».
Oltretutto Obama si è trovato a dover tenere insieme una società assai più complessa, frammentata e litigiosa di quella con la quale hanno avuto a che fare i suoi predecessori. Impresa proibitiva, tenere sotto la stessa tenda democratica gli ambientalisti per i quali il primo nemico si chiama Co2 e gli operai degli Stati che si reggono sull’economia del carbone, la sinistra “liberal” che accusa la Casa Bianca di non aver punito Wall Street per i disastri della crisi del 2008 (nessun banchiere finito in galera) e il mondo finanziario che si considera, invece, perseguitato da un governo che ha imposto regole e controlli considerati vessatori, oltre che onerosi.
Ma non è solo una questione di programmi: l’esito di molti referendum nei quali gli elettori hanno approvato localmente misure sostenute dai democratici - aumento del salario minimo, liberalizzazione della marijuana, tutele ambientali nella ricerca di idrocarburi - salvo poi votare per i politici repubblicani, dimostrano che, sempre di più, molti in America sostengono il loro candidato sulla base di una percezione personale che prescinde dalla sua agenda programmatica. Questo è vero soprattutto negli Stati dell’interno, quelli nei quali è maturata la sconfitta democratica delle settimane scorse. Già dieci anni fa, seguendo in Ohio e Wisconsin il duello presidenziale tra George Bush e John Kerry, fui colpito dalla gente comune che affollava i comizi. Ti spiegavano che le elezioni sono questione di feeling: avrebbero votato per quello, tra i due candidati, con il quale si sarebbero trovati più a loro agio a fare fish fry, la cena del venerdì sera a base di pesce fritto che in alcune parti degli Stati Uniti è quasi un rito. Guardando queste immagini, n
Non c’è dubbio che Bush, un presidente che certo non viene ricordato come un grande stratega, né un uomo colto, ma che è stato abbastanza furbo da fare il cow boy in giro per il Paese, rimarcando i suoi errori grammaticali per mostrarsi più alla mano, fosse più vicino alla gente delle grandi pianure del sofisticato Kerry, il politico capace di parlare un perfetto francese e con la moglie miliardaria, che fece naufragio anche per un perfido spot elettorale repubblicano che riprendeva il suo zigzagare in windsurf al largo di Nantucket. Oceano, isole da milionari, cambi di rotta a seconda del vento, uno sport sconosciuto. Il messaggio subliminale: attenti, questo Kerry viene da un altro pianeta.
In campagna elettorale, Obama è riuscito a mantenere il contatto con la gente per la forza narrativa della sua storia personale, ma poi la distanza dal Paese di un presidente così cerebrale è rivenuta fuori. Riuscirà Hillary, donna, ex senatrice di New York, ex “first lady”, a riconquistare gli elettori maschi bianchi? Difficile dirlo, ma la Clinton ha un apripista: il marito Bill, che nel Sud ci sa fare.
Del resto, già nel 2008 Hillary si presentò nelle fabbriche e nelle fattorie come il candidato popolare che beve birra e non vino come il sofisticato Obama.
Nel 2008 non funzionò: le andrà meglio stavolta?