Nicola Lombardozzi, Affari&Finanza – la Repubblica 24/11/2014, 24 novembre 2014
PETROLIO, RUBLO, SANZIONI LE TRE CROCI DI PUTIN ORA TREMA LA RUSSIA SPA
Mosca
Concentratevi pure sul crollo del rublo, sullo stallo del petrolio, sulla forza delle sanzioni, ma non perdete di vista la kasha. Per capire la crisi profonda che colpisce la Russia e i suoi 150 milioni di abitanti, niente di meglio che la fondamentale pappa di grano saraceno, piatto obbligatorio nella corposa colazione del mattino di ogni russo degno di questo nome. Se la tempesta di funeste notizie dalla finanza erano state fin qui digerite con la proverbiale rassegnazione di un popolo abituato a ben altro, l’aumento del prezzo del grano saraceno ha seminato il panico. D a 40 rubli al chilo a oltre 60 in meno di un mese, con prospettive di ulteriori rincari dovuti al fatto che, visto che piove sempre sul bagnato, sui Monti Altai il raccolto del cereale più amato di Russia è andato peggio che negli altri anni. Va bene l’aumento della benzina, va bene la sparizione dai banconi di centinaia di prodotti occidentali finiti al mercato nero, l’arrivo di nuove tasse, perfino la riduzione di molti servizi sociali, ma rinunciare alla kashaè troppo. Per rimediare alla valanga di proteste e di allarmi disperati lanciati su Internet e perfino sui media più allineati, il governo ha dovuto ricorrere alle riserve strategiche di grano saraceno, prudentemente messe da parte nei silos di Stato, e pubblicizzare l’avvenimento con una pioggia di comunicati tranquillizzanti: “Il prezzo sarà ridotto, certamente non ci saranno altri aumenti”. Salvata la prima colazione resta però tutto il resto. E non è poco.
“Ora siamo solo in una fase di recessione, ma il peggio deve ancora arrivare e finire in totale caduta libera”, mormora con l’aria cupa uno dei più celebri economisti del Paese come Igor Jurgens, che ha fatto parte più volte dello staff di consulenti dell’attuale premier Medvedev. E accenna subito un calcolo semplice: “Solo quest’anno, tra mancati investimenti e fuga di capitali, siamo già a 200 miliardi di dollari. Le previsioni di crescita per il 2015 sono pari a zero. Le nostre riserve ammontano a meno di 450 miliardi di dollari. Dunque possiamo resistere per due anni, due anni e mezzo. Poi...” Ma che sta succedendo al colosso russo che si vantava di aver attraversato senza un sobbalzo la crisi finanziaria mondiale dilagata nel 2008? Il quadro è sconfortante: la settimana scorsa la Banca di Russia ha dovuto arrendersi all’idea di liberalizzare il cambio del rublo dopo una serie dissanguante di interventi da 350 milioni di dollari al giorno fatti per contrastarne la tendenza verso il basso. E pure con risultati scoraggianti: il 30% in meno in un anno e la classificazione di Bloomberg come “la valuta più volatile del mondo”. Scelta inevitabile, bilanciata da un’altra operazione parallela che dà il senso dell’emergenza. Per premunirsi e per allentare la dipendenza dalla finanza americana, la Russia sta vendendo da mesi le sue cospicue scorte di buoni del Tesoro Usa per comprare e ammassare fisicamente nei suoi caveau camionate di lingotti d’oro. Una corsa all’acquisto del prezioso metallo in attesa di tempi ancora più duri, che ha fatto triplicare in pochi mesi le riserve aurifere nazionali, con un picco record di 55 tonnellate d’oro acquistate in meno di una settimana. Un metodo copiato dalla recente esperienza cinese e prontamente esteso anche alle economie consorelle di Bielorussia e Kazakhstan membri di quell’Unione doganale, meglio conosciuta come “Anti Ue”. Ma non basta. Colpita dalle sanzioni occidentali post-Ucraina, l’economia russa fa i conti con un problema ben noto da queste parti: la concentrazione sulle risorse energetiche e la scarsa capacità produttiva in campo agricolo, alimentare e manifatturiero. Insomma la letale dipendenza dalle importazioni che supera il 51% con punte dell’80 in settori chiave come quello dell’elettronica, della componentistica, delle tecnologie industriali. I primi effetti si sono già visti: i prezzi dei prodotti e gli stessi costi di produzione del made in Russia sono schizzati a ritmi vertiginosi per via del calo del rublo. La reazione istintiva del russo medio non aiuta: dopo anni di campagne promozionali e di costosi incentivi per abituare i diffidenti ex cittadini sovietici all’uso dei conti correnti e dei depositi bancari, è ritornata la corsa a riportarsi il denaro a casa e convertirlo in gran fretta in dollari ed euro con conseguente ulteriore svilimento della moneta nazionale. Le sanzioni settoriali e finanziarie contro Mosca imposte dagli Stati Uniti all’Europa e ad altri paesi “occidentali” come Giappone, Norvegia e Canada, subito dopo l’annessione della Crimea, hanno certo la responsabilità maggiore. Le restrizioni personali nei confronti di noti oligarchi e quelle generali su tutte le aziende russe hanno ridotto al minimo le possibilità di credito dall’estero. Il denaro a buon mercato non si trova più e gli investimenti interni cominciano a latitare. Ma c’è di più. Anche dall’estero arriva sempre meno. Su pressioni del governo Usa la Exxon, ha per esempio abbandonato la colossale e storica joint venture con il colosso di Stato Rosneft per l’esplorazione energetica dell’Artico. Una botta non da poco aggravata dal fatto che la Exxon detiene un know-how per quel difficile lavoro di estrazione di gas e petrolio che i russi non hanno e che non sono in grado di approntare in tempi brevi. E non ci sono solo le macchine. In tempi di distensione, Rosneft contava su interi staff di supemanager americani o europei che, per convinzioni personali o altro, stanno gradualmente abbandonando i loro posti chiave. Momenti difficili per Rosneft, presieduta da Igor Sechin, ex compagno di scuola e poi commilitone di Putin nei servizi segreti sovietici. Inibito a entrare personalmente negli Stati Uniti, Sechin condivide con tanti oligarchi di regime una situazione di grande crisi di liquidità e di disagio personale. Che se non altro porteranno a una brusca frenata dell’espansionismo internazionale che ha portato, per esempio, Rosneft ad acquistare di recente il 17% della Saras di Moratti, e il 13 della Pirelli di Tronchetti Provera. Stessa sorte per le banche, indebolite dalla situazione generale e con ampie perdite in prospettiva come dimostra proprio in queste giorni il gran rifiuto della statale Vtb che ha ritirato la sua offerta da 500 milioni di euro per acquisire la maggioranza della Cavalli. Tra le spiegazioni c’è anche quella che “si prevede un brusco calo di vendite nel settore lusso”. Le paure degli oligarchi fedeli al Cremlino sono aggravate dalla situazione del mercato del petrolio. Dai giornali alla gente per strada fino allo stesso Putin si dà per scontato che sia tutto un complotto americano, ma in ogni caso il calo del prezzo al barile è una sciagura. Ancora a fine settembre, per tranquillizzare i suoi fedelissimi e tangenzialmente anche i cittadini, Putin si diceva certo che il barile non sarebbe mai costato meno di 90 dollari. Adesso che abbiamo superato verso il basso la soglia dei 77, lo stesso presidente annuncia un futuro catastrofico ed esorta tutti a una reazione. “Troppo tardi e comunque inutile”, commenta secco Kirill Rogov, opinionista principe della tv semi indipendente Rbk. “Per troppo tempo si è fatta solo propaganda pura senza pensare seriamente al futuro. Non si sono accumulate riserve sufficienti. In tempi di vacche grasse, con il petrolio oltre i 100 dollari, i guadagni finivano nelle tasche dei soliti amici. Adesso quel poco che c’è viene diviso sempre tra le stesse persone con aiuti di Stato alle grandi aziende per calmare le loro preoccupazioni e mantenerle fedeli al potere”. Il “fondo per il benessere della Russia”, pomposamente costituito sei anni fa per soccorrere il cittadino comune è stato finora intaccato solo per le grandi imprese e per sedare le ancora caute proteste degli oligarchi. Apparentemente brillano tutti di amor patriottico e si dichiarano in coro “pronti a resistere”. Ma screzi, malumori e lotte intestine sono ormai allo scoperto. Come nel caso di Vladimir Evtushenkov, amico di infanzia e superprotetto di Putin finito improvvisamente in disgrazia e arrestato per riciclaggio. La sua azienda petrolifera Bashneft finirà sotto il controllo della Rosneft di Sechin che i maligni vogliono alla guida di un complotto giudiziario contro il collega. Per non parlare delle proteste e delle richieste di aiuto costanti che arrivano al Cremlino da altri potenti in difficoltà come Arkadj Rotenberg privato di recente in Italia della proprietà di un albergo di lusso a Roma e di varie lussuose ville a Tarprio quinia e Porto Cervo. E al pianto con minacce di ribellione degli oligarchi, Putin si mostra comprensibilmente sensibile. Per gli altri aspetti del problema, ci si difende invece con la propaganda. La scorsa settimana giornali e tv davano spazio al comunicato del governo che parlava di una crescita nei settori colpiti dalle sanzioni con toni trionfali. In realtà è la naturale conseguenza delle sanzioni e delle controsanzioni decise da Putin sul settore alimentare. Costrette a produrre di più le aziende casearie e agricole russe stanno in effetti lavorando a pieno regime. Crescono anche i settori dell’indotto relativi alla fabbricazione dell’oleodotto concordato con la Cina. Niente di più. Jurgens continua a vedere nero: “Le sanzioni, è storicamente accertato, non producono mai effetti politici decisivi. Nel nostro caso stanno infatti cementando la solidarietà nei confronti del leader e aumentando l’antiamericanismo e l’ostilità nei confronti dell ’Occidente. Ma sul piano puramente economico fanno male eccome. E il prezzo lo paga solo la gente comune. I consumi stanno crollando, il tenore di vita si abbassa”. E neanche il clamoroso salvataggio della kasha può essere una grande consolazione.
Nicola Lombardozzi, Affari&Finanza – la Repubblica 24/11/2014