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 2014  novembre 23 Domenica calendario

QUANDO CAMUS NE FECE UN’ALLEGORIA DELLA GUERRA

«E chi non beve con me peste lo colga», tuonava Amedeo Nazzari nella «Cena delle beffe», il film del ‘42 tratto da un precedente dramma di Sem Benelli e ambientato nella Firenze del ’500.
Oggi la frase suona gonfia e retorica. Ma la peste, scomparsa da tempo in Europa (l’ultima epidemia fu in Russia nel 1889, per l’Italia si deve risalire al 1816), resta presente nel nostro linguaggio e nella nostra immaginazione, tanto che è stato quasi automatico definire l’Aids «la peste del 2000» e vedere in esso, diciamo da parte dei meno avveduti, un apocalittico castigo divino.
Questo, nella tradizione, è la peste, a partire dall’Iliade quando ancora non ha nome se non la generica definizione di «morbo maligno» e viene sparsa nel campo degli Atridi dalle frecce di un vendicativo Apollo, che stermina prima gli animali e poi gli uomini.
È una morte ributtante, che non conosce pietà né pudore. Distrugge il corpo e l’ordine sociale, uccide l’anima e la ragione. «Del pari con la perversità, crebbe la pazzia», commenta Manzoni nei «Promessi Sposi» raccontando la pestilenza che nel 1630 imperversò a Milano (e in tutta l’Italia del Nord). È il male assoluto, in cui Albert Camus vide nel ‘900 la più forte allegoria della guerra e del nazismo, lo sconvolgimento di ogni legge e di ogni morale. Le pesti antiche forse non corrispondevano alla malattia che è stata poi definita clinicamente; potevano essere epidemie diverse, ma tutte sono tenute insieme dal gran numero di morti e dalla sospensione dell’ordine sociale che ne consegue. Il male scompare com’è venuto, e scava un buco nella memoria o nell’inconscio. Gli effetti sono sempre gli stessi.
Il naufragio di una città possente ci viene narrato da Tucidite a proposito della peste di Atene (430 a. C.), quando si spegne ogni forma di pietà per i defunti, si accendono lotte furiose nelle famiglie per l’eredità, si smette di rispettare la legge perché non si è sicuri di sopravvivere fino al processo. La morte spaventevole e improvvisa del bue aggiogato all’aratro e il terrore del contadino ci sono stati raccontati da Ovidio, che isola in modo magistrale il momento esatto in cui cade ogni tentativo di difesa. La virtù di alcuni, che cercano di vivere sobriamente, è contrapposta da Boccaccio, nel prologo del «Decameron» (peste di Firenze, 1348), alla dissolutezza degli altri, che vanno incontro alla morte ormai inevitabile «cantando attorno e sollazzando», rubando e dedicandosi ovviamente a ogni lussuria. È un’Apocalisse irragionevole.
Daniel De Foe racconta quella di Londra (1665-1666) in modo non troppo diverso dal Manzoni: «Ladri e assassini facevano confessione dei loro crimini ad alta voce e non c’era nessuno che tale confessione raccogliesse». Manca nello scrittore britannico la fede nella Provvidenza, così forte nel Gran Lombardo. A Londra non c’è un Cardinal Borromeo. Dio ha distolto lo sguardo. E una nobildonna viene aggredita e baciata da un appestato, che la congeda verso il suo destino con una battuta ormai modernissima: «Ho la peste, bellezza. Perché non dovresti averla anche tu?».
Mario Baudino, La Stampa 23/11/2014