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 2014  novembre 23 Domenica calendario

GLI ONERI CHE BERLINO NON VUOLE PAGARE

Nonostante le tante dichiarazioni che fanno pensare a novità nell’economia europea, i giorni scorsi ci hanno ripetuto un copione già vissuto molte volte. In primo luogo abbiamo assistito a previsioni nere sul futuro dell’economia dell’Unione Europea, soprattutto della zona euro. Esse ci hanno ricordato che la ripresa non è ancora in vista e che investimenti e consumi saranno ancora pigri. Il secondo messaggio (anch’esso regolarmente ripetuto negli ultimi sei mesi) è che anche la Germania è in difficoltà: in un mondo pieno di problemi non si può vivere solo di esportazioni.
Il terzo messaggio, uscito dai vertici internazionali, è che la politica economica europea viene criticata da governi ed economisti di tutto il mondo ed è ritenuta pericolosa non solo per noi ma anche per lo sviluppo globale. Il quarto ripetuto messaggio (questo fortunatamente positivo) è che Mario Draghi impegnerà la Bce, la Banca centrale europea, a fare tutto il possibile per aiutare la ripresa, alzando le aspettative attraverso l’uso degli strumenti a disposizione per ridare un po’ di fiato all’economia europea, ora in vera e propria fase di stagnazione.
Queste sequenze si sono ripetute più volte e avranno probabilmente gli stessi effetti che hanno avuto in passato: le parole di Draghi salvano l’economia dal collasso, abbassano i tassi di interesse dei titoli pubblici, riducono il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro e fanno anche salire le quotazioni delle azioni in tutte le borse dei paesi della zona euro.
Tuttavia non possono, da sole, preparare la ripresa. La Bce rimane l’unica struttura europea che opera contro la crisi: un’azione capace di evitare il precipizio ma che non può, senza un cambiamento nella strategia dei governi, farci uscire dai guai. Fino ad ora tale cambiamento di politica non l’abbiamo visto. I trecento miliardi di investimenti programmati da Juncker per i prossimi tre anni indicano la via giusta ma non sono sufficienti, soprattutto se assisteremo anche all’ultimo atto di un rito ormai ripetuto, cioè il rifiuto all’adozione di misure straordinarie da parte della Germania.
Parlo della Germania perché ormai la sua leadership in Europa è senza discussione. La Francia appare sempre più disorientata e la Gran Bretagna, dopo la decisione di indire un referendum sulla propria permanenza nell’Ue, sta ogni giorno perdendo potere a Bruxelles. Tutti i Paesi che prima si tenevano in equilibrio fra la Germania, la Francia e la Gran Bretagna (dalla Polonia ai Paesi Baltici, passando per la Svezia e il Portogallo) si riparano ora sotto l’ombrello tedesco. Nella stessa direzione si è orientata la politica spagnola degli ultimi mesi.
La Germania esercita quindi un potere quasi solitario: ha nei nuovi presidenti della Commissione e del Consiglio due personalità che ruotano attorno alla sua orbita e, soprattutto, ha una presenza fortissima tra i direttori, i capi di gabinetto e i loro vice. La burocrazia si sta adattando ai nuovi rapporti di forza. E anche gli americani. Quando nascono problemi tra Europa e Stati Uniti il presidente Obama telefona alla signora Merkel e non al primo ministro britannico. In poche parole la Germania, in conseguenza non certo di prevaricazioni ma per le virtù del suo sistema economico e politico, è diventata l’arbitro della politica europea. E poiché, come è ben noto, il calcio di rigore c’è quando l’arbitro fischia, è ormai la Germania che distribuisce le pagelle ai vari Paesi. Anche per questo motivo la Spagna, che pure è in condizioni più difficili dell’Italia anche se ha messo in atto qualche modesta riforma, porta a casa una pagella costantemente migliore della nostra.
Si tratta quindi di una leadership chiara e ormai riconosciuta. Sappiamo tuttavia che, nelle moderne democrazie, non esiste leadership senza responsabilità. Lo hanno dimostrato chiaramente gli Stati Uniti che, dopo avere vinto la seconda guerra mondiale, si sono dati da fare per una rinascita europea, organizzando il piano Marshall.
La difficoltà che abbiamo ora in Europa sta nel fatto che l’opinione pubblica e il mondo politico germanico rifiutano di accettare il concetto stesso di leadership, perché esso richiama problemi del passato e allude inconsapevolmente a uno sforzo nel settore della difesa che la la Germania ha sempre rifiutato di svolgere in tutto questo secondo dopoguerra.
Ho più volte pensato che il peggioramento della situazione economica interna potrebbe spingere la Germania ad esercitare il ruolo che la sua leadership comporta, adottando una politica di ripresa nell’interesse di tutti i Paesi dell’Unione, compresa la Germania. Ancora lo spero ma, finora, le cose non stanno andando in questo modo e, anche negli ultimi dibattiti di fronte al parlamento tedesco, le posizioni in materia da parte dei bavaresi, dei democristiani e dei socialisti non si discostano da quelle del passato. È molto probabile quindi che la Germania continuerà nella sua politica di austerità, dedicando una cifra del tutto modesta agli investimenti pubblici, dei quali il paese ha invece estremamente bisogno. Investimenti che sono necessari per aumentare lo stesso sviluppo della Germania.
In coerenza con questa politica interna, l’austerità viene ritenuta dai tedeschi una medicina adatta a guarire le malattie di tutta l’Europa. Uno scostamento da questa tradizionale strategia viene ritenuta un’inedita concessione ai pigri paesi periferici, tra i quali è ovviamente da annoverare l’Italia. È chiaro che le riforme di cui tanto si parla nel nostro paese debbono essere messe rapidamente in atto e le dobbiamo decidere senza chiedere sconti o favori. Ognuno deve fare i suoi compiti a casa e noi italiani ne abbiamo ancora tanti sul tavolo. Abbiamo tuttavia il diritto di chiedere che vengano messe in atto le condizioni per cui l’attuazione delle riforme sia socialmente e politicamente possibile. La leadership tedesca, anche se negata, esiste e si sente: essa deve essere doverosamente accompagnata da un parallelo esercizio di responsabilità.