Stefano Lorenzetto, il Giornale 23/11/2014, 23 novembre 2014
INTERVISTA A GIACOMO IVANCICH
È rimasto solo lui, l’ultimo testimone di una vicenda umana e sentimentale che ha cambiato il corso della letteratura. Una storia d’amore, di travolgente passione, così fu vissuta da Ernest Hemingway. «Un’amicizia platonica e niente più per mia sorella Adriana», assicura Giacomo Ivancich, 82 anni, da quasi 70 costretto a sopportare il gossip salottiero e le balordaggini giornalistiche che l’hanno sporcata.
Era il pomeriggio di venerdì 10 dicembre 1948 quando lo scrittore americano incontrò per la prima volta la nobildonna veneziana all’incrocio delle Quattro Strade di Latisana. Pioveva. Lui aveva 49 anni; lei appena 18, ed era senza ombrello. Dall’altra parte del fiume, a San Michele al Tagliamento, c’era (c’è ancora) la villa degli Ivancich, o, per meglio dire, ciò che ne restava dopo i bombardamenti alleati: le barchesse disegnate dal Longhena, l’architetto che eresse la basilica della Salute sul Canal Grande. Lì comincia anche Di là dal fiume e tra gli alberi, in cui Ernest prende le sembianze del colonnello Cantwell e Adriana di Renata, «il ritratto - forse malriuscito - di qualcuno che amava più di chiunque altro al mondo», come confidò l’autore ad Harvey Breit, critico del New York Times. Senza quell’incontro, il romanzo non avrebbe mai visto la luce. Né sarebbe apparso, due anni dopo, Il vecchio e il mare, che valse a Hemingway il premio Pulitzer nel 1953 e il premio Nobel nel 1954.
Dal 1941 lo scrittore non riusciva a buttare giù una pagina. La giovane Ivancich fu la musa che risvegliò la sua vena creativa. Ernest la chiamava «daughter», figlia, «my beauty», «mio doge», «partner», «great black horse», grande cavallo nero, e anche, con una significativa inversione dei ruoli, «mio colonnello» oppure «general Martí». Per Adriana era semplicemente «mister Papa» o «papa», senza accento, è così che i figli americani si rivolgono ai padri. Due destini che s’incrociarono per caso nel Veneto - «un uomo ha una sola verginità da perdere e là dove la perde il suo cuore rimarrà per sempre», confessò Hemingway all’amico Bernard Berenson otto mesi dopo il primo incontro con la ragazza - e che furono accomunati dalla medesima tragica fine. Suicida lui, con un colpo di fucile in bocca il 2 luglio 1961 a Ketchum, nell’Idaho. Suicida lei, morta il 24 marzo 1983 all’ospedale di Orbetello dopo essersi impiccata a un albero nella sua tenuta di Capalbio.
Giacomo Ivancich, ex ambasciatore in Sudafrica, all’Unesco e in Danimarca, una carriera diplomatica che dal 1957 al 1999 lo ha portato in Egitto, Francia, Belgio, Perù e Grecia, è nato a Venezia e vi risiede tuttora. Nel giugno scorso l’hanno invitato a rendere definitiva giustizia alla memoria di sua sorella sull’isola di San Servolo, dove 350 studiosi giunti da ogni parte del mondo partecipavano alla XVI Biennal international conference della Hemingway society. Con lui, Piero Ambrogio Pozzi, che si è guadagnato la sua stima investigando a lungo sul rapporto fra Papa e daughter. Nel saggio Il fiume, la laguna e l’isola lontana, Pozzi smonta con scrupolo filologico le maldicenze propalate da critici d’incerto mestiere e cronisti da strapazzo e sottolinea con la matita blu «le cavolate» (testuale) di Fernanda Pivano, ritenuta da sempre, a dispetto dei grossolani errori di traduzione, l’unica depositaria del verbo hemingwayano.
Gli Ivancich, già armatori di origine patrizia provenienti da Lussinpiccolo, oggi Croazia, sono veneziani da sei generazioni. Nel 1805 si stabilirono in Calle del Rimedio, dove tuttora vi è il palazzo che porta il loro nome. Jacopo, il nonno di Giacomo, comprò anche i palazzi Ferro e Fini, che nel 1972 divennero la sede del Consiglio regionale del Veneto. Suo figlio Carlo sposò Dora Betti, nata da benestanti agrari di Nogara, nella Bassa veronese. La coppia ebbe quattro figli: Gianfranco (1920), Francesca (1922), Adriana (1930) e Giacomo (1932). Tra i fan della terzogenita vi fu anche Indro Montanelli: nel 1953, dopo che Adriana aveva pubblicato un libro di poesie, il giornalista le scrisse una lettera e venne a trovarla a Venezia, rimanendo a parlare con lei un paio d’ore. «Una tendenza di famiglia», rievoca l’ultimo degli Ivancich. «In Calle del Rimedio mio nonno suonava il violino, da dilettante, con Richard Wagner. Mia prozia era la musa di Antonio Fogazzaro. Mia zia Emma era amica di ogni genere di artisti, da Filippo Tommaso Marinetti ad Arturo Benedetti Michelangeli, e aiutava pittori e musicisti esordienti».
Dopo l’8 settembre 1943, Carlo Ivancich salvò dalla deportazione molti ebrei e diede rifugio ai militari angloamericani sbandati. «Il 9 giugno 1945 fu assassinato a San Michele al Tagliamento da tre pseudo partigiani, che temevano di essere denunciati insieme con il mandante del crimine: durante la Resistenza avevano venduto a proprio vantaggio viveri e bestiame consegnati loro da mio padre perché ci sfamassero i patrioti».
Lei ha conosciuto Hemingway?
«Sì. Avevo 16 anni quando venne a pranzo in casa nostra a Venezia. Alla fine lo riportai all’hotel Gritti. Lungo le calli mi parlò di come si guida un’auto in curva e di boxe. Lo rividi in molte altre occasioni. Una volta mia sorella Francesca gli rimproverò scherzosamente di non saper scrivere libri per bambini. Al successivo incontro si presentò con Il leone buono, favola che fu pubblicata nel 1951, dedicata a mio nipote Gherardo, figlio di Francesca, che ne va giustamente orgoglioso. All’Harry’s bar m’insegnò come si beve il Martini alla Montgomery».
Alla Montgomery?
«Non stimava il generale inglese. “Gli piaceva combattere in 50 contro uno”, mi spiegò. Da qui la ricetta del cocktail: una parte di Martini e 50 parti di gin».
Mi parli del primo incontro di Hemingway con sua sorella.
«Adriana era stata invitata a una caccia alle anatre che Nanuk Franchetti, amico di famiglia, aveva organizzato in onore dello scrittore nella sua tenuta di Caorle. Un quarto di secolo prima, nel 1923, mia madre Dora e mia zia Emma Ivancich avevano conosciuto Hemingway all’hotel Bellevue di Cortina d’Ampezzo».
Strano nome, Nanuk.
«È l’orso polare nella lingua degli inuit. Raimondo Franchetti era un esploratore. La figlia Lauretana la chiamava Simba, che in swahili significa leonessa. Poi c’erano Lorian, palude del Kenya, e Afdera, vulcano della Dancalia».
Afdera, che sposò l’attore Henry Fonda, si vantò in un’intervista all’Europeo di essere l’amante di Hemingway e di avergli ispirato la figura di Renata in Di là dal fiume e tra gli alberi. È stato scritto che il suo fu un diversivo per proteggere l’identità di Adriana.
«Non credo. Al contrario di mia sorella, diciamo invece che Afdera è sempre stata portata per il proscenio. Lo scrittore non la prendeva sul serio».
Che avvenne nella riserva di caccia?
«Adriana aveva i capelli bagnati e cercava il modo di sistemarseli. Ernest spezzò il suo pettine di osso e gliene offrì metà».
Un colpo di pettine e di fulmine.
«S’incontrarono varie volte con amici comuni. Mia madre cominciò a inquietarsi. Sa, Adriana era la ragazza più in vista di Venezia e qui le ciacole corrono in fretta. Perciò invitò Hemingway a un lunch allo scopo di normalizzare socialmente questa frequentazione. Doveva essere accompagnato da Mary Welsh, la quarta moglie, che non poté venire perché s’era rotta una gamba a Cortina».
Sua sorella fu identificata nella ragazza con cui il colonnello Cantwell consuma un amplesso in gondola.
«Lo scandalo nacque da lì. Ernest voleva dare i connotati di Adriana alla protagonista del romanzo e lei, ingenuamente, acconsentì. Un giornale francese trasformò la finzione letteraria in realtà. Mia madre vide l’articolo nel gennaio 1951, mentre era in vacanza con Adriana a Cuba, ospiti degli Hemingway a Finca Vigía. “Dobbiamo andare via subito”, ordinò. Lo scrittore fu talmente costernato dall’equivoco che per tre anni non mise più piede a Venezia onde evitare pettegolezzi e vietò che il romanzo uscisse in italiano mentre lui era in vita. Infatti da noi fu pubblicato solo nel 1965».
Pozzi ritiene che Hemingway quell’intermezzo erotico lo abbia avuto in realtà con l’attrice Marlene Dietrich.
«Io so soltanto che mia sorella ristabilì la verità dei fatti nell’autobiografia La torre bianca, che prende il titolo dalla torre quadrata del giardino di Finca Vigía, dove al primo piano c’era lo studio di Ernest e al piano superiore quello di Adriana, incaricata di disegnargli la copertina per Il vecchio e il mare. Lì emerge che la famigerata avventura in gondola con Papa è pura fantasia letteraria. Il libro fu presentato in Calle del Rimedio da Nantas Salvalaggio, il quale 20 anni dopo, immemore d’averne tessuto le lodi, si abbandonò anch’egli allo scandalismo e scrisse un articolo disgustoso, in cui dava della sgualdrina a mia sorella e si spacciava come suo intimo coetaneo, compagno di scuola e di università. Ma Adriana frequentò sempre un istituto solo femminile, presso le suore di Nevers, e non s’iscrisse mai a un ateneo».
Dunque che tipo di amicizia fu quella con Hemingway?
«Ideale, spirituale ed epistolare. Per due volte impedii ad Adriana di gettare via le lettere che lui le scriveva. “Perché dovrei tenerle? Le ho già lette”, si stupiva lei. Papa s’illuse che potesse diventare la donna della sua vita, ma si arrese subito alla differenza di età e di mentalità: “Non ti chiedo di sposarmi, perché mi diresti di no”, scherzava. La moglie Mary fu tranquillizzata da mia sorella, tant’è che rimase in ottimi rapporti con noi Ivancich anche dopo la morte dello scrittore: c’invitò a New York e a una crociera in Dalmazia, e Gianfranco, in quanto componente di quello che Papa definiva “il ramo veneziano della famiglia”, partecipò con pochi intimi ai funerali a Ketchum. Del resto Adriana, nei sette anni in cui rimase in contatto con Ernest, ebbe parecchi flirt, ma sempre di quelli d’una volta».
Vale a dire?
«Romantici. Già mentre era ospite di Papa a Cuba s’innamorò di Juan Veranes, poi sostituito da Enrico Bentivoglio Middleton, conosciuto a Capri. Anche Nicola di Jugoslavia, figlio del principe Paolo, fu folgorato dalla sua personalità a Parigi, poco prima di morire in un incidente. Purtroppo Adriana nel 1957 sposò in Inghilterra un greco gelosissimo, oggi defunto, di cui ho rimosso persino il nome; un paranoico che l’aveva plagiata e voleva farle bruciare la corrispondenza con Hemingway. Salvai io le lettere, ora custodite alla John Kennedy Library di Boston e in altri fondi epistolari».
Però nel novembre 1967 sua sorella ne vendette parecchie per 7.000 sterline a un’asta di Christie’s a Londra.
«Aveva bisogno di soldi. Con il secondo marito, Rudolph von Rex, dal quale ebbe due figli, volle ritirarsi a vivere in Maremma perché amavano la vita agreste. Fu una scelta assai dispendiosa».
Quando finì l’amicizia fra Ernest e Adriana?
«Non direi che sia mai finita. Però mia sorella dovette tagliare i ponti con il passato a causa del greco ossessivo, che la costrinse a trasferirsi con lui in una fattoria nel Tanganica».
Sul Corriere della Sera , annunciando la morte di sua sorella, la Pivano la dipinse come una starlet: «Hemingway non si stancava di fissare trasognato i grandi occhi seducenti, il torso procace e le lunghe gambe snelle che la giovinetta teneva per lo più in pose un po’ cinematografiche».
«Affermazioni fantasiose, che non avrebbe dovuto permettersi. E pensare che fu proprio Nanda, quando il regista Abel Ferrara avrebbe voluto trarre un film da La torre bianca, a dirmi: “Per carità, non carichiamo anche questa croce sulle spalle della povera Adriana, che già in vita ha sofferto a sufficienza”».
Perché sua sorella si uccise?
«Per una grave depressione. C’è un parallelo con la fine di Hemingway: entrambi furono sottoposti all’elettroshock e ne uscirono distrutti».
«Qualcuno penserà questo e qualcuno penserà quello e soltanto tu e io sapremo e saremo morti», scrisse Ernest a Adriana.
Quasi una premonizione.
«Si riferiva a “quella storia”, la loro, “che non scriverò mai, perché nessuno vi crederebbe”, essendo la maldicenza più forte della verità. Chi supporrebbe che Hemingway il 9 giugno, giorno dell’uccisione di nostro padre, pregasse per “il ramo veneziano della famiglia”?».
Sua sorella è sepolta nel cimitero di Porto Ercole, al monte Argentario. Nell’area riservata agli stranieri. Perché, se era nata a Venezia?
«Per i suicidi allora usava così. Non c’era posto, per loro, nel camposanto».
Stefano Lorenzetto
LORENZETTO Stefano. 58 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).
LORENZETTO Stefano. 58 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.