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 2014  novembre 22 Sabato calendario

LA DINASTIA DONNA MARELLA IL PROFILO MIGLIORE DEGLI AGNELLI

La componente più affascinante di Gianni Agnelli è stata Marella, sua moglie. The Last Swan, l’ultimo cigno, recita il titolo in inglese delle sue memorie, e le foto di Richard Avedon scattate negli anni Cinquanta lo spiegano benissimo, il lungo collo eburneo che sorregge un volto dolcemente enigmatico. Racconta Truman Capote che qualcuno sosteneva esserci voluti «duemila anni di civiltà per dar vita a quel profilo», ma se la famiglia paterna di Marella faceva parte della migliore nobiltà partenopea, i Caracciolo di Melito, quella materna non era né latina né mediterranea, bensì americana, di Peoria, Illinois, i Clarke delle omonime distillerie di whisky. Il matrimonio mise insieme l’aristocrazia della prima e i tycoons della seconda, un classico novecentesco nella storia dei rapporti fra Vecchio continente e Nuovo mondo, dove l’uno abbondava di ormai anemico sangue blu e l’altro della ricchezza necessaria per ripulirlo e insieme ripulirsi.
Speculare rispetto agli Agnelli, in cui l’elemento nobiliare era materno, Virginia Beaumont del Monte, la madre di Gianni, «l’Avvocato» per antonomasia («mi chiami pure così, è un nome d’arte» recita una delle sue migliori battute), la dinastia Caracciolo-Clarke rimanda a un tipo d’Italia sintetizzabile nella risposta che Lavinia Borromeo, moglie di John Elkann, nipote e in pratica l’erede dell’Avvocato, diede anni fa in un’intervista: «“Ha amici poveri?”. “Intende persone che devono lavorare per mantenersi?”». Quando a vent’anni Marella decide di trasferirsi per un po’ a New York, i genitori acconsentono purché, racconta, «si trovi un lavoro per pagarsi il soggiorno». E lei farà la modella e poi l’assistente di Erwin Blumenfeld, il più famoso fotografo americano dell’epoca...
L’edizione italiana di The Last Swan si chiama Ho coltivato il mio giardino (Adelphi, pagg. 303, euro 55), un bellissimo libro illustrato in cui sono raccontate e fotografate dieci delle case che appartennero a Gianni e Marella Agnelli, ed è un’ulteriore conferma di quanto detto all’inizio, perché c’è sempre stata in Marella Agnelli un’eleganza distaccata e lontana, una segretezza che in qualche modo riscattava e insieme illuminava la personalità del marito. Raccontano i biografi di quest’ultimo che egli nutrisse un vero e proprio odio nei confronti di Curzio Malaparte. È comprensibile: in fondo era stato l’amante di sua madre e il legame all’epoca aveva suscitato scandalo e un fiume di pettegolezzi. Ciò che però non è mai stato sottolineato è che Gianni aveva quegli stessi elementi di vanità, narcisismo, insofferenza e impazienza che erano di Curzio e che proprio nel renderglielo simile andavano in qualche modo esorcizzati. Non c’è niente di peggio che vedere se stesso recitato da un altro: ciò che pensavi naturale ti appare di colpo artificiale, ciò che giudicavi piacevole ti infastidisce. Come in un gioco di maschere scopri che la tua non è così bella come pensavi, e l’unico modo per uscire dall’impasse è fingere che sia di un altro, che sia altro.
Il carisma di Marella sta invece in una diversità mai esibita, seducente nel suo essere distante, tanto quanto era invece sfuggente la figura carismatica di Gianni («gli occhi di marmo, il lungo e mansueto sorriso di rettile» secondo la definizione di Cesare Garboli, uno degli amanti della sorella Susanna). Una delle sue chiavi sta nella citazione che lei stessa fa di una frase di Russell Page, il grande giardiniere suo complice nel creare il décor naturale di molte delle sue abitazioni: «Il faut apprendre à être le serviteur de quelque chose de plus haut. Sans cela on devient les esclaves de tout ce qu’il ya a de plus bas» («Occorre saper essere il servitore di qualche cosa di più alto. Altrimenti si diventa schiavi di tutto ciò che c’è di più basso»). Page aveva sposato una delle figlie di Gurdjieff, tra le più affascinanti figure di guru del Novecento, e l’idea di Marella che «i giardini respirano e sono vivi, proprio come noi» racconta una sensibilità che non è estetica, ma etica: «Non si finisce mai di tentare di mettere a punto un giardino, così come non si finisce mai di tentare di mettere a punto la propria vita. Piano piano, passo dopo passo, cercando sempre di trovare nuovi rimedi per far fiorire gli uni e l’altra. Nel buono e nel cattivo tempo».
Fra le case raccolte nel libro quella che più racconta la personalità di Gianni Agnelli è l’appartamento milanese di Brera negli anni Settanta, sperimentale e moderno, una sorta di giocattolo, Lichtenstein, Lalanne e il tavolo degli ingegneri meccanici della Fiat nel soggiorno, per intenderci. È un po’ lo specchio di una personalità che rispetto alle trasformazioni del suo tempo sapeva agire solo di rimessa, pensando che fosse il mondo a cristallizzarsi sulla propria immagine. La mondanità di facciata di una vita di finzione: patriarca di una famiglia di cui avrebbe fatto volentieri a meno, presidente d’azienda a 45 anni senza che in quell’azienda avesse mai messo veramente piede, borghese, ma con velleità e ambizioni aristocratiche (la «dinastia» Agnelli, l’unica casa regnante di un’Italia repubblicana), mondanissimo charmeur perennemente annoiato...
A quella casa, Marella dedica appena una mezza paginetta di ricordo e del resto basta il confronto con le altre, a Torino, a Roma, a Sankt Moritz, a New York, in Corsica o in Marocco, per sancirne la subalternità. Tutte sono case lussuose, ma non case da ricchi, con fiori timidi, piante semplici, scansioni intime anche nella grandiosità degli spazi e dove ogni cosa è gusto e misura, nulla è esibito né interamente svelato. Il prodigio è negli accostamenti pittorici, il Bacon di Studies for a Pope e la Baigneuse blonde di Renoir, l’Arlecchino di Picasso e la Maya di Zuloaga, l’Autoritratto di Schiele, l’Oreste e le Erinni di Moreau e l’irridente Le Chat de la Méditerranée di Balthus... E poi le porcellane cinesi d’epoca Qianlong e quelle settecentesche di Meissen, i bronzi di Marini, Manzù e Giacometti, le cromolitografie di Bossoli, i mobili dove il cuoio e la seta si mischiano al rotan, al midollino, ai paralumi in paglia, i tessuti, le stuoie artigianali e originali usate come tappezzeria. «La ricchezza può essere un fattore di isolamento, mentre disegnare tessuti, mestiere antico e legato all’architettura e all’arte, mi faceva sentire parte del mondo reale».
Ho coltivato il mio giardino è anche il racconto di un mondo per molti versi incantato, dove però «crescere è complicato» e ogni imbarazzo viene vissuto male, perché se il fattore «aristocratico» in qualche modo lo alimenta, quello borghese lo respinge, lo soffoca, lo nega: «Sofferenze inaspettate», «interminabili e dolorose vicissitudini familiari» scrive Marella Agnelli alludendo ai suoi lutti e alla parabola finale, fatta di rancori, rivalità, rotture, ricorsi in tribunale, della «dinastia» Fiat.
In fondo, tutto era cominciato come nelle favole. Sposata da poco, nell’andare in wagon-lit da Torino a Parigi per un fine settimana, trova che «la carrozza che avevo prenotato aveva un aspetto familiare. Riconobbi all’istante le lenzuola ricamate con le iniziali mie e di Gianni, le coperte e persino gli asciugamani erano quelli di casa, in bagno c’erano i miei prodotti. Notai addirittura dei fiori freschi in vaso. Era stato Pasquale, lo storico maggiordomo di casa Agnelli, a pensare a tutto. In seguito mi spiegarono che questi preparativi erano normali».
Da Marrakech, dove ormai passa la maggior parte del suo tempo, la bellissima casa di Aïn Kassimou, l’occhio della fonte, in origine la dimora del conte Tolstoj, a quasi novant’anni Marella Agnelli conserva l’enigmatico sorriso di quelle foto giovanili di Avedon. Ha visto tutto, compresa la fine della Fiat. All’Avvocato, se non altro è stata risparmiata, anche se era sufficientemente intelligente per rendersi conto che un’epoca si era comunque chiusa e per molti versi era sua la colpa.