Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 23 Domenica calendario

LA GUERRA PRIVATA DELLA X MAS CONTRO LA MARINA BOLSCEVICA

Questa è una storia poco nota rimasta sepolta per anni nei faldoni degli archivi e nella memoria dei protagonisti. In Italia era meglio non parlarne, in Russia, dopo trent’anni di silenzio, qualcosa cominciò a emergere dopo l’arrivo di Michail Gorbaciov. Il 28 ottobre 1955, nel porto di Sebastopoli in Crimea, la più grande corazzata della flotta sovietica, Novorossiysk, è ormeggiata di fronte all’ospedale della città Ucraina. Alle ore 1.30 del 29 ottobre una spaventosa esplosione squarcia lo scafo della nave a prua, provocando un’onda d’urto talmente forte da essere registrata dalle stazioni sismiche della regione. La possente nave da battaglia batteva bandiera italiana, con il nome di Giulio Cesare, fino al 1949 quando fu ceduta ai sovietici come risarcimento di guerra secondo quanto previsto dal Trattato di Pace. Il comandante non ordina l’abbandono nave ritenendo che la consistenza del fondale e la profondità dell’acqua consentano alla corazzata di non capovolgersi, ma commette un errore fatale. Alle 4.15 il Novorossiysk sprofonda nella sabbia inabissandosi, 604 marinai sovietici perderanno la vita. Dopo la tragedia venne istituita una commissione d’inchiesta che il 17 novembre 1955 presentò le sue conclusioni al Cremlino: ad affondare il Novorossiysk fu una mina magnetica tedesca RMH sfuggita all’opera di bonifica. Furono in pochi a credere che questa fosse la vera causa della tragedia, i marinai sovietici parlarono da subito di un atto di sabotaggio.
Alcuni mesi dopo, i rilievi fotografici e le relazioni dei sommozzatori sparirono. La corazzata fu demolita e con essa cancellate per sempre le preziose prove dei fatti accaduti.
Durante la mia inchiesta Viktor Saltykov – uno degli ultimi superstiti ancora in vita – mi raccontava che a tutti loro fu imposto il silenzio assoluto. Dopo la tragedia Viktor e il suo amico Leonid Smoliakov andarono a Leningrado dove riuscirono a sopravvivere tenendo accesa una caldaia per 360 rubli al mese. Avevano grandi speranze, il comunismo prometteva loro un avvenire di benessere ma Viktor già a vent’anni non crede alle “bugie che ci vengono raccontate”. Passa il tempo e lo scenario politico cambia, con Gorbaciov arriva la glasnost. All’inizio degli anni 90 Nikolaj Cerchasin confuta per la prima volta la versione ufficiale del Cremlino. Le voci di un possibile atto di sabotaggio prendono consistenza. Quando la vicenda sembrava sepolta assieme alla nave, una clamorosa rivelazione riapre il caso. A luglio del 2013 incontro per un’intervista un ex incursore dei reparti d’assalto del gruppo Gamma della Xª Flottiglia MAS, radiotelegrafista esperto in codici cifrati, agente dei servizi segreti italiani e, dall’8 settembre del 1943, agente dei servizi segreti tedeschi (SD, Sicherheitsdienst, ndr) agli ordini di Herbert Kappler e Karl Hasse, ottimo amico di Junio Valerio Borghese. Il suo nome è Ugo D’Esposito.
Durante la conversazione rivela senza alcuna esitazione che ad affondare il Novorossiysk fu un commando della Xª MAS. Decido di pubblicare l’intervista e sulla stampa russa e ucraina si scatena il finimondo. La notizia viene battuta dalle principali agenzie russe, la tv di stato della Federazione Russa manda in onda numerosi servizi da agosto a dicembre 2013. I superstiti ancora in vita annunciano l’intenzione di portare la vicenda davanti ad un tribunale internazionale e chiedere i danni all’Italia.
Tra luglio e settembre del 2013, fase iniziale della mia inchiesta, la rivoluzione di Maidan è alle porte – giusto ieri l’altro 21 novembre ricorreva l’anniversario - e il clima che avverto intorno al mio lavoro è inquietante. Sulla stampa online giovani e giovanissimi russi e ucraini postano centinaia di commenti evocando Gulag e Siberia per “gli italiani” colpevoli della tragedia, punizioni esemplari per onorare la memoria degli “eroi” del Novorossiysk, “martiri del popolo della grande terra russa” che combatterono il “nemico americano” e i “fascisti di Mussolini”. Un armamentario lessicale che, accompagnato da stelle rosse, iconografie sovietiche e crest dell’Armata Rossa, mi ha lasciato sgomento. Roba che immaginavo sepolta sotto le macerie del Muro di Berlino, è invece vitale soprattutto tra le giovani generazioni come anche l’opinione diffusa - riportata il 21 novembre scorso dal giornalista russo Andrey Fediašin su La Voce della Russia - che sia in atto un processo di nazificazione dei centri di potere dell’Ucraina. Questo non è folklore ma residuati ideologici dati in pasto a popolazioni piuttosto disperate. Le opinioni raccolte in prima persona durante la diffusione della mia inchiesta, riflettono antichi rancori, storie di sopraffazione e violenza. Per molti cittadini dell’Ucraina, i russi sono quelli dell’Holodomor, il genocidio provocato da Stalin quando mise alla fame milioni di contadini ucraini. Per molti altri i russi sono il piccolo benessere conquistato e, soprattutto, una rassicurante identità collettiva che consente di sopravvivere alla disfatta del comunismo. Occuparsi di un fatto così tragico in questo contesto e dopo quasi sessant’anni significa avere la consapevolezza che la ricerca della verità dei fatti si scontra in primo luogo con la morte di molti dei protagonisti di quella vicenda, ma soprattutto con la reticenza o il silenzio di quelli ancora in vita, con gli insabbiamenti di Stato avvenuti sia da parte italiana che da parte sovietica. Solo alcuni dei sopravvissuti parlano, ma dicono poco e – probabilmente – non solo perché non sanno; forse hanno paura ed alcune cose non possono dirle. In questo contesto complesso è stato tuttavia possibile raccogliere testimonianze e ritrovare numerosi documenti coerenti con l’ipotesi di lavoro.
Luca Ribustini, il Fatto Quotidiano 23/11/2014