Roberto Napoletano, Domenicale – Il Sole 24 Ore 23/11/2014, 23 novembre 2014
LE PAGELLE D’ORO DEI RAGAZZI DI FERMO E LO SPIRITO MARCHIGIANO
Al teatro dell’Aquila di Fermo, gremito in platea e nei palchi, arrivo venerdì mattina dopo un po’ di curve, distese di verde e lattuga, tanti palazzetti di laterizi e pietra d’Istria, una piazza e angoli del Settecento pieni di storia e di luce. Vedo stampata negli occhi di ragazze e ragazzi la gioia per quella pagella d’oro che viene assegnata al primo di ogni istituto e scopro una comunità di professori, studenti, genitori, presidi che vive lo studio come una sana, gioiosa, competizione sportiva. Mi chiedono di raccontare l’Italia che ho visto in questi anni terribili della grande crisi e di mio girovagare tra macerie e speranza, soprattutto mi chiedono di indicare una strada, il futuro possibile, di parlare ai giovani e allo spirito imprenditoriale di questa terra. Dico la mia e rispondo alle domande. Faccio tante foto con i ragazzi, il loro diploma di "benemerenza" stretto orgogliosamente tra le mani, intorno la mamma, il papà, qualche volta la nonna. Giamaica Brilli mi accompagna nel foyer e poi all’uscita, in un angolo del teatro si ferma e vuole che guardi nella carrozzina: dentro c’è Giulia, piccolissima, nove giorni di vita, sua figlia. Resto impietrito, lei se ne accorge e si abbandona a un largo sorriso, poi si spiega: «Nessuno mi ha chiesto di esserci e la gioia immensa di una figlia così piccola e dolce non ha prezzo, questo però è l’evento a cui tengo di più, perché quella pagella d’oro l’ho presa anch’io qualche anno fa e so che cosa si prova, ho visto che c’era un bel sole e ho deciso di venire qui con Giulia e mettere insieme per qualche ora le due passioni». Per capire di che pasta sono fatti i marchigiani di Fermo e della valle del Tenna, bisogna partire da qui e occorre farsi guidare da Amedeo Grilli, capelli e baffi brizzolati e una smorfia del viso che assomiglia a quella di Peppino De Filippo, presidente della cassa di risparmio di Fermo animatrice dell’appuntamento, soprattutto uomo di altri tempi che conosce la sua terra e i suoi capitani d’impresa come pochi.
Esco dal teatro e mi dice: «Siamo in mano alla Russia, meno male che i nostri calzaturieri sono rimasti piccoli e hanno custodito quel capitale di manualità, saper fare e flessibilità di cui ci ha parlato lei, ma le sanzioni alla Russia, la svalutazione del rublo, la grana dei bonifici e i controlli della Black List che ritardano i pagamenti, hanno fatto perdere a queste imprese il 40% del fatturato. Non hanno perso noi, però, perché noi sappiamo quanto vale questo pezzo unico di manifattura, sappiamo che hanno come mercato il mondo e sono veloci nello spostarsi da un Paese all’altro, siamo certi che non si fermeranno mai». Poi si prende una pausa e butta lì: «Quello che ha detto lei sul capitale dimenticato del nostro made in Italy e della cultura, fino a dieci anni fa non si poteva nemmeno pensare: si ricorda tutti i teorici della rivoluzione industriale del nulla che ci dicevano che la manifattura era finita, che con questa manualità non si va da nessuna parte? Meno male che questi signori, dalle nostre parti, non hanno avuto seguito». Mi guarda, insiste: «Chi glielo spiega che in questa terra può succedere che fra i calzolai più bravi del mondo, da tanti piccoli laboratori pieni di sarti della scarpa al principe Nero Giardini fino alla regina Tod’s di Casette d’Ete, arriva uno che si mette a fare pasta di grano duro tutto a chilometro zero e riesce a metterla negli scaffali di mezzo mondo o un altro che si inventa il circuito verde e tira fuori dalla piana della valle del Tenna, sul bordo di un torrente a corto d’acqua, le insalate lavate che spopolano ovunque?». Sosta obbligata davanti all’Istituto Tecnico Industriale Montani, Grilli fa un cenno con la mano, ma è come se chiedesse un minuto di rispettoso silenzio davanti alla scuola dove si sono formati i Mattei e i Merloni e dove sono stati scelti uomini di valore per le squadre dell’Eni e della multinazionale del bianco di famiglia, oggi finita in mani americane.
Non molla il banchiere di questa terra, mi trascina da Silvano Sassetti («la mia pelle è una scarpa») e entro con lui in un calzaturificio che custodisce il segreto più profondo del taglio della tomaia, l’orlatura e la scarnitura, l’ideazione e il disegno con padre e figlio che hanno in mente la stessa cifra di scarpa ma portano dentro, per fortuna, gusti e età differenti e arrivano insieme, due volte l’anno, nelle vetrine newyorkesi di Bergdorf Goodman: qui il genio marchigiano spopola con il classico lucidato o la scarpa lavata a mano, un unicum che vince da solo in casa e fuori, ma appartiene anche alle griffe di mezzo mondo italiane e francesi, inseguito dai tedeschi e dai cinesi. Ogni piano c’è un Sassetti: padre, due figli e moglie coprono tutte le fasi della lavorazione ma, soprattutto, lo fanno insieme con gli altri, alla pari, in un clima familiare fatto di intese antiche e di una lavorazione industriale che ha al centro l’uomo, le sue capacità tecniche, il gusto sartoriale dell’artigiano della scarpa che sopravvive a tutto e a tutti. In un reparto sono presenti in pochi, Silvano quasi si scusa: «Sono tutti a un funerale, abbiamo avuto qui in azienda un lutto grave. Tornano tutti domani, di sabato, per recuperare le tre ore perse, qui il lavoro smette quando si finisce, e non c’è bisogno di chiederlo». Siamo sempre lì, lo spirito marchigiano. Vedo una locandina (Il cuore grande delle ragazze di Pupi Avati) e la mia guida mi fa: Silvano fa parte del cast, è il calzolaio dello sposo. È l’ora dei saluti, nel cortile della fabbrica batte un sole rosso: mi ricorda quello bellissimo del tramonto di Amelia, in Umbria, che ben conosco, davanti la collina marchigiana e anche quella mi sembra di conoscerla, sento odori familiari e resto perplesso. Mi soccorre Grilli: «Siamo cugini, noi di Fermo e gli amerini, abbiamo in comune i Monti Sibillini e il tartufo, condividiamo umori e colori». Ha ragione, anche questa volta: dietro la tavolozza di colori ci sono la solitudine degli umbri e il gusto marchigiano della vita, piccole e grandi cose che stanno insieme e fanno un tutt’uno. L’ombelico sano e profondo del Paese.
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Roberto Napoletano, Domenicale – Il Sole 24 Ore 23/11/2014