Giancarlo Perna, Libero 22/11/2014, 22 novembre 2014
«D’ALEMA HA UCCISO LA SATIRA POLITICA IL ’68 LA NOSTRA ROVINA»
L’arte di assaporare la vita è nelle corde di Giorgio Forattini. È quel che ti viene di pensare girando lo sguardo nell’appartamento dell’ottantatreenne satirista, al piano alto di una casa di ringhiera della Milano asburgica. Nelle stanze, in cui ha dato sfogo alla sua smania per quadri e busti, tutto parla di lui. Ci si muove con circospezione per non urtare preziosità. «Sei un maniaco dell’arredo alla D’Annunzio -dico-, col pallino per il ritratto ottocentesco, anziché del Liberty». «Ho millecinquecento dipinti divisi tra questa e le altre due case di Roma e Parigi», conferma e mi conduce, tra stanze e corridoi museali, nella luminosa mansarda dove lavora. Sullo scrittoio ci sono, a mazzi o allineate, centinaia di matite e pastelli di ogni colore. «Sembra il bottino di un furto in cartoleria», osservo. «I ferri del mestiere -replica. Ogni santo giorno, disegno per me stesso una vignetta. Poi, la metto su internet». «Gratis et amore Dei?», chiedo. «Sì. Mi basta che altri la vedano. Amo il mio lavoro», risponde e mi precede verso il salotto, raccontando che ha iniziato a collaborare (due disegni la settimana) con Affari Italiani, storico quotidiano in Rete. Aggiunge: «Mi manca però il giornale di carta. Dovunque abbia lavorato, Repubblica, Stampa, Giornale, esigevo la mia vignetta in prima pagina perché si potesse vederla anche senza comprare la copia. Tornerei volentieri a fare satira su un quotidiano. Dillo al tuo direttore. Costo poco. Mi interessa dire la mia, più dei soldi». Forattini, identico a dieci anni fa, con la sciarpa al collo e i capelli bianchi lunghi da trovatore, si affloscia sul divano e mi mostra in anteprima la copia della sua strenna annuale per Mondadori, quella con le vignette 2013. L’uscita ufficiale è fissata il 25 novembre. «Quanto tira un tuo libro?», mi informo. «Sulle diecimila copie -risponde-. In passato, ne ho vendute fino a 130 mila per edizione. In tutto, tre milioni e trecentomila volumi. Il ricavato è qua» e indica i quadri sulle pareti. «È casuale che il 25, giorno dell’uscita, sia l’anniversario della morte di Fabio?», chiedo col pensiero all’incubo di tre anni fa quando Fabio Forattini, figlio di prime nozze di Giorgio, fu trovato senza vita, ad appena 52 anni, nella villa di famiglia sui Castelli romani. Forattini si impietrisce e passano secondi prima che parli. «Quella morte mi ha cambiato la vita -sussurra-. Sono sempre triste mentre il mio mestiere è far ridere. Se ancora ci riesco, è perché conosco il meccanismo. Con Fabio c’era qualche incomprensione, frutto del mio primo matrimonio finito male. A 22 anni ho sposato un’attrice di prosa molto bella, di sette anni più grande, che ha poi avuto gravi turbe mentali. Quando ci separammo, i giudici mi hanno portato via i figli per darli a lei che me li ha messi contro. Ora è morta ma la zizzania era seminata. Fabio non ha digerito il mio successivo matrimonio con Ilaria, che era ed è la mia gioia. Schiavi del pregiudizio che i figli vanno alle madri, i giudici se ne sono infischiati dello stato di mia moglie. Infingardi! Mi hanno scavalcato, mandando tutto a catafascio. Ora vivo con la pena di non essermi chiarito con quel figlio che mi ha preceduto». Per distrarlo, dico la prima che mi viene in mente: «Come fai tu romano a vivere nell’uggiosa Milano da trent’anni?» «Mi piace moltissimo, mentre a Roma, dopo Fabio, soffro troppo. Milano ha due atout: è la città dove ho conosciuto Ilaria, fiorentina ma milanesizzata, ed è piatta, ideale per chi, come me, cammina molto». Sempre con intenti lenitivi, gli chiedo quando si è scoperto il bernoccolo del vignettista. «A scuola. Andavo dai preti, al San Giuseppe di Roma. Facevo sulla lavagna la caricatura del professore, giusto prima che arrivasse. Quello, appena entrato, diceva immancabilmente: “Forattini, cancella e esci di classe. Zero in condotta”». Hai cominciato a fare satira su giornali di sinistra, «Paese Sera», «Repubblica», «Espresso». Affinità elettive? «Per nulla. Sempre stato liberale. Ma i giornali erano più liberi di quanto non siano oggi. Quando un direttore come Eugenio Scalfari mi diceva: “Questa vignetta non la posso pubblicare”, io rispondevo: “Non te ne faccio un’altra. Se vuoi, mettici la tua foto”. E la cosa finiva lì». Dopo invece? «Con la radicalizzazione degli schieramenti, i giornali che un tempo ti difendevano, anche se dicevi cose scomode, hanno smesso di farlo. Pure l’Ordine dei giornalisti non ti difende più. Quando D’Alema mi querelò per tre miliardi di lire per la vignetta in cui sbianchettava la lista Mitrokhin, Ezio Mauro, direttore di Repubblica, non mosse un dito per difendermi». E poi? «Rischiavo che la magistratura di sinistra mi condannasse al pagamento della somma, senza copertura del giornale. Inoltre, per avere ironizzato sull’allora premier e capo dei comunisti, cominciarono a darmi del fascista e berlusconiano». Lasciasti Repubblica, prima per la Stampa poi per il Giornale. «Cambiai sponda perché a sinistra mi censuravano. Agnelli mi fece un’offerta favolosa per la Stampa. Lo stesso accadde con Berlusconi anni dopo per il Giornale». Hai accumulato più dracme di Creso. «Ho fatto una bella vita. Campo ancora di quei guadagni. I soldi non li ho mai chiesti, me li hanno offerti». Finché la musica è cambiata. «Agnelli morì e Berlusconi si è dileguato. I giornali, anche a destra, si sono irreggimentati. E le mie vignette sulle alcove del Cav non sono piaciute». Cosa sei politicamente? «Mai votato a sinistra. La sinistra si considera democratica. Io non l’ho mai considerata tale. La lotta che mi ha fatto, l’ho vissuta sulla mia pelle». Chi ha detto che l’Italia ha tre guai: il comunismo, i sindacati, il culto del ’68? «L’ho detto io e lo confermo. Con il ’68 e i suoi postumi è cominciato il declino del Paese. I ragazzotti degli anni ’70 mi insultarono e picchiarono. Uno si passò la mano sulla gola per dirmi che me l’avrebbe tagliata». Giornale e giornalista preferiti? «Considero Piero Ostellino il migliore giornalista italiano. Leggo il Corriere della Sera e il Giornale. Oggi, in tuo onore ho preso Libero (lo sventola)». Disegnavi Craxi in abiti fascisti, D’Alema con i baffetti di Hitler. Renzi? «È Pinocchio, il bugiardo. Il Geppetto che gli ha dato vita, è Napolitano. Su Renzi non ho mai fatto vignette feroci, né gli ho dato del ladro. È uno che non conta niente e come tale lo faccio». Hai ricevuto una ventina di querele, Craxi, Occhetto, D’Alema. La più odiosa? «Quella di D’Alema. Ha terrorizzato giornali e editori. Mi ha attirato l’odio insensato della sinistra. Ha messo all’angolo la satira politica che io, dopo la parentesi fascista, avevo rimesso in auge preceduto da Giovannino Guareschi». Di quale vignetta vai più orgoglioso? «Quella su D’Alema, che mi ha dato più guai». Di quale ti vergogni? «Quella in cui ho rappresentato Bettino Craxi appeso a testa in giù, come a Piazzale Loreto. Poi lo hanno perseguitato con ferocia e mi ripugna stare dalla parte di chi l’ha fatto. Il Cav è agli sgoccioli? «Assolutamente no, salvo eventualmente per l’età. Particolare però secondario se penso a come è sopravvissuto con tutte le carognate che gli hanno fatte». Il politico preferito in questo mezzo secolo di cui sei stato testimone? «Indubbiamente Berlusconi e proprio per la sua opposizione al dilagante sinistrismo. Anche se lo considero populista, drittone e paraculo. Ma, per come ha resistito alla persecuzione, svetta su tutti». Cosa pensi dell’islamismo dilagante? «Il peggio possibile. Se potessi, innalzerei una barriera invalicabile tra Europa e Oriente. Da loro solo parole di morte, di invidia e di eliminazione fisica dell’avversario». Se dovessi rappresentare l’Ue: bella come Venere, solenne come Giunone o brutta come un’Erinni? «Una Giunone con la faccia della Merkel. No, aspetta… La Merkel in verità ci tratta come pezze da piedi. Allora meglio un’Erinni con la faccia della Merkel». Cosa si aspetta dal futuro il nostro spiritoso vignettista? «Il vignettista è di umore nero. Molto triste per la sua tragedia personale ma anche per le cose del mondo».