Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 23/11/2014, 23 novembre 2014
“ABBIAMO SMESSO DI RIDERE E IL POTERE RINGRAZIA”
[Intervista a Dario Fo] –
Senza mai avere avuto un tetto sulla testa, Dario Fo ha imparato a fare a meno delle definizioni: “Gli attori negavano che io fossi un attore e gli autori facevano lo stesso: ‘Non sei nulla più di un attore che si veste da autore’. Me ne sono fregato ed estraneo a qualunque categoria, grazie a dio, sono stato benissimo”. A un ciuffo di mesi dagli 89 anni, questo grillo parlante che frinisce al ritmo delle urgenze grandi e piccolissime: “Chiudete la finestra, non si sente nulla” non si è stancato di cantare. Scrive libri, tiene lezioni, prepara spettacoli, tiene Nobel nel cassetto. Ogni tanto, pensando al domani, declina il presente scegliendo l’imperfetto. “Ho avuto una vita stupenda” dice e lucida con accademica precisione la teca della memoria. Ricorda nomi, date e luoghi. Dipinge volti, rievoca voci, dispiega sberleffi che giullerescamente chiama “trastulli”. Mentre racconta, gode. Recita ancora. Ride: “Il bidello, un ex sollevatore di pesi, si chiamava Otello, parlava milanese stretto e somigliava a Picasso. Con alcuni amici che nella colorata Brera del Bar Jamaica mi insegnavano la vita, decidemmo di mettere in piedi una beffa memorabile. Annunciammo ai quattro venti la visita del pittore, ammantammo Otello di un impermeabile bianco alla Bogart, lo erudimmo alla buona e facemmo salire sul treno. All’arrivo, in stazione centrale, davanti ai fotografi impazziti, facemmo scudo alla celebrità agitandoci il giusto ‘fate largo, fate spazio, il maestro non vuole essere disturbato’. Otello ci seguì ripetendo in francese la frase che avevamo provato: ‘Vergogna, sciacalli, vergogna’ e allontanandosi, riapparve la sera stessa nel salone dei Filodrammatici”. In quella notte all’alba dei 50: “Tra finti imbianchini che si tiravano secchi di vernice, operai che imploravano aiuto appesi a un traliccio e vigili urbani in maschera che rombavano tra le poltrone a cavallo della loro motocicletta, trasformammo la realtà giocando con il teatro dell’assurdo. Alla presenza del vero Picasso, comunque, credettero tutti. Quando al culmine del delirio Otello salì sul palco per il suo discorso e un getto d’acqua colpì il pubblico, capì anche chi fino ad allora non aveva capito”.
Ridere è stato importante?
Ho provato a farlo anche nei momenti drammatici, a vedere il lato festoso dell’esistenza. Il risvolto gioioso delle cose. Che soddisfazione c’è a osservare incupiti la desolazione? Ho sempre preferito dare un’occasione all’ottimismo.
Le accadeva anche da ragazzo?
Sul Lago Maggiore, i pescatori coinvolgevano i ragazzi nel loro lavoro. Ripulivamo le reti dalle incostrazioni e intanto ci facevamo raccontare storie magiche. Erano vicende minime trasformate in poemi e mitologia. Pettegolezzi da tinello trasformati in affabulazioni misteriose. Erano lezioni inconsapevoli, anche. Suoni nuovi. Lingue altre. Le stesse che avevo appreso ascoltando i maestri soffiatori provenienti da mezza Europa, arrivati fortunosamente in Lombardia per lavorare il vetro. Il ceppo slavo, i dialetti della Romania, le ascendenze russe.
Come riusciva a capirli?
Studiavo i gesti, la fonetica, le somiglianze con la nostra lingua. I bambini si adattano al transito dei linguaggi e decrittano prima degli altri il significato delle parole, soprattutto di quelle nascoste. I soffiatori parlavano e con quei versi, noi impastavamo giorno e fatica con il desiderio che la narrazione non finisse più. L’abbraccio con un mondo che non conoscevo mi faceva sentire bene.
Sembra un’infanzia felice.
Lo è stata. Mi sono divertito. E l’abbrivio si è rivelato fondamentale. Mi ha permesso di essere quel che sono oggi. La teoria di Bruno Bettelheim mi ha sempre persuaso: “Di un uomo datemi i primi sette anni della sua vita, il resto tenetevelo pure”.
Ricorda i primi palcoscenici?
Ricordo che per conquistare l’attenzione bastava uno scompartimento di treno. Quando studiavo in Accademia, le carrozze diventano teatro itinerante. Andavo in scena senza preparazione e le mie ‘favole’, ai pendolari che facevano la spola tra Milano e la provincia, piacevano. C’era un casino infernale a bordo di quei vagoni. Un’allegria. Una meraviglia. Una dialettica da palcoscenico improvvisato in cui avevo un ruolo e anche un soprannome. Mi chiamavano lo smilzo. Ero alto e magro. Un giunco. Tra una stazione a l’altra, guardando oltre il finestrino, gli spettatori mi chiedevano gli strambotti e scaldavano l’atmosfera consolandosi con il vino e con gli applausi.
Beveva anche lei?
Dopo mezzo bicchiere barcollavo. Nella “carovana degli ubriachi”, come chiamavano quel treno, alzavo il gomito per esclusive necessità di mimo. Non mi fermavo mai e a casa giungevo regolarmente afono. La mia fama si diffuse a macchia d’olio. Mi invitavano a pranzo e in cambio di un piatto di minestra, come nel Medioevo con menestrelli e cantastorie, mi chiedevano di intrattenere la famiglia riunita al desco.
Ha nostalgia di quel tempo?
Dirlo è difficile. Mi manca Franca, è ovvio. Stabilire il perché è persino inutile. La nostalgia è uno strano affare. Ci sono giorni in cui, sentendo i brividi, mi pare di rivedere le dinamiche passate riproporsi identiche a ieri. E altri giorni in cui rifletto sull’ipotesi di una specularità tra epoche così lontane.
E nella riflessione cosa trova?
Siamo in un dramma osceno, adesso come 50 anni fa. Ma con meno ironia e meno levità. Prima parlavamo di quanto sia importante ridere. Ecco, oggi si ride poco. E si inventa ancora meno.
Perché?
C’è disperazione generalizzata e molto conformismo. Manca il coraggio di andare oltre la misura.
Maria Callas, sulla cui avventura lei scrisse con Franca Rame una biografia in forma di spettacolo, del superare la misura aveva fatto manifesto esistenziale.
È stata sempre una mia costante. Mia e di Franca. Lei sosteneva che all’arte servisse il coraggio di andare oltre il massimo. Se mancava quel salto, mancava tutto.
Franca aveva incontrato davvero Maria Callas.
Conoscendola molto più in profondità di quanto non avessi fatto io. Con il soprano aveva diviso il tempo nella sartoria di sua sorella Pia. Un’oasi rilassata in cui l’epopea con Onassis e Di Stefano non era all’orizzonte e dolore, amore e tormento lasciavano ancora molto spazio all’allegria.
L’incontro avviene nello stesso decennio in cui al Piccolo Teatro di Milano i suoi spettacoli iniziano
Con Parenti e Durano realizzamo Il dito nell’occhio, uno spettacolo di satira. Una pièce recitata non solo con la voce, ma con il canto e soprattutto con il corpo. Per la prima volta in Italia, si offriva un punto di vista anomalo. Durissimo. Privo di qualsiasi indulgenza. Ancora mi ricordo cosa dicevamo prima che il sipario si chiudesse.
E cosa dicevate?
“Il mondo va bene così, soprattutto per quelli a cui fa comodo”. Dopo qualche settimana di relativa pace, in ritardo, annusammo l’acre odore della censura. La presenza della Polizia in platea. Una costante dei miei anni con Franca.
Interrompevano lo spettacolo?
Gli agenti arrivavano in sala, zelanti, pronti a cogliere qualsiasi accenno di vilipendio all’autorità costituita. Ma il teatro che mettevamo in scena, non lasciava mai spazio alla sola parola e non cadeva nel tranello obbligato della nominalità. Si poteva imitare il profilo di Andreotti anche senza chiamarlo necessariamente Giulio e questa mimesi scivolosa, questa ambiguità non sanzionabile, faceva andare in bestia i gendarmi dell’ordine costituito. Quante volte li abbiamo visti uscire dalla sala esasperati, gettando i fogli in aria, sicuri nell’intimo di dover ritornare il giorno dopo perché così gli era stato ordinato.
Poi la censura arrivò davvero.
E in tempi in cui esisteva soltanto la radio e la tv era meno di un’ipotesi, ci costrinse a discostarci dai circuiti del teatro tradizionale. Fosse stato per noi, dalle sale in cui eravamo abituati a recitare, non ci saremmo mai allontanati. A un certo punto, però, ci trovammo di fronte a un muro. A una scelta obbligata.
Non vi concedevano gli spazi che chiedevate?
C’era sempre un impedimento formale, un intervento del prefetto di turno, una scusa. Gli esercenti venivano minacciati e le pressioni dei democristiani, allora onnipotenti, avevano gioco facile. Di certi argomenti, era il messaggio, non si doveva parlare. Chi tirava i fili aveva intuito che ironia e grottesco erano armi pericolose e che la gente vedendo il rovescio della medaglia, il potere in mutande e il re nudo, spesso ride. Ride, riflette sulle ragioni di quel moto spontaneo e si fa domande che non dovrebbe farsi. Quando la censura si faceva brutale, per reazione, io e Franca esageravamo. Nella decade in cui venimmo estromessi dalle sale, scrivemmo più o meno venticinque commedie. Tre all’anno, a stare stretti. Le provavamo e le realizzavamo senza neanche il tempo di pensare.
Nella “Canzonissima” del 1962, i problemi con la Rai furono insormontabili. Il 29 novembre, verso le nove di sera, viene annunciato in diretta il vostro ritiro dalla trasmissione.
Litigammo dall’inizio alla fine del programma. Il pretesto per l’estromissione fu un pezzo di satira politica. Si stava discutendo della vertenza sindacale dei lavoratori edili e il nostro sketch sul tema, fu osteggiato in ogni modo.
Ettore Bernabei, il direttore generale della Rai di allora, interrogato sul tema, sostenne che polizia e edili si affrontavano a colpi di porfido e che il suo intento fosse provocare a ogni costo.
Se provocare significa tentare di raccontare la verità, è vero, ammetto, provocavo. L’episodio in sé fu assolutamente vergognoso. Bernabei era al servizio della politica, era stato messo su quella poltrona al preciso scopo di mascherare una realtà sociale che non era certo quella idilliaca, tutta lustrini e felicità proposta dalla Rai. Ci disse una cosa tremenda, Bernabei: “Gli operai stanno facendo manifestazioni molto dure, non devono avere in alcun modo l’impressione di essere sostenuti all’esterno. Devono sapere che sono soli”. Io rimasi lontano dalla Rai per quindici anni e da allora, non nutro dubbi, non è cambiato nulla. Le morti sul lavoro si succedono una dopo l’altra. E il regime, esattamente come ieri, tacita il dissenso. Guardi l’atteggiamento del toscano nei confronti della classe operaia. Un’attitudine orrenda, spietata, priva di pudore. Vuole cancellarli gli operai. Spazzarli via.
Il toscano è Matteo Renzi?
E chi altrimenti? Se riascolto le mie canzoni di 50 anni fa, mi accorgo che il quadro sociale è la fotocopia di allora. Gli uomini compromessi, bugiardi e fedeli al sistema, dominano. I poveracci annaspano.
Pessimi i suoi rapporti anche con Il Pci.
Li facevo infuriare, i burocrati del partito. Raccontavo gli orrori che avvenivano a Est e la voragine del lavoro nero. Ero sempre fuori linea. Chi è fuori linea, in certi meccanismi strutturati, finisce per essere un nemico. Pajetta un giorno mi pregò di smetterla: “Dei nostri problemi, parliamo tra le quattro mura di casa. Portarli fuori equivale a offrire il destro ai nostri avversari”. Non sapevo se ridere o piangere.
Ebbe problemi anche al Berliner Ensemble. La figlia di Brecht contestò pubblicamente la sua lettura dell’”Opera da tre soldi”.
La figlia di Brecht, spiace dirlo, era un’imbecille. Ci impedì di andare in scena. Fu sgradevole e puerile. Niente a che vedere con sua madre, una gran donna. Se fosse stata viva la questione non si sarebbe posta.
La politica vi ha accompagnato senza requie. A causa delle vostre posizioni, negli Anni 70, arrivarono a rifiutarvi anche l’affitto di normalissimi appartamenti milanesi.
“Non possiamo né vendervelo né affittarvelo” ci dicevano dolenti: “Rischiamo che ci mettano una bomba”. Non era un’allegoria. Era accaduto davvero e in effetti, cosa avremmo potuto obiettare?
Su un lato della Palazzina Liberty, la notte del 21 dicembre 1974, un ordigno scoppiò davvero.
Era per noi e con i suoi duecento grammi di tritolo, esplose alle tre del mattino distruggendo i vetri di tutta Piazza Marinai D’Italia. Non fu strage per puro caso. All’epoca recitavamo in Non si paga, non si paga e in scena, c’era una bara. I ragazzi del servizio d’ordine, proprio per quella bara, forse in omaggio alla scaramanzia, decisero di dormire nell’ala opposta del palazzo. Non riposare vicino alle casse da morto rappresentò la loro salvezza.
E la sua salvezza dove l’ha trovata?
Consisteva nel cercare di migliorarsi. Jacques Lecoq ci aveva insegnato la differenza tra gestire e gesticolare. Quando non ero soddisfatto, montavo e rismontavo lo spettacolo, provavo a non accontentarmi, ad avvicinarmi alla perfezione. Come in certi angoli nascosti dei miei trent’anni, quando passare la notte in compagnia dei miei maestri dava il via a un’ira di dio di invenzioni e trastullo, lavorare sulle migliorie di una messa in scena teneva lontana la noia e mi dava un senso di pace. Come dicono a Milano, sono stato sempre uno “sfangone”. Lavorare mi rasserenava.
Avrebbe potuto darsi al cinema come ha fatto con il palcoscenico?
Io e Franca al cinema arrivammo in anticipo. Ne Lo svitato di Carlo Lizzani interpretavo un fattorino che sogna di diventare giornalista. La comicità era spiazzante e il pubblico, costretto a confrontarsi con riferimenti derivanti dal teatro inglese e americano, si riscoprì smarrito. Anni dopo il film diventò un piccolo cult. A volte sei intrappolato nei tuoi tempi, altre devi aspettare che il pubblico si liberi da solo.
Con “Lo svitato” la critica non fu tenera.
Su cento critici, per formazione, cultura personale ed esplorazione di universi che non si fermino alla frontiera italiana, quelli in grado di leggere le innovazioni non sono più di dieci. Capire il gusto del paradosso non è una cosa semplice. Sa chi ci riesce? Il bambino. I bambini capiscono tutto e lo capiscono prima degli altri. L’altro giorno ero in Germania. Nel silenzio, in una folla di più di cinquecento persone, la prima risata l’ha fatta un ragazzino di otto anni.
La affascina la comicità contemporanea?
Mi pare che non sia piana né rotonda. Provoca risate che somigliano agli sghignazzi delle barzellette. Una cosa diversa dalla satira.
Come convive con la vecchiaia?
Ognuno ha la sua. Sarebbe stata molto più lieta se avessi avuto Franca al mio fianco. Me la sogno. A volte, l’ultima solo pochi giorni fa, mi torna in mente. Mi consiglia, anche da lontano. Ero timido. Mi conquistò e mi tenne vicino nonostante la corteggiassero uomini di ogni risma. Gente che avrebbe avuto tutti i titoli per portarmela via. Invece rimase.
A volte litigavate.
Questioni artistiche. Eccepiva sul testo e io mi incazzavo: “Se alla critica fai seguire la soluzione aiuterai entrambi”. Aveva sempre quella giusta. I litigi non duravano mai più di un minuto e il sole si sostituiva sempre alle nuvole. Sa cosa diceva, Franca, quando un problema ci sembrava insormontabile?
Cosa diceva?
“Dario, calmati, dopotutto è solo teatro. Nient’altro che teatro”.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 23/11/2014