Francesca Paci, La Stampa 23/11/2014, 23 novembre 2014
CASA, FABBRICA, JIHAD COSÌ IL CALIFFO S’INFILTRA NEL “MODELLO VENETO”
Alla fine, nella iper sorvegliata comunità islamica del Triveneto, l’unico che ammette di conoscere «il diavolo» è l’imam di Pordenone.
«L’ho incontrato nel 2013 ma la Digos era informata» racconta Ahmed Erraji. Dietro di lui i musulmani escono dalla preghiera del venerdì e si chiudono a riccio. Nessuno pare aver mai visto Bilal Bosnic, l’imam bosniaco sospettato di reclutare jihadisti italiani per l’Isis e arrestato in Serbia a settembre. Eppure, secondo gli 007, è nei pressi di questo capanno-moschea a 20 minuti dalla base Nato di Aviano che Bosnic avrebbe indotto il connazionale Ismar Mesinovic e l’amico Munifer Karamleski a lasciare il bellunese e arruolarsi col Califfato.
«È una mela marcia» taglia corto il fabbro Alì. L’aria è tesa. «Tutti sanno che lo Stato Islamico è stato creato da Usa e Israele» sibila un ragazzo prima che gli altri lo zittiscano: ad agosto Abd al Barr al Rawdhi è stato espulso per aver invocato la morte degli ebrei nella moschea di San Donà di Piave, la paura fa quaranta. Tra inchieste sul terrorismo e crisi, l’integrazione modello Nord-Est traballa.
Il Veneto non è un crocevia di jihadisti. Non lo è il nostro Paese. Ma le tracce dei 50 italiani, secondo fonti del Viminale, arruolati in Siria e dei 200 ancora indecisi portano alle città del nord e ai ridotti agglomerati di case e fabbriche non lontane dalle Dolomiti. Le indagini puntano qui. C’è un problema di concentrazione, insiste Stefano Allievi, direttore del master «Islam e Europa» dell’ateneo di Padova. Più occupazione, più stranieri, più musulmani, più potenziali devianti. Nel Veneto delle piccole e medie imprese ci sono paesi in cui i migranti superano il 20% della popolazione. Ma perché salario e relativa integrazione non immunizzano i giovani dal radicalismo? La prima tessera del puzzle è Chies d’Alpago, 70 km da Cortina, poche migliaia di anime in villette tipo quella dei Karamaleski. «Non so nulla di mio figlio, aveva la libertà, non gli mancava niente» urla papà Mustafer. La vicina sussurra che l’uomo non ragiona più da quando a dicembre il 30enne Munifer si è licenziato ed è sparito con la moglie e le 3 bimbe: «Padre e figlio sono arrivati nel 2007, gli altri dopo. Munifer parlava di Macedonia, mai di Siria». La sorella Sebil è l’ultima che l’ha sentito: in Siria.
Munifer è disperso. L’amico Ismar, partito col figlio di 3 anni, è morto a Aleppo. Rimasta sola, l’ex moglie cubana Lidia Herrera s’è trasferita dalla sorella a Ponte sulle Alpi. I condomini di via dei Martiri abbassano la voce: «Non andavano più d’accordo. Quando è sparito lei ha portato il velo ancora un po’, cercava il figlio e forse voleva far buona figura col centro islamico qua sotto...». Il centro «Assalam» è a pochi passi, una vetrina opaca dietro cui hanno pregato anche Ismar, Munifer e il convertito Pierangelo Abdessalam Pierobon, «attenzionato» dagli inquirenti ma mai indagato. All’inizio sospettato di smistare jihadisti, il centro ha firmato il «j’accuse» dell’Isis affidato 2 mesi fa al governatore dagli imam veneti.
«Quei due sono andati in Siria dai loro paesi e non da qui, il Centro non ha responsabilità» nota il fondatore Mohamed Meraga. Mostra la lista dei 40 soci in cui non compaiono né Karamelski né Mesinovic. Fino a ieri erano operai e musulmani qualsiasi: oggi sono «lupi solitari», jihadisti da pc più familiari con le teorie del qaedista al Suri sul «terrorismo individualizzato» che col Corano.
L’inferno siriano lambisce queste valli. Lo suggeriscono le indagini del Ros di Padova, le associazioni sorvegliate, il transito dei profeti d’odio da Bosnic all’italo-australiano Musa Cerantonio, le storie che s’intrecciano sul web, fuori e dentro le carceri come il Due Palazzi di Padova dove un detenuto ha appeso la foto del boia di Foley, durante corsi di arti marziali tipo il kyusho, al quale per un po’ si sono dedicati a Belluno Pierobon e gli altri due. «La maggior parte delle moschee italiane ha i giusti anticorpi per difendersi da soggetti nocivi» ripete l’esperto di terrorismo Claudio Galzerano. Il magistrato Stefano Dambruoso ammette che «la capillarizzazione del rischio lo rende più imprevedibile» ma non vuole enfatizzare la minaccia. Eppure stavolta sono anche i musulmani a sentirsi insicuri. Sarà perché il post 11 settembre 2001 ha creato diffidenza o perché diversamente dai fanatici degli Anni 90 le nuove leve pescano sotto casa, ma appena i vicini hanno iniziato a sognare la Siria i musulmani veneti sono stati tra i primi a dare l’allarme.
«Ad agosto ho riunito i centri regionali per pronunciare un sermone contro l’Isis: dobbiamo muoverci perché gli jihadisti sfruttano l’umiliazione dei giovani per il silenzio sulla Siria» racconta Amin Alahdab, architetto di Hama esule in Italia dall’84 e presidente del centro islamico di Marghera. In questa ex fabbrica dotata di barbiere, la linea è una: denunciare. Altrove si fa ma non si dice. A San Zenone degli Ezzelini, paese del trevigiano, il falegname Hassan fa notare come i controlli siano aumentati con la crescita di barbe e simpatie salafite, «soprattutto tra i macedoni». Gli immigrati della ex Jugoslavia sanno che «la pista macedone» fa tirare oggi un sospiro di sollievo agli arabi. L’edile Semir, originario delle colline intorno Sarajevo, scatta alla sola parola Isis: «I musulmani moderati che cercate eravamo noi e ci avete fatto massacrare, ora tenetevi il Califfato».
«Mentre 15 anni fa un aspirante jihadista passava per forza dalla moschea, ora ha l’iPhone e noi imam possiamo solo provare a fornire i filtri intellettuali per la Rete» ragiona il referente del dialogo inter-fedi del Consiglio Relazioni Islamiche Kamel Layachi in un bar di Cornuda, «no luogo» ideale tra casa, officina, moschea. Layachi ha guidato la moschea di San Donà e conosce il predicatore espulso: «Un ragazzo a posto, ha fatto una gaffe per inesperienza, parlava di Gaza, ma giustamente ha pagato. Il problema sono i giovani che si abbeverano al web e sognano il falso Califfato, vivono sdoppiati tra mondo reale e virtuale». Il mondo reale non è una banlieu francese ma paesi da 300 famiglie.
«In Italia la radicalizzazione è slegata dall’integrazione, non esiste l’islam delle periferie, la maggior parte dei musulmani vive in aree non urbane» ragiona Allievi. Dove abbiamo sbagliato allora? «Il richiamo dello Stato Islamico non è sociale ma psicologico, 20 anni di predicazione salafita hanno colmato l’Europa di riletture tradizionaliste dell’islam tra cui il Califfato. Ora il Califfato c’è e ha una forza simbolica enorme. La battaglia è culturale e tocca al mondo musulmano che, come il Pci con le Br, deve passare da incolpare presunti infiltrati a denunciare “i compagni che sbagliano”». Può darsi che, come ipotizza lo studioso Felice Dassetto, l’Italia abbia un doppio vantaggio, «i musulmani sono pochi e la visione della regione è meno ostile che altrove». A Padova il rapper marocchino Abdelhamid Talibi e la sorella Hindi dicono che «qui non ti senti obbligato a scegliere tra l’identità nazionale e quella islamica» e raccontano di immigrati che sostengono il sindaco leghista Bitonci, uno fiero d’ignorare il console marocchino. Ma il Califfato sta bussando.
Francesca Paci, La Stampa 23/11/2014