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 2014  novembre 23 Domenica calendario

BABA GIORGIO E GLI ALTRI, AMMANITI VA IN INDIA PER SCOPRIRE GLI ITALIANI

A sentire l’autore, The Good Life nasce in modo casuale. All’origine c’è un maldestro viaggio giovanile in India nel 1991, esperienza che servirà a Niccolò Ammaniti per il romanzo d’esordio, Branchie. Risale ad allora l’incontro, in uno sperduto paesino alle sorgenti del Gange, con Baba Gianni, un santone italiano: «Un perizoma a fiori gli calava sopra le gambe tonde come due parentesi, (...) i lunghi capelli neri intrecciati in una coda che si legava intorno al collo a mo’ di sciarpa». Sarà il primo di una serie di tipi pittoreschi, per lo più hippie scappati dall’Italia e rimasti intrappolati in India un po’ per scelta, un po’ per inerzia.
Passano molti anni, racconta sempre Ammaniti, e un giorno lo scrittore incontra Paolo Lorenzoni, uno dei direttori italiani di Current, il canale satellitare di documentari fondato da Al Gore. Ammaniti, chiacchierando, ricorda questa curiosa umanità incontrata in India, ferma con la memoria agli anni Settanta. Dice che sarebbe interessante farci su un film, provare a parlare dell’Italia attraverso la loro prospettiva distorta. Lorenzoni lo convince su due piedi che è proprio lui l’uomo giusto per realizzarlo. E così, qualche mese dopo, una troupe capitanata dallo scrittore sale su un aereo per Delhi e qualche settimana più tardi torna a casa con diverse ore di materiale. Peccato che, giusto negli stessi giorni, Current Italia chiuda, vittima di un mercato televisivo che della qualità non sa bene che farsene.
È con quel materiale mai utilizzato che Ammaniti ha imbastito The Good Life, che esce adesso in dvd per Feltrinelli nella collana «Real Cinema». Si tratta di un film molto semplice, strutturato su tre lunghe interviste giustapposte. La prima è con Baba Shiva Das, un vicentino che vive a Varanasi. È un sadhu, un sant’uomo, e vive alla giornata sulle rive del Gange. È capitato in India per caso quarant’anni fa e lì ha abbracciato la dimensione del sacro. Non la religione, tiene a precisare, che è invece, secondo lui, la maledizione dell’umanità.
Sulle montagne da cui si vede l’Himalaya vive invece Eris, anche lui veneto, tutt’altro genere di emigrato. Delle molte cose che ha fatto nella vita (il nomade, il portatore, il cavallaro...), la sua ultima specializzazione è il costruttore edile. Ha messo su una banda di muratori indiani che edifica case di montagna secondo i principi tradizionali dell’architettura locale. Ha una compagna italiana, cinque figli e dichiara convinto che in patria non ci tornerebbe mai.
È un sant’uomo anche Baba Giorgio, che viene dal torinese. Scappato dal «natio borgo selvaggio» poco più che adolescente è finito a vivere in un paesello ancor più marginale vicino al Kashmir, dove è diventato un sadhu dell’ordine dei Nat, nonché custode del tempio locale. Strascica un italiano impastato come i suoi ricordi; ci narra della sua santificazione, ma anche dell’incontro con la madre che è venuta a trovarlo lì, dopo trent’anni di lontananza.
Per raccontarci i suoi personaggi Ammaniti fa quello che deve fare ogni buon documentarista: osserva e ascolta, senza formulare giudizi. Ma il montaggio lineare di Jacopo Quadri, nella sua apparente semplicità, opera una brillante operazione di straniamento. A mano a mano che ascoltiamo i racconti di questi nostri connazionali, ci rendiamo conto che sempre di meno sappiamo cosa pensarne. Sono troppo lucidi per essere «matti»; e sono troppo estremi per essere normali. Spesso dicono cose condivisibili sul senso della vita, ma l’essenza della loro appare quantomeno discutibile; e comunque non aliena da una serie di condizionamenti e relazioni sociali, il cui rifiuto, nelle loro parole, è stata invece la ragione principale della fuga dall’Italia.
Infatti, continuando ad ascoltarli, gli intervistati producono uno strano effetto. Più ci addentriamo nell’esotismo e nel lontano, più avvertiamo qualcosa che ci è familiare e vicino. È come se la distanza geografica e mentale rendesse più chiara la matrice profonda di questi uomini: capiamo che — nonostante le barbe lunghe e l’Himalaya — Shiva Das, Eris, Giorgio restano italianissimi. Anzi, proprio grazie al contesto così radicalmente estraneo, ci dicono qualcosa di rivelatore sul carattere nazionale. I due «santoni», per esempio, sono figli di quell’anarchismo individualista che possiamo riconoscere ogni giorno lungo le nostre strade. Un’insofferenza alle regole, un fastidio per la responsabilità sociale che nel caos dell’India, almeno per loro, trova una risposta naturale. Trasformare il ribellismo in santità ascetica, d’altra parte, è una via che hanno provato in molti, dopo gli anni Settanta: spesso con risultati paradossali.
Ancora più interessante è un personaggio come Eris. Se invece dei cieli azzurri dell’Himalaya dietro di lui si stendessero i capannoni delle fabbrichette, sarebbe un perfetto padroncino del Nordest. La filosofia del fare dando libero sfogo alle proprie capacità di iniziativa è la medesima; e anche il rapporto che si compiace di illustrare con i suoi sottoposti locali è tipico del buon paternalismo settentrionale. Non a caso Eris si lancia a un certo punto in un discorso in cui esprime la sua totale sfiducia nella democrazia; e poi in un’apologia della figura del capo (lui medesimo, nello specifico), visto come archetipo inevitabile, dominus della tribù non per volontà sua, ma del popolo...
In quelle parole scorre riconoscibilissima la storica inclinazione italiana a cercare «l’uomo della provvidenza», il leader per cui non valgono le regole comuni. Un po’ Marinetti, un po’ Jack London (o forse Salgari...) Eris confessa di considerare la sua vita non in una prospettiva terrena, ma cosmica, da eletto.
Ammaniti è abile nel lasciar scorrere le storie dei suoi personaggi come le acque di un grande fiume (senza peraltro sapere bene dove lo porta la corrente...). Non li rappresenta con ironia manifesta, ma nemmeno empatizza con loro. Forse, nel disegno generale, manca l’intervista a una donna. Gli asceti le hanno rimosse radicalmente, l’avventuriero le riconosce al massimo come compagne del capo. Ma sono loro la voce mancante nella nostra storia — non solo in questa. A meno di voler considerare con più malizia la sequenza finale della visita della mamma di Baba Giorgio al figlio: la surreale immagine di una pensionata italiana teneramente abbracciata al suo exgiovanotto vestito di stracci. Una scena che sembra uscire dritta dal periodo «cannibale» dell’autore.