Alain Elkann, La Stampa 23/11/2014, 23 novembre 2014
PROPRIETARIA E CHEF DEL RISTORANTE CLARKE’S DI LONDRA
[Intervista a Sally Clarke] –
Sally Clarke, a dicembre festeggia i 30 anni di Clarke’s, in Kensington Church Street, a Londra. Cosa è cambiato rispetto agli inizi?
«Da quando ho dodici anni sono convinta che si possa gestire un ristorante come casa propria. Scegli materie prime fresche e crei il menu. Com’è possibile che un menu molto ampio sia perfetto per originalità e qualità? Nessuno potrebbe farcela».
Perché voleva diventare una cuoca?
«Mia madre mi ha insegnato le basi; nei weekend la mia felicità era starmene in cucina quando genitori e fratelli erano in giardino o a giocare a golf. In un istituto alberghiero ho imparato i fondamenti: come pulire il bagno e fare un letto. Sulla preparazione dei cibi, invece, solo i principi base di Escoffier. Poi però sono andata a Parigi, alla scuola Le Cordon Bleu. Uno spreco di tempo, in fondo, se non fosse che mentre ero lì incontrai degli americani che mi hanno insegnato l’entusiasmo per i temi del cibo, del vino e dell’ospitalità. Sono stata presa per mano da loro e sono diventati la mia famiglia. Andavo da Berthillon per i gelati e guardavo i menu, poi al Grand Vefour al Palais Royal per vedere il signor Oliver e chiedergli consiglio; lui aveva 80 anni, parlò a suo figlio Michel che aveva il Bistrot de Paris e trovai il primo lavoro».
È così che è diventata una cuoca francese?
«Uno dei miei amici al Cordon Bleu voleva aprire un ristorante a Malibu, in California, e mi ha chiamato. Così ho lasciato Londra per Malibu. Nel 1979 tutto questo era molto emozionante perché fino a quel momento nel mondo della cucina tutto era stato borghese e francese. Quel mio amico di fatto ha inventato la cucina californiana. Durante il giorno ero in cucina e di sera al ristorante. Da lui ho imparato molto, soprattutto su cosa non fare. Lì ho conosciuto Alice Waters di Chez Panisse, a Berkeley, appena fuori San Francisco, che è diventata un mentore e un’amica. Sta da me quando viene a Londra. Lei con Carlo Petrini cerca di cambiare la visione del mondo: l’agricoltura sostenibile, l’educazione alimentare. Vuole che ogni bambino capisca da dove viene il cibo che mangia e l’arte della tavola. Porta il valore dello slow food, non del fast food».
Che tipo di cucina si trova da Clarke’s?
«Cambiamo il menù due volte al giorno, a pranzo e a cena. Quando è stagione di albicocche abbiamo solo albicocche, nelle insalate, nel Bellini, nelle marmellate; fuori stagione non le usiamo. Non useremmo mai lamponi a febbraio».
Come ha deciso di aprire un locale suo, e perché a Londra?
«Dopo quattro o cinque anni in California ho sentito che era il momento giusto per tornare a casa; era il 1983 e ho notato che a Notting Hill le case erano in ristrutturazione e c’era di nuovo un senso di positività. Avevamo un menu con quattro portate e nessuna scelta: Alice 43 anni fa a Chez Panisse mi aveva fatto capire che questa folle idea poteva funzionare».
Quali sono le quattro portate?
«Il primo e una portata principale, una selezione di formaggi e il dessert. Il menu del pranzo ha sempre una piccola scelta. La cena può essere piccione o pesce come piatto principale, con un’alternativa per le persone che soffrono di allergie o intolleranze alimentari. Nel giro di poche settimane eravamo pieni e nel 1984 avevamo già un sacco di buone recensioni».
Quali sono le sue specialità?
«Cibo di stagione dagli agricoltori britannici. Con enfasi su olio d’oliva, ortaggi, erbe aromatiche e insalate. La dieta mediterranea è sempre la migliore, anche se è di moda il cibo giapponese, quello messicano...».
Ha molte incisioni di Lucien Freud nel locale, perché?
«Veniva spesso a mangiare qui. Arrivava per colazione, quasi ogni giorno nei suoi ultimi dieci anni di vita. Prendeva pane di uva passa con una grande tazza di caffelatte o un tè Earl Grey con molto latte. Gli dicevo: “Ma è orribile”. Poi, verso la fine della sua vita, si mangiava un’intera barra di torrone artigianale. Usava la tavola come un salotto, leggeva i quotidiani prima di mettersi all’opera. Poi andava a lavorare e qualche volta si faceva vedere per pranzo all’una o all’una e mezza e mangiava sempre pesce, che è la chiave per la formazione del resto del mio menu».
Ha imparato qualcosa da lui?
«Aveva grande attenzione ai dettagli, poi è noto che ha distrutto molte opere quando pensava che non fossero abbastanza buone. Una grande lezione».
Alain Elkann, La Stampa 23/11/2014