Dario Pappalardo, la Repubblica 24/11/2014, 24 novembre 2014
L’ARTE È UN ROMANZO, ECCO IL GRAND TOUR DI MELANIA MAZZUCCO
Goethe davanti al Laocoonte, nel 1798, sviluppa la sua teoria estetica. Stendhal, uscendo dalla chiesa di Santa Croce, a Firenze, ha come un mancamento: troppa bellezza. È il 1817 e nasce la sindrome che porta il nome dell’autore francese. E poi: Foscolo e Canova; Dostoevskij e la Madonna Sistina di Raffaello; Elias Canetti che guarda Bruegel il vecchio e Rembrandt; Elsa Morante e il Beato Angelico e giù fino a Jonathan Littell, in pausa dagli orrori delle Benevole, che studia i trittici di Francis Bacon al Prado. Gli scrittori hanno bisogno di capolavori. E i capolavori hanno bisogno di scrittori perché qualcuno li faccia vivere ancora, attraverso le parole. Roberto Longhi sperimentò la possibilità di una prosa artistica che fosse innanzitutto grande letteratura. La sua Officina ferrarese è un classico del Novecento, prima che il saggio fondamentale sul rinascimento estense.
Melania Mazzucco, oltre che una scrittrice, è una collezionista di opere d’arte. Ma niente a che vedere con i vari Pinault e Gagosian. Il mercato stavolta non c’entra. La scrittrice premio Strega con Vita per anni ha raccolto con la macchina fotografica e nei bookshop le immagini che hanno formato il suo percorso. Pile di foto e cartoline testimoni di volta in volta di «una folgorazione», «un innamoramento», «talvolta una rivelazione». Le ha raccontate per dodici mesi sulle pagine di Repubblica, portando avanti un esperimento inedito per questi tempi: ogni settimana un dipinto da descrivere sulle colonne di un grande quotidiano. Cinquantadue quadri in tutto, che adesso formano Il museo del mondo ( Einaudi, pagg. 240, euro 33): una galleria impossibile, rigorosa e anarchica insieme, senza un ordine, se non quello del pensiero e del ricordo. L’opera più antica compresa nella collezione è il Santissimo Salvatore dell’Acheropìta del V secolo; la più recente Sol Invictus di Anselm Kiefer, 1995. In mezzo ci sono capolavori irrinunciabili — dalla Venere di Urbino di Tiziano alla Madonna dei pellegrini di Caravaggio — e scelte personalissime. Tra Giotto e Raffaello, Velázquez e Hopper, fanno capolino “irregolari” del Novecento come Suzanne Valadon e Nicholas de Staël. Ma Il museo del mondo non propone alcun canone estetico: non è un trattato di teoria artistica. Mazzucco inserisce ogni opera nel suo contesto storico e ne illustra l’iconografia. Poi, però, finisce per farla irrimediabilmente “sua”, contaminandola di biografia personale. E allora Ad Parnassum di Paul Klee è la copertina di un libro d’arte per bambini, regalo dei cinque anni; l’ Annunciazione di Beato Angelico è il ricordo più splendente di una visita al convento fiorentino di San Marco; La presentazione di Maria al Tempio di Tintoretto rappresenta l’ingresso nella bottega di un artista che l’autrice avrebbe frequentato tante volte, fino a dedicargli due libri ponderosi. È nel restare scrittrice e non “critica” che la Mazzucco aggiunge valore al suo museo e ai dipinti che lo contengono. Dimostrando, ancora una volta, che ogni opera è un pezzo di tempo scolpito, destinato a parlare ancora e ancora. Lo sosteneva Edvard Munch: «Tutto sommato il racconto è lo scopo di ogni arte».