Pietro Minto, Corriere - La Lettura 23/11/2014, 23 novembre 2014
(A)SOCIAL NETWORK PER STRARICCHI
Con tutti hanno la stessa idea di cool. Nella scelta di un ambiente online in cui conoscere nuove persone e comunicaree campeggia sulla homepage di Facebook: «...è gratis e lo sarà sempre». Niente scherzi, quindi, la modalità free è unica ed eterna, gli utenti non devono temere sorprese nel futuro.
C’è però chi non si trova a proprio agio con questa policy e l’assenza di selezione all’ingresso che comporta: andare online per trovare tutti... ma proprio tutti-tutti? Meglio di no.
Sono nati così piccoli social network sperimentali in cui il pagamento — con l’arroganza del censo e sfidando il senso del ridicolo — diventa l’unico modo per evitare le masse e dichiarare al mondo: «Io me lo posso permettere». E visto che si è disposti a usare il portafogli, tanto vale gonfiare le tariffe in modo da creare esclusivi circoli online per l’1% della popolazione (famosa percentuale che definisce la fascia di popolazione mondiale che dispone di circa la metà della ricchezza mondiale).
La prima di queste élite digitali a nascere fu ASmallWorld nel lontano 2004, appena pochi mesi dopo la nascita di Facebook, all’epoca limitato ai soli studenti di Harvard. Inizialmente presentato come una sorta di «MySpace per ricchi», A Small World ha resistito per un decennio in un settore in cui il tasso d’estinzione è elevatissimo, e lo ha fatto grazie soprattutto a una formula che lo fa somigliare a un Rotary Club a distanza.
Il social network è infatti soltanto una parte del progetto, il cui punto forte è invece la serie di eventi reali organizzati attorno a questa community eterea: cene, raccolte fondi, serate in discoteca; a garantire l’accesso alle «persone giuste» c’è un sistema di inviti interno per cui ogni aspirante membro del club deve richiedere l’ingresso a uno dei 250 mila utenti del sito.
Un severo sistema di pesi e contrappesi per mantenere inalterata la demografia da 1% del sito (non sia mai che entri un precario o un contratto a tempo determinato) e a cui recentemente è stata aggiunta la richiesta di una quota d’iscrizione ai suoi iscritti (non particolarmente alta: 105 dollari l’anno) per risolvere una crisi interna dovuta agli scarsi introiti pubblicitari.
Esiste da poche settimane un’alternativapiùsocialadASWmaè—enonstupisce — molto più cara: l’ha creata a settembre un ex direttore d’orchestra statunitense, James Touchi-Peters, e si chiama Netropolitan. Un «asocial network» i cui costi (9.000 dollari, 6.000 per l’iscrizione più 3.000 di «abbonamento» annuale) lo rendono il tempio del privilegio su internet, alternativa a Facebook per straricchi.
Non parliamo di un sito attorno al quale vortica un giro di eventi «classici», ma di un vero social network in cui ogni utente ha un profilo molto sobrio (poco spazio per le foto e le altre amenità da siti popolari) e può interagire con i suoi parigrado nei forum, nella sezione dedicata alle discussioni e nei gruppi privati. Un luogo esclusivo dove incontrare altre persone fidate, tutte disposte a pagare migliaia di dollari per non incappare nella bolgia di Yahoo Answer o Twitter.
L’immagine promozionale con cui Netropolitan apre il suo sito e si presenta al mondo — il restante 99% della popolazione — offre una buona dimostrazione di quello che vi si può trovare al suo interno: un gruppo di giovani a bordo di un aereo privato, sorridenti e ben vestiti; uno di loro mostra ai suoi amici una pagina del social network su un iPad; tutti sorridono bevendo cocktail che si intuiscono molto ricercati e conseguentemente costosi.
«È un fenomeno sorprendente e non sorprendente allo stesso tempo», commenta Adam Arvidsson, docente di Nuovi media e Sociologia della globalizzazione all’Università Statale di Milano, autore con Alessandro Delfanti del volume Introduzione ai media digitali (il Mulino). «È inevitabile che nel mondo digitale possano presentarsi le stesse distinzioni di classe che esistono nella vita reale. In fondo qualcosa di simile è già avvenuto anni fa quando agli albori di Facebook il social network veniva considerato una cosa da studenti di college», elitario, mentre MySpace era più popolare.
Difficile non notare il velato controsenso di Netropolitan, però: la creazione di uno spazio per l’1% quando, continua Arvidsson, «quelli che davvero appartengono all’élite dell’élite non usano i social network, forse non hanno nemmeno uno smartphone».
È un punto su cui si sofferma anche Nathan Jurgenson, teorico dei social media statunitense, che contattato dalla «Lettura» si è chiesto se «davvero i ricchi del mondo abbiano bisogno di connettersi a internet per dimostrare la loro opulenza». Sembra un atteggiamento sospetto, anche perché a molte persone potenti «piace l’idea di essere nei social media senza utilizzarli davvero, è una forma di privilegio».
C’è però chi non teme di mostrare i propri eccessi alla gente comune e anzi ricerca i social network più di successo per raggiungere il più ampio pubblico possibile, facendo del vanto un’attività 2.0. «Rich Kids Of Instagram» è un tumblr nato nel 2012 che raccoglie foto e commenti di questa super casta di miliardari, uno sguardo su adolescenze fatte di Lamborghini, iPhone e selfie con mazzette di dollaroni. Un mondo popolato da personaggi incredibili che hanno finito per convincere l’anonimo creatore del sito a provare lo sbarco in libreria con Rich Kids Of Instagram: A Novel, tentativo fallito (molto fallito, a giudicare dalle poche recensioni recuperabili) di portare questo cast di nuovi nobili sul piano della fiction. I suoi protagonisti sono tutte persone per le quali l’idea di un social network chiuso, protetto e tutto dedicato ai ricchissimi sembra una follia, persone per cui il fine ultimo della ricchezza è la discussione della ricchezza in pubblico, perlopiù con gente di ceto inferiore.
Il caso-limite in questo senso è sicuramente quello di Lavish P., giovanissimo figlio di miliardari dall’identità enigmatica, che dal suo account Instagram @itslavishbitch mostra al mondo la sua esistenza solitaria di macchinoni, bottiglie di San Pellegrino gettate nel water e mazzette da quattromila dollari attentamente legate a palloncini gonfi d’elio e fatte volar via: non per beneficenza, sembra di capire, ma per disprezzo della povertà.
Novemila dollari non regalano solo un discutibile attestato di unicità pecuniaria: visto che il servizio viene pagato di tasca propria dagli utenti, Netropolitan può permettersi di trattare con cura certosina le identità e i dati personali dei suoi utenti. Se dietro al fosco trattamento dei dati perpetuato da Google, Facebook e gli altri giganti del web c’è difatti il solito alibi, ormai foglia di fico («Forniamo servizi gratuiti, in qualche modo dobbiamo pur guadagnare»), il Netropolitan Club si caratterizza come un ambiente minuscolo e fondato sul denaro, quindi i suoi contenuti sono al riparo dall’indicizzazione dei motori di ricerca, non vengono ceduti ad aziende esterne e, come dicono i fondatori del sito, «non accetteremo mai denaro per promuovere prodotti o servizi esterni». Che è esattamente il minimo che ci si aspetta da qualsiasi club esclusivo. Non è dato sapere quanto questa attenzione alla privacy sia parte della mission originale del sito o quanto sia stata un piacevole incidente di percorso nella creazione di un Facebook d’élite, ciononostante il caso di Netropolitan sembra confermare un noto adagio di internet, secondo cui «se non paghi per una cosa, non ne sei l’acquirente, sei la merce stessa».