Livia Manera, Corriere - La Lettura 23/11/2014, 23 novembre 2014
«UN RAGAZZINO E LA SUA GIUDICE: VADO IN TRIBUNALE A CERCARE STORIE»
Le parole che scrivono i giudici, al contrario di quelle dei romanzieri, hanno conseguenze reali sulla vita delle persone. Sarà per questo che Ian McEwan ha scelto un giudice come protagonista del suo ultimo libro?
Mentre prepara un tè nella cucina del pied-à-terre a Bloomsbury — un paio di anni fa lui e la seconda moglie Annalena McAfee hanno trasferito la loro residenza principale da Londra in campagna — sullo schermo del suo computer appare la foto di una neonata che fa il bagno in un lavandino: la sua prima nipotina. «Si chiama Ada», dice lo scrittore inglese che in giugno ha compiuto 66 anni. E poi spiega: «È da prima ancora di Miele (il suo penultimo libro, ndr ) che giravo intorno all’idea di un romanzo su un giudice, quando è successa una cosa. Un mio amico, un giudice in pensione che ha occupato una posizione molto importante, mi ha raccontato la storia di un adolescente che era pronto a lasciarsi morire piuttosto che ricevere una trasfusione di sangue. Era un testimone di Geova. Il giudice aveva sospeso l’udienza e aveva attraversato Londra in taxi per sedersi accanto al ragazzo in ospedale. Avevano passato insieme tre quarti d’ora e parlato di calcio. Poi aveva emesso la sua sentenza: il ragazzo doveva essere curato, anche se questo andava contro la sua volontà. Ricordo che stavamo aspettando che cominciasse un concerto. E una cosa ha attirato la mia attenzione. Disse che quando i genitori ascoltarono il verdetto, una decisione che avevano combattuto con tutte le loro forze perché i testimoni di Geova non ammettono la trasfusione, furono sopraffatti dalla gioia. Questa è la prima cosa che mi ha veramente interessato. La seconda è che dopo qualche mese il mio amico giudice, Alan Ward, ha portato il ragazzo a una partita di calcio. Poi ha dimenticato questa storia, si è occupato di moltissimi altri casi, ed è rimasto stupefatto quando alcuni anni più tardi ha scoperto che…».
I libri meno recenti di McEwan — come Primo amore, ultimi riti ; Il giardino di cemento; Cortesie per gli ospiti — raccontavano storie macabre e misteriose che avevano spesso un’angolazione perversa. Ma da qualche tempo i romanzi di questo fuoriclasse della prosa trasparente e dell’architettura narrativa tendono verso i grandi temi. In Sabato McEwan si è confrontato con la neuroscienza. In Solar con il riscaldamento globale. Mentre nel nuovo romanzo che sta per uscire da Einaudi nella traduzione di Susanna Basso con il titolo non azzeccatissimo di La ballata di Adam Henry (originale: The Children Act ), il tema è l’irrazionalità della religione e i suoi antidoti, la ragione e il diritto.
Un tema potenzialmente molto provocatorio — basterebbe sostituire «Geova» con «islam» e ricordare che McEwan è un ateo di ferro cresciuto in una base militare in Libia — se l’autore non gettasse acqua sul fuoco dicendo: «Per me la religione non è centrale in questo caso. Capisco che la storia che le ho raccontato possa essere letta come un pretesto per un tema più ampio, e mi sta bene. Ma a me interessa quella storia. Anche perché è attraverso di essa che ho scoperto nel diritto di famiglia una grande risorsa ignorata dalla narrativa. Gli scrittori di regola preferiscono i casi criminali. Ma la maggior parte di noi non vive in un mondo di pistole, coltelli e stupri. Quelle sono catastrofi che accadono di rado nelle vite delle persone. Mentre le divergenze su come educare i figli dopo un divorzio o sulle cure da adottare quando sono malati toccano molti, e a mio avviso sono materia perfetta per i romanzi».
Il suo comincia una domenica sera nel salotto in una bella casa londinese, con il giudice dell’Alta Corte Fiona Maye sdraiata su una chaise long , accanto a un fascicolo di carte sul pavimento e con lo sguardo fisso nel vuoto in direzione di una litografia di Renoir comprata trent’anni prima e «probabilmente falsa». La prima cosa che viene in mente è che trent’anni fa McEwan avrebbe seppellito il cadavere di Fiona nel giardino della sua bella casa. Adesso si accontenta di affliggerla con un marito che vuole lasciarla per una donna più giovane, e un caso giudiziario capace di penetrare la sua corazza professionale e pugnalarla dritta al cuore.
Ma perché, se ci pensava da anni, ha aspettato a scrivere questo libro? — chiediamo a McEwan mentre portiamo le tazze di tè in salotto. «Perché sono un grande sostenitore dell’esitazione. Una buona idea oggi può sembrare diversa fra tre mesi». E nel frattempo? «Nel frattempo preferisco non parlarne con nessuno. Nemmeno con mia moglie. Non voglio che prenda troppa forma. C’è il rischio che mi stufi».
Stamattina McEwan è rilassato, loquace. «la Lettura» ne approfitta per scoprire come lavora. Tre o quattro ore al mattino, risponde, altrettante al pomeriggio, una cartella e mezza, massimo due al giorno. E nel periodo di preparazione? «Prendo appunti. Mi mando dei messaggi. Per esempio: il ragazzo. L’esplosione mentale di Adam Henry dopo l’incontro col giudice Maye in ospedale si basa sui miei ricordi del passaggio dai sedici ai diciotto anni, quando ho cominciato a leggere poesia e ad ascoltare musica seriamente. È stato come un rinascimento mentale. Di colpo la vita mi è sembrata piena di fascino». Quella fascinazione che porta il ragazzo malato di leucemia a «innamorarsi» del giudice Maye — la quale, al contrario del giudice Ward della vera storia, non si siede accanto al suo letto per parlargli di calcio ma si spinge molto più in là: lo accompagna mentre suona il violino cantando dei versi di Yates — rivela la fiducia di McEwan nella capacità della cultura alta di redimere il mondo dalla barbarie: un pensiero che aveva messo a fuoco già in Sabato , quando una poesia recitata in un contesto drammatico aveva convinto dei bruti a rilasciare il protagonista e la sua famiglia presi in ostaggio.
Non tutti i critici avevano apprezzato allora, e non tutti apprezzano adesso. Per funzionare, la scena dell’incontro tra giudice e paziente richiede che il ragazzo sia bello, fragile, con gli occhi cerchiati da un’ombra violacea; che abbia appena cominciato a suonare il violino. Che vesta, insomma, i panni delle stereotipo romantico. E che pertanto Fiona Maye, la quale oltre a essere un giudice coscienzioso e compassionevole è anche un’ottima pianista, sia tentata di vedere in lui «il figlio che non ha mai avuto», come sta dicendo McEwan, «e forse anche una piccola tentazione erotica, permessa dal fatto che il marito l’ha lasciata per un’altra donna».
In questo universo di persone così raffinate da sembrare impermeabili alla volgarità dell’ignoranza, il marito di Fiona Maye ha aperto una crisi matrimoniale chiedendole il permesso di tradirla per la prima volta dopo trent’anni di fedeltà sessuale, perché da «sette settimane e un giorno» non fanno l’amore. Non sarà un mondo idealizzato? La tentazione di riportare la conversazione su temi più sanguigni è forte.
Davvero, McEwan, non intendeva puntare il dito sui risvolti disumani del fanatismo religioso? Dov’è finito il McEwan ateo militante a cui ci aveva abituato? Risponde con tranquillità: «Guardi, mi sono stancato di essere invitato ai dibattiti con vescovi. Oggi discutere di religione con i vescovi mi riguarda tanto quanto a lei riguarderebbe discutere di Giove. Preferisco leggere le sentenze dei tribunali su internet. Dovrebbe farlo anche lei. Non sa quante storie straordinarie scoprirebbe».