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 2014  novembre 24 Lunedì calendario

FAMIGLIE

& VERTICI IMPENNATA DEGLI OVER 70 CDA TROPPO NAZIONALI –
Tante volte lo si è detto, ma mai come oggi è diventato cruciale: crescere. I mercati sono troppo estesi, troppo complessi, troppo in continuo cambiamento per poterli affrontare «da piccoli».
«Occorre una strategia diversa e un aiuto potrà venire sicuramente dalla separazione tra proprietà e management. Le imprese possono utilizzare i consigli di amministrazione come strumento di cambiamento», dice Guido Corbetta, docente di strategia aziendale all’Università Bocconi e autore, insieme a Alessandro Minichilli e Fabio Quarato, della sesta edizione dell’Osservatorio Aub sulle aziende familiari con ricavi superiori ai 50 milioni di euro. Ed è proprio guardando la dinamica delle imprese italiane — le familiari ma anche le non familiari — nel confronto con quelle europee che emerge il senso di urgenza perché ci sia finalmente quel salto dimensionale da tempo indicato. «Andare all’estero è diventato inevitabile, ma per farlo occorrono le dimensioni. Il modello della piccola azienda global è bellissimo ma finito», aggiunge Marcello Gabbiani, responsabile family business di Unicredit.
E la strada per crescere non può prescindere dalle acquisizioni: tra il 2006 e il 2013 le imprese che si sono sviluppate di più sono quelle che hanno realizzato più di un’acquisizione. Il distacco con chi ne ha fatta solo una o nessuna è netto e vale per qualunque tipo di proprietà si abbia. Ma così è quasi un corto circuito, perché per fare acquisizioni bisogna essere strutturati, almeno nella governance. Occorre la disponibilità anche ad aprirsi per esempio alla Borsa.
Confronti
E allora ecco i confronti europei. I Paesi analizzati sono stati sei — Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Svezia — e per tutti sono state prese le prime 300 maggiori aziende, sia familiari e che non familiari. Sono state escluse banche e assicurazioni. Un primo dato ci dice che più dell’80% delle 300 maggiori imprese italiane si colloca tra 1 e 5 miliardi di euro di fatturato, mentre nel Regno Unito e in Germania circa un terzo è tra 5 e 10 miliardi e un altro terzo oltre i 10 miliardi di euro. E stiamo parlando solo delle grandi società.
Un secondo confronto riguarda la proprietà: le aziende familiari sono presenti e hanno un peso in tutta Europa (e in tutto il mondo) ma tra i 300 maggiori gruppi italiani quasi la metà hanno una proprietà familiare (il 40,7%) rispetto al 15,1% della Gran Bretagna. Paese, quest’ultimo, dove prevalgono le public company (25,8%) e dove è importante la quota di società controllate da fondi di investimento e di private equity (14,4%).
Ricavi
Guardando i tassi di crescita dei ricavi e l’andamento del Pil dei Paesi si vede che non c’è relazione. «In particolare — dice lo studio — Regno Unito e Italia sono tra i Paesi con la crescita dei ricavi aziendali più elevati nel periodo 2007-2012 (gli anni della grande crisi, ndr) nonostante un andamento del Pil negativo». Per l’Italia: + 7% i ricavi delle aziende, -1,4% il Pil. «La prova provata — secondo Gabbiani — che le imprese per crescere devono andare all’estero, internazionalizzarsi. I nostri studi dicono che le aziende eccellenti sono quelle che si sono strutturate e hanno affrontato il tema della governance prima del 2009 e hanno così potuto sfruttare questo momento di crisi per avere performance migliori delle altre».
E qui si arriva alle imprese familiari. Le quali confermano la prima resistenza nel tempo, la capacità di avere una visione di lungo periodo, di avere quel «capitale paziente» di cui parlava Elena Zambon, presidente di Aidaf, l’associazione delle aziende di famiglia che è tra i promotori dello studio Aub insieme alla Bocconi, a Unicredit e alla Camera di commercio di Milano, nell’intervista a Corriere Economia della scorsa settimana.
Ma che adesso devono fare un passo in più. Separare proprietà e management, come diceva Zambon e ripete Corbetta. Cosa che oggi non è: considerando solo le aziende familiari, l’Italia è il Paese con la maggior incidenza di leader familiari (più della metà delle aziende familiari contro il 9,2% della Svezia, che è il Paese con l’incidenza più bassa) e Cda con una forte presenza di familiari (1 consigliere su 3, come anche in Spagna, rispetto al 15% medio di Francia, Germania e Regno Unito). Anzi, la crisi ha spinto il ritorno in campo dei fondatori — ultimo il caso Del Vecchio-Luxottica — tanto che ormai quasi il 20% degli imprenditori ha più di 70 anni (ma più si è in là con gli anni, meno sono positivi i risultati).
Scorrendo le slide, un dato colpisce: circa il 35% delle aziende italiane ha meno di 10 anni (il 12% nel caso di aziende familiari), ma le aziende più giovani si trovano al Sud e nelle Isole. Una inversione di tendenza?