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 2014  novembre 24 Lunedì calendario

ANDREA BONOMI LA SFIDA FRANCESE DEL PRIVATE EQUITY IN SALSA ITALIANA

Il milanese Andrea Bonomi alla conquista di un simbolo della Francia. Potrebbe accadere il primo dicembre prossimo quando si saprà l’esito finale della battaglia a colpi di Opa condotta da Investindustrial sul Club Med, il nome più famoso al mondo nel settore dei villaggi turistici. L’ostacolo si chiama Henri Giscard d’Estaing, figlio dell’ex presidente francese e ai vertici della società dal 1997, il quale sta sollecitando l’orgoglio nazionale per impedire che un italiano, a capo di un gruppo di fondi di private equity tra cui anche gli americani di Kkr, possa piantare la bandierina su un’azienda con un’anima profondamente francese. E, come già successo in altri casi in passato - basta ricordare i casi Perrier-Ifint, Suez-Enel, Eni-Total - il nazionalismo francese alla fine potrebbe anche prevalere sulla pragmaticità del miliardo di euro messo sul piatto da Bonomi e soci contro i cinesi di Fosun. Ma non vi è dubbio che nel caso di una vittoria di Bonomi questa verrà vissuta come un salto di qualità importante nella carriera del giovane finanziere italiano, nipote della carismatica Anna Bonomi Bolchini, a suggello di diverse operazioni di successo e qualche passo falso. Andrea - uno dei tre figli di Carlo, l’uomo che nel 1985 si vide sfilare la BI-Invest dall’allora presidente della Montedison Mario Schimberni - è colui che sta riportando in auge il buon nome della famiglia milanese, prosperata sulla fortuna immobiliare che il bisnonno Carlo aveva costruito fin dalla fine dell’800 partendo da manovale di una piccola impresa di costruzioni. Dunque Andrea era molto giovane quando Francesco Micheli comprava in Borsa le azioni BI-Invest all’insaputa del Cirula (il soprannome di Carlo Bonomi, allora alla guida della finanziaria) ma sapientemente informando di ogni suo passo il presidente della Consob Franco Piga. Andrea, classe 1965, studi alla New York University, in quel momento stava muovendo i primi passi nel mondo della finanza presso la filiale americana della Lazard Frers & Co, e non poteva sapere che quell’evento così traumatico per la famiglia avrebbe portato a una fase di forte ridimensionamento dell’impero economico fin lì sviluppato dalla nonna Anna (partendo dai 156 palazzi milanesi che il padre le aveva lasciato). La sciura dei danée, come è stata a volte indicata per il suo iperattivismo in campo finanziario, snobbata dalle grandi famiglie milanesi per eccesso di sguaiatezza, cavalcò la ricostruzione edilizia del secondo dopoguerra per allargare a dismisura l’impero immobiliare. Sfruttando la sua vena speculativa coltivata negli uffici di Aldo Ravelli, il più noto degli operatori di Borsa di allora, la donna sola al comando riuscì a mettere a segno i colpi più significativi proprio negli anni in cui Cefis, Sindona e Calvi erano protagonisti indiscussi. Nel suo impero entrarono così Saffa, Mira Lanza, Credito Varesino, Toro Assicurazioni e, nel 1979, la Fingest che la Montedison aveva riempito di banche e finanziarie. Dall’alto di queste vette si comprende meglio lo choc della scalata del 1985 da cui la famiglia esce impoverita di quasi tutte le società italiane ma con in cassa 500 miliardi di lire, le attività internazionali e due aziende come la Saffa e la Postal Market. «Se non siamo riusciti a difendere la BI-Invest significa che c’era qualcuno più bravo di noi - confida oggi Andrea ai suoi più stretti collaboratori - evidentemente in quell’occasione Schimberni e Micheli sono stati più svelti». Fatto sta che Carlo dopo la debacle decide di ritirarsi a Londra a coltivare le relazioni internazionali tessute intorno alla Invest International. E il figlio Andrea dopo il periodo americano nel 1990 torna in Italia e comincia ad occuparsi del rilancio della BI-Invest creando Investindustrial, un braccio della holding che si dedica specificatamente al private equity. Formatosi culturalmente nel mondo anglosassone Andrea è portato a far prevalere la razionalità sull’emotività e a lasciar da parte le questioni personali, un po’ il contrario della nonna. Ma evidentemente ha ereditato il dna dell’imprenditore ma con un’impostazione molto più votata all’industria che alla finanza. «Il private equity finanziario non è la soluzione migliore - ha sempre detto Andrea - la leva eccessiva è un freno per l’imprenditorialità e gli investimenti. Può portare grandi guadagni ma se qualcosa va male salta tutto». Una filosofia controcorrente, soprattutto fino al 2007 quando le acquisizioni a forte leva finanziaria ebbero il sopravvento su tutto il resto. Ma Investindustrial con il tempo si fa promotrice di piani industriali per le società target più lunghi dei piani finanziari di investimento. I due orizzonti sono disassati e ciò permette di ragionare con una logica industriale che fa bene alle aziende. Una logica che costringe chi investe a cercare soluzioni di aggregazione e di partnership più difficili da realizzare che la semplice distribuzione di dividendi di società indebitate. I risultati di questo modo di operare, con il tempo, arrivano. Gardaland, Permasteelisa, il polo degli elicotteri costruito intorno alla Elilario che dopo nove anni viene stato venduto con un incremento di valore di 6,5 volte. E poi il grande colpo della Ducati, raccolta in stato pre fallimentare, rilanciata e venduta nel 2012 per 800 milioni ai tedeschi della Audi. Gli investitori sono contenti e affidano a Investindustrial altri denari da riversare su aziende italiane e spagnole, dove il team ha più esperienza. E poi piace che la famiglia Bonomi investa anche il proprio patrimonio: su 1,25 miliardi raccolti all’ultimo giro più del 10% arriva dalla famiglia, così gli interessi sono allineati. Ora gli 81 dipendenti di Bonomi sparsi negli uffici di Londra, New York, Lugano, Madrid e Shanghai stanno cercando di costruire un polo della chimica attorno alla Polynt a cui si sono recentemente aggiunte le attività chimiche della Total. Oppure di far crescere all’estero la Flos, azienda di illuminotecnica dove Piero Gandini è rimasto a gestire ma sapendo di avere alle spalle un gruppo che è in grado di finanziare lo sviluppo. O di riportare Aston Martin ai fasti di 007 forti dell’esperienza maturata in Ducati. Oggi il gruppo Investindustrial ha in gestione assets per 5 miliardi di euro, 3,4 dei quali investiti in cinque fondi di private equity e 1,4 miliardi in hedge fund. Nel settore del turismo i fondi hanno già investito 1,5 miliardi (tra cui Port Aventura, il più grande parco divertimenti in Spagna gestito dai cinque italiani che avevano fatto il successo di Gardaland) e Club Med rappresenterebbe la ciliegina sulla torta che porterebbe la massa critica a 2,5 miliardi. Gli unici passi falsi di Andrea Bonomi sono arrivati quando ha ceduto al richiamo della finanza italiana. Forse, quando si è buttato nella mischia della Bpm, pensava di rimarginare la ferita subita con la BI-Invest e di poter avviare una fase di cambiamento del capitalismo italiano con metodi soft. Mentre la nonna si è sempre scontrata con Enrico Cuccia, che la voleva subalterna, lei che aveva sempre vissuto da protagonista, Andrea si è fatto avviluppare dalla sirena di Alberto Nagel che voleva impedire che Bpm cadesse in mani non gradite a Mediobanca. Andando a sottovalutare l’intreccio di sindacalisti-affaristi che ha pervaso e continua a pervadere la principale banca milanese. Così ha dovuto alzare bandiera bianca ma almeno con la soddisfazione del risanamento dei conti come ha dimostrato la recente Asset Quality Review della Bce. Bonomi in realtà è rimasto scottato anche quando ha avuto a che fare con la Pirelli e il suo dominus Marco Tronchetti Provera. Insieme a Clessidra doveva entrare nel capitale delle holding a monte del gruppo con l’obbiettivo di ridurre la leva finanziaria dell’azienda e ridurre progressivamente il potere del presidente-azionista. Ma l’abile Tronchetti l’ha tenuto in ballo per qualche mese senza far vedere fino in fondo i conti delle sue scatole finanziarie fino a quando i rapporti si sono interrotti non senza un qualche risentimento. E il distacco dal mondo Mediobanca è aumentato. «I salotti hanno dimostrato di non portare valore alle aziende - aveva confidato Andrea in quell’occasione - sono nati per proteggere invece che per sviluppare. Il private equity invece dà i soldi a chi li merita per far crescere le aziende». Un diverso modo di pensare emerso anche quando John Elkann e Nagel gli hanno chiesto di entrare nel cda della Rcs per rafforzare il plotone degli indipendenti. Una mossa di facciata che ha mostrato la corda con le dimissioni prima del neo presidente Unicredit Giuseppe Vita e poi dello stesso Bonomi, anche se i rapporti con la famiglia Agnelli sono rimasti buoni, forse perché l’Avvocato amava molto la sciura dei danée.
Giovanni Pons, Affari&Finanza – la Repubblica 24/11/2014