Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 24 Lunedì calendario

DOPO IL LUSSO SI VA A TAVOLA FONDI E GRANDI INVESTITORI TUTTI A CACCIA DELL’ITALIAN FOOD

Buon appetito, il pranzo è servito. In menu ci sono i migliori marchi del cibo e della tradizione agroalimentare italiana. I commensali invece, un po’ a sorpresa, sono i big della finanza. Che dopo aver fatto incetta di marchi della moda, alberghi e palazzi tricolori, hanno messo nel mirino il Made in Italy della tavola: rilevando etichette di vino a peso d’oro, contendendosi con rilanci milionari bar storici e corteggiando carne, salumi, formaggi come fossero griffe firmate. L’ingresso del Fondo strategico della Cdp e del Qatar nella Inalca (Cremonini) è solo l’ultimo tassello di un mosaico sempre più ricco. «I l cibo tricolore è uno dei pochi tratti riconoscibili del nostro paese nel mondo» come dice il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina. Noi fatichiamo a farlo fruttare. E a caccia di questo Eldorado inesplorato si sono messi ora i capitalisti e i fondi globali. La loro scommessa è chiara: il valore dei marchi tradizionali del lusso, dopo essere schizzato alla stelle, ha iniziato a segnare il passo in Borsa. Meglio quindi andare a cercare nuove nicchie dove ripartire da zero. E i brand della filiera agroalimentare, a giudicare dalle loro ultime mosse, sono il campo di battaglia prossimo venturo dove realizzare questo sogno. Nessuno, a dire il vero, aveva mai messo in discussione il valore finanziario del marchio Italia in questo campo. Carta canta: Barilla e Ferrero, capaci di guardare lontano ed internazionalizzarsi, sono riusciti a conquistare il mondo senza bisogno di andare in Borsa e senza legarsi a filo doppio alle banche. E l’Expo 2015 di Milano, non a caso, ha scelto come tema proprio l’alimentazione. Il problema è che dietro ai due giganti (salvo rare eccezioni che si contano sulle dita delle mani) c’è un mondo di nani. Capaci - per tradizione e per i legami con il territorio - di creare prodotti di qualità planetaria. Ma impossibilitati, per scelta o per mancanza di risorse, a volare alto mettendo il naso fuori dal nostro paese. I numeri sono pietre: l’export alimentare dell’Italia, pur raddoppiato negli ultimi dieci anni, è la metà di quello della Germania cui nel campo, obiettivamente, abbiamo poco da invidiare. E solo il 12% delle imprese del settore esporta i suoi prodotti. A mischiare le carte in tavola, però, accendendo un faro sulle potenzialità del settore e scatenando l’appetito della grande finanza, è arrivato Oscar Farinetti. Il papà di Eataly è partito da zero (o per meglio dire dal tesoretto di famiglia messo assieme con la vendita di Unieuro e dall’aiuto delle banche). Ha mischiato imprenditorialità e il meglio della tavola tricolore. E la ricetta pare aver fatto centro. Il negozio newyorchese al Flat Iron, ha raccontato il New York Times, è la terza attrazione più visitata della Grande mela dopo Empire State Building e Metropolitan. I ricavi di Eataly arriveranno quest’anno a 400 milioni. Numeri importanti che hanno convinto la Tip di Giovanni Tamburi a staccare un assegno di 120 milioni per rilevare il 20% della società, in vista della quotazione a Piazza Affari - mercati permettendo - tra il 2015 e il 2016 per finanziare nuovo sviluppo. «Le cose vanno benissimo e Eataly sta aiutando anche molte piccole imprese di casa nostra a farsi conoscere nel mondo - conferma Tamburi - ho appena incontrato investitori tedeschi che vorrebbero entrare nel capitale. Una volta l’alimentare dava ritorni bassissimi. Ma l’Italia è diversa, la vogliono tutti e con i mercati ai massimi è ovvio che la finanza venga a cercare valore anche qui». Una rondine, certo, non fa primavera. L’esperienza di Eataly e quella della Cremonini hanno però fatto scuola. Se i piatti e i marchi della tradizione gastronomica italiana tirano come le firme della moda - hanno pensato i giganti della finanza e del lusso meglio comprarseli ora prima che diventino (com’è capitato nel fashion) troppo costosi. Detto fatto: Louis Vuitton Moet Hennesy e Prada si sono sfidati a suon di assegni per mettere le mani su due nomi notissimi, rispettivamente Cova e Marchesi, della pasticceria milanese. Obiettivo: clonarli in giro per il mondo abbinati ai negozi di casa o nelle catene di grande distribuzione, sfruttando marchi che da soli sono sinonimo di qualità. Lo stesso ha fatto Renzo Rosso, che da tempo aveva avviato un propria attività nel vino, entrando nel capitale di BioNatura, la maggior catena italiana di biodinamico assieme a Giorgio Rossi Cairo, ex consulente di tutti i maggiori gruppi industriali italiani. Garantendo così ai fondatori i capitali per fare il salto di qualità e, magari, pensare in futuro a giocare la carta della crescita all’estero. La partita, ovviamente, non è facile. C’è da consolidare e far crescere i marchi senza vendere la loro anima sull’altare dei profitti. Ci sono da consolidare filiere e mercati senza che vadano perse le peculiarità che hanno fatti grandi piccoli prodotti di nicchia. La macchina però ha iniziato a muoversi. E attorno al tavolo del cibo e del vino made in Italy hanno iniziato a sedersi commensali inattesi. Alessandro Profumo, per dire, ex-Unicredit ora Mps, non ha saputo resistere alla sirena dell’agroalimentare e negli scorsi mesi si è comperato il 45% della azienda vitivinicola Mossi nel piacentino, uno dei re indiscussi dell’Ortrugo. Una novità. Sul fronte enologico l’unica eccezione (o quasi) alla frammentazione delle grandi etichette tricolori erano state fino a pochi anni fa le assicurazioni. Unipol, Generali e la tedesca Allianz, proprietarie dei maggiori portafogli di etichette tricolori. E come ovvio - visto che vendemmiare non è proprio il loro mestiere - faticano a mettere a punto progetti di crescita importanti. Il salto dalla finanza, lavorava alla Goldman Sachs, alle bollicine l’ha fatto invece Matteo Lunelli, passato dalla City alla guida delle Cantine Ferrari di Trento, controllate dalla sua famiglia. E lui ha idee di crescita chiare: «La domanda di enogastronomia in un mondo dove gli chef diventano star è sempre maggiore. L’Italia, su questo fronte, ha da vendere una grande biodiversità. È naturale quindi che la finanza mette gli occhi sui nostri marchi - racconta - noi stiamo provando a crescere all’estero raccontando le straordinarie storie che il nostro paese ha da raccontare. Il legame con il territorio, la qualità, la produzione sostenibile». Ultimo atto l’acquisizione del 50% delle Cantine Bisol e la diversificazione nel Prosecco. «Il know how nel marketing digitale e nella gestione dei grandi clienti consente di sviluppare grandi sinergie e promuovere il valore dei prodotti italiani oltrefrontiera. E’ un modo per far conoscere meglio tutto il paese» assicura Lunelli. Altri segmenti di mercato ma approccio simile ha utilizzato la Coop, provando a contrastare il prevedibile assalto di hedge fund e fondi sovrani al vino di casa nostra. Le cooperative hanno messo assieme un marchio alla volta, partendo dal Tavernello ma arrivando ai grandi Amaroni e al Brunello di Montalcino, un network (Caviro) da 317 milioni di ricavi. Briciole rispetto ai competitor stranieri, ma almeno un inizio. E non a caso le stesse cooperative che a Bologna vogliono lanciare con Farinetti Fico, una mega Disneyland del cibo tricolore per turisti stranieri da cinque milioni di visitatori l’anno - stanno provando a fare lo stesso sulle filiere del latte e del formaggio con la Granarolo. «Per anni abbiamo vissuto con la certezza che piccolo è bello conclude Marilena Colussi, una delle più autorevoli ricercatrici di tendenze alimentari e sociali italiane - ma anche per rilanciare il paese ora è il momento di esportare di più. E l’aiuto della finanza è benvenuto. Abbiamo capacità e competenze. L’unica raccomandazione è puntare alto, salvare la nostra cultura del cibo e la nostra eccellenza, posizionando i prodotti nei segmenti premium dove si guadagna di più e dove la concorrenza fatica ad arrivare». Guadagni, segmenti premium. Musica per le orecchie di fondi sovrani e grandi capitali a caccia di nuovi affari nel lusso. L’assalto al made in Italy della tavola è appena iniziato.
Ettore Livini, Affari&Finanza – la Repubblica 24/11/2014