Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 23/11/2014, 23 novembre 2014
Biografia di Vittorio Gregotti raccontata da lui stesso
[Intervista a Vittorio Gregotti] –
Milano
Il successo e la fortuna sono in noi. Noi dobbiamo tenerli: con forza, profondamente”, spiega a un certo punto Tom Buddenbrook alla sorella Tony. Il padrone di casa si accomoda in una sala riunioni a due passi da Corso Magenta e dice: “Lo sa che io Thomas Mann l’ho conosciuto?”. Davanti c’è una grande porta finestra che si spalanca su un giardino, uno di quelli bellissimi che Milano ci tiene molto a nascondere, non si sa mai qualcuno scopra che non è poi così brutta. E a proposito di buona sorte, di borghesia illuminata e destini per nulla segnati, Vittorio Gregotti comincia subito spiegando la genesi del fato: “Una delle fortune della mia esistenza è stata nascere dentro una fabbrica. Mio padre era il direttore, la mia famiglia aveva fondato l’azienda, che produceva tessili, nel 1870. Sono cresciuto con gli operai: andavo in giro con loro, con loro giocavo a pallone. Mio fratello e io, ragazzini, li spiavamo quando andavano in bagno, perché andavano lì a fare l’amore. Quando ho compiuto quattordici anni mio papà mi ha mandato a lavorare come operaio da un suo socio per tre mesi. Questo ha influenzato moltissimo la mia vita: mi sono rifiutato di fare l’industriale perché ho capito subito che non era il mio mestiere. E poi ho capito lì cosa vuol dire il lavoro collettivo nei suoi aspetti positivi, quelli di contrasto: non a caso ho sempre avuto dei soci e dei collaboratori, cui devo moltissimo”.
Altre fortune?
La seconda fortuna della mia vita è stata che quando ho deciso di fare l’architetto, appena dopo la guerra, mio padre mi ha detto: “Ti mando sei mesi fuori Italia, quest’aria qui è troppo provinciale. Allora ho chiesto di andare a Parigi: non solo perché era la capitale di tutto, ma anche perché – avendo avuto una governante francese – sapevo bene la lingua. Così nel ’47 sono stato a Parigi per un po’ di mesi. Parigi è stata una rivelazione, un’epifania. Quando andavi al Deux Magots ti giravi a chiedere la zuccheriera e dietro c’era Sartre o Camus. E la cosa non finiva con lo zucchero, poi ci si metteva a chiacchierare. Ma i rapporti allora erano imparagonabili ad adesso. Avevo una grande stima e ammirazione per Fernand Léger, il pittore. Una volta sono andato a suonare alla sua porta, al 104 di boulevard de Clichy. Lui mi ha aperto, siamo stati un pomeriggio insieme a parlare. E alla fine mi ha regalato un disegno. A Parigi ho avuto anche il grande privilegio di lavorare per un po’ di tempo nello studio di Auguste Perret, l’architetto che ha ricostruito Le Havre: avevo 20 anni.
Ma poi gli studi sono a Milano.
Ho fatto l’Università qui: ci venivo da Novara col treno o con la carrozza. C’era una gran nebbia d’inverno che entrava fin dentro la stazione. Prendevo il tram con operai silenziosi, che andavano al lavoro dopo aver bevuto un “grigioverde”, una grappa con la menta. Era un mondo di fabbriche, quello che i miei i compagni, molti dei quali iscritti al Pci, non sapevano cosa fosse. Il mio primo amico di quei tempi fu Emilio Tadini: lui mi presentò Elio Vittorini, circostanza che aumentò le mie pretese da intellettuale. Ho sempre avuto una grande passione per la musica e per la letteratura. Gli amici della vita sono stati in gran parte scrittori.
Per esempio?
Ne cito alcuni: Montale, Gadda, Moravia, Parise, Tabucchi, Garcìa Marquez. Comunque il vantaggio di essere a Milano alla fine degli Anni Quaranta, era anche poter andare in Piazza Cavour. Davanti al Palazzo dei giornali c’era un edificio che era stato bombardato e sopra era stata aperta un’osteria, dove andavano naturalmente tutti i giornalisti. Ci andavo anch’io: è lì che ho conosciuto per esempio Giorgio Bocca. Era piemontese, come me: anzi, più di me. Siamo stati amici fraterni per tutta la vita, abitava qui vicino e ogni tanto o veniva lui a mangiare o andavo io. L’ultima volta è stato poco prima che se ne andasse.
Il primo impiego?
Al terzo anno di Università – ero compagno di scuola di Gae Aulenti con cui saremmo stati amici tutta la vita – mi sono reso conto che ero un po’ deluso e i professori mi sembravano di scarsa qualità, a parte Muzio. Così ho deciso di andare a lavorare da Belgiojoso, Peressutti e Rogers, il mitico studio BBPR. Ernesto Rogers è stato il mio grande maestro: un uomo interessantissimo, un incontro capitale per me. La generazione prima della mia, quelli nati all’alba del Novecento, era una generazioni di artisti nel senso più tradizionale del termine. Mentre Rogers era nato a Trieste, da una famiglia colta, sapeva, oltre all’italiano, il tedesco, il francese, l’inglese e un po’ di spagnolo. Suo padre era stato amico di Joyce. La passione, oltre che per la teoria dell’architettura, anche per le altre arti mi è venuta da lui. Questa è forse anche una delle ragioni per cui mi sono sempre interessato di pittura e alla fine sono diventato anche direttore della Biennale di Venezia. In quell’occasione ho inventato la “Biennale di Architettura”.
Poi ha ripreso l’Università.
Naturalmente: mi sono laureato nel ’52. Un anno prima ero andato al convegno del Comité International pur l’Architecture moderne, che quell’anno si teneva in Inghilterra, a Hoddesdon. Un episodio importante perché lì ho incontrato tutti i grandi maestri del Moderno: Le Corbusier, Gropius, Wells Coates, Giedion, Over Arup, che suonava meravigliosamente la fisarmonica! Mangiavo con loro, l’ultimo che stava sulla tavola serviva gli altri. Per Le Corbusier ho organizzato poi la prima mostra di tempere nella libreria di Feltrinelli a Milano.
E Giangiacomo lo conosceva?
Come no! Benissimo, andavamo in barca insieme: ho conosciuto tre delle sue mogli, compresa Inge naturalmente. Negli ultimi era diventato un po’ troppo bizzarro. La mattina della sua morte mi ha telefonato Camilla Cederna: era sicura che fosse stato un attentato. Io non lo so, può darsi che sia stato un tentativo maldestro finito male. Aveva delle forme di grande ingenuità: ricordo che qualche mese prima mi aveva mostrato una sua idea di uniformi che voleva fornire agli indipendentisti sardi. Tutto questo non cancella i suoi molti meriti, tra cui la scelta di avviare un’impresa editoriale di prim’ordine. Lui era ricco di famiglia, d’accordo. Ma è stato coraggioso, non era così semplice; a rappresentare la sinistra c’era un editore come Giulio Einaudi. Anche lui era un personaggio piuttosto bizzarro. Con Giulio andavamo in montagna e lui pretendeva di spiegare ai maestri di sci come dovevano insegnare. Faceva discorsi sul metodo a questi che lo guardavano sconvolti!
Torniamo a Hoddeston.
Questo convegno aveva come tema il rapporto di compatibilità tra le metodologie del moderno e le questioni poste dalla storia e dai contesti fisici e culturali dei luoghi. L’architettura moderna era nata in contrapposizione con la storia, ma ci si rendeva conto che la storia era il terreno su cui si doveva lavorare ma che ci lasciava liberi di scegliere la direzione da assumere. La mia generazione è stata molto influenzata da questa idea, pur con interpretazioni tra loro diversissime. Il problema della ricostruzione in Europa era legatissimo alla storia, i monumenti erano importanti per la relazione con il passato e la tradizione. Si poneva la questione di come rendere compatibile il nuovo con il passato. Poi nel ’52 cominciò a lavorare con due amici: uno non c’è più e l’altro è in pensione. Come del resto dovrei essere io. Non mi chieda perché non lo faccio, già lo fa spesso mia moglie
Lei ha lavorato moltissimo fuori dall’Italia.
In Cina, Nord Africa, Francia, Spagna, Stati Uniti. Oggi, assai di più che negli anni 60/80 la misura della decadenza italiana, si sente molto. La paralisi, per quanto riguarda l’architettura, non è solo una paralisi pratica, è una paralisi di fondamenti e di intenzionalità.
Abbiamo perso la capacità di elaborare discorsi critici?
Sono convinto che il grosso problema sia il passaggio dall’età dell’industria – con tutte le sue difficoltà e contraddizioni – all’epoca attuale, del globalismo finanziario. Un passaggio non ancora consumato, di difficile comprensione. Oggi ci troviamo in una condizione di assoluta barbarie nei confronti del mito della tecnologia che sembra essere l’unico contenuto di futuro. Anche i media hanno un grosso ruolo: abbiamo reso talmente mitiche le strutture della comunicazione da confondere i mezzi con i fini.
Una volta ha detto: “Oggi ha successo soltanto lo showman: l’artista è più importante delle cose che fa e le opere si sono trasformate in eventi”.
Chi come me ha a che fare con l’arte, si trova continuamente a doversi confrontare con il capitalismo della visibilità e della provvisorietà. Mi sembra che anche le archistar di successo mediatico ne siano convinti.
Il professor Severino dice che la tecnica è l’ultimo Dio occidentale.
Ci vorrà molto tempo prima che i processi di avanzamento della tecnologia non siano più miti, ma esclusivamente mezzi. La globalizzazione è il nuovo colonialismo: sarà banale, ma ne sono convintissimo.
Forse non abbiamo più anticorpi, non abbiamo più strumenti per difenderci.
La formazione, a tutti i livelli, è diventata puramente strumentale alle ragioni dell’economia. In realtà tutti i miei allievi migliori avevano fatto studi umanistici. L’architettura si fonda sul rapporto dialettico tra eteronomia e autonomia. Cioè non può dimenticare a cosa serve, la destinazione che ha, ma ha diritto di esprimersi liberamente nell’interpretare i suoi contenuti. Nella scrittura questo carattere non c’è. Lo dico perché sono da sempre un accanito lettore di libri: ne ho tre sul comodino, sempre. Un romanzo, un saggio e un classico. Una volta mi sembrava un dovere terminare un romanzo: oggi però se non mi piace dopo venti pagine, lo abbandono. E ne chiudo tantissimi ormai.
Perché? Sembrano quasi tutti scritti per fare dei film.
Non è più tempo per I Buddenbrook... Sa che ho conosciuto Thomas Mann? È venuto in Italia nel 1953. Io ero molto amico di Enzo Paci. Un giorno eravamo insieme a Casabella, rivista con la quale ho a lungo collaborato. A un certo punto mi dice: scusa, ti devo salutare. Ho un appuntamento con Thomas Mann al bar di fianco alla Scala. Io ho fatto finta di niente e dieci minuti dopo sono andato al Biffi. E così gli ho stretto la mano. L’ho trovato molto simile a Walter Gropius: avevano entrambi un interesse vivissimo per il prossimo, ti sembrava di essere l’unica persona al mondo con cui volevano parlare. Conoscere Mann mi ha fatto molto effetto, perché per me I Buddenbrook è stato un libro fondamentale. Se avessi conosciuto Joyce sarebbe stato diverso, nonostante l’importanza dell’Ulisse, che ha rappresentato un capovolgimento radicale da cui dipende tutto quello che viene dopo. Ma con I Buddenbrook scattava un meccanismo d’identificazione molto forte, c’era il mondo dell’industria nel quale mi specchiavo.
Lei è stato anche professore universitario: a Milano prima e a Venezia poi.
E non dimentichiamo Palermo, dove sono andato nel 1967. Ho ringraziato il mio Dio di essere andato a Palermo perché se non si lavora nel Sud non si comprende veramente l’Italia.
Rifarebbe lo Zen sapendo come è finita?
Il progetto dello Zen è stato molto importante nella mia vita. Come disgrazia intanto: peggio di così non poteva andare. E anche perché ho scoperto di avere profonde ingenuità nei confronti del Sud. Non avevo capito cos’era, come si muoveva, quali reti tesseva la mafia. Ricordo le discussioni sul quartiere in Consiglio comunale, quando c’era Vito Ciancimino sindaco. Era straordinario, un attore consumato: si metteva sotto il tavolo, oppure ci saliva sopra. Cantava, faceva cose da matti. Tutto questo perché due fazioni – una era sostenuta da lui – litigavano per gli appalti dello Zen. Non si sono messi d’accordo e questa è stata la sventura: il quartiere si è fermato tutto a un quarto del progetto. Non sono mai stati realizzati i servizi, mai portate le piccole aziende che avrebbero dovuto trovare posto lì. Sono stati vent’anni senza acqua, luce e gas. Ancora oggi un solo isolato è abitato dalle persone che ne avevano diritto, tutti gli altri sono stati cacciati e al loro posto hanno trovato alloggio persone indicate dalla mafia.
E l’Università della Calabria?
Ho progettato Arcavacata di Rende, a metà degli Anni Settanta, e c’erano Nino Andreatta e Paolo Sylos Labini: quando se ne sono andati si è bloccato tutto. C’era un’area di 780 ettari, la decisione era di non superare 12mila studenti. Ora l’area è di 200 ettari, pure un po’ contaminati, e gli studenti sono diventati 30mila. Ma è stata la mia esperienza progettuale più importante per quanto riguarda la relazione tra architettura e antropogeografia.
Cos’è la bellezza?
Il bello è la luce del vero, dicevano i greci. È l’interpretazione che un artista dà delle contraddizioni dentro alle quali vive e del modo di superarle. Il vero è un vero storico, non metafisico.
La fama di Milano città brutta è ingenerosa?
Bè, bella non è. Però a me piace. Milano ha conservato la voglia del fare. Anche se ha perso molto con la disgregazione del mondo industriale: ormai è una città fondata sulle attività finanziarie.
Il nuovo quartiere a Porta Garibaldi è bello?
Non rappresenta certo la luce del vero. È una trasposizione di carattere neocoloniale: l’hanno costruito e finanziato gli americani. Non ce l’ho con gli americani, ma con il loro colonialismo sì. E ancor di più con quelli che lo accettano acriticamente. Quando ho visto il progetto ho detto: tagliate tutti i grattacieli, lasciate quattro piani e la piazza.
Abbiamo perso il sentimento della bellezza?
Non è questione di perdita. È il cambiamento incessante che la caratterizza. Oggi poi la bellezza è provvisoria, è legata alla moda, alla sensibilità del tempo.
Parliamo di politica: cosa pensa della nuova sinistra di Renzi?
Ma quale sinistra? (silenzio)
Vabbè loro si definiscono di sinistra.
Senta: è giusto che ci siano persone giovani, energiche. È giusta la voglia di cambiamento. Ma è un desiderio velleitario, se non riesce a operare concretamente sulle trasformazioni, e soprattutto non dà prospettive di lungo termine intorno all’idea di società altra. Ho conosciuto a Palermo Enrico Berlinguer. Era un uomo notevole, aveva un rapporto critico e consapevole con la realtà, ma anche con la necessità di ideali durevoli.
Lei si sente ancora di sinistra?
La parola sinistra è diventata davvero sinistra. È comunque necessaria l’attitudine di mettere in discussione le contraddizioni del presente e di pensare che i valori dell’essere siano più durevoli.
Quali valori?
Non mi faccia fare il filosofo, io faccio il muratore.
Muratore no!
Intendo: non guardo mai le questioni dell’architettura in modo astratto. Penso al fare, non al guardare. Ho interesse alla prassi, assai più che al giudizio estetico.
La sua generazione che eredità ha lasciato?
Non posso rispondere senza essere sospettato per questioni anagrafiche: ho 87 anni. Penso che vivere sulla memoria del passato sia un errore che impedisce di comprendere le cose dell’oggi. Al tempo stesso diffido di questa mania. Facciamo il caso della musica: se lei guarda un concerto di musica popolare si rende conto della molteplicità di fattori: luci, folla, coreografie, gridolini, flash. Un’esecuzione di musica classica è molto più semplice: c’è l’orchestra, il pubblico ascolta e alla fine applaude o fischia. Per dire: le messe in scena non mi convincono.
Forse tutto questo serve a distrarre.
Ma l’arte non serve a distrarre, serve a capire il profondo nascosto.
Parlavamo di politica. A proposito: Berlusconi è stato per vent’anni il dominus della politica italiana. Però è anche l’imprenditore che negli Anni Settanta ha progettato un quartiere di Milano con un’dea molto chiara...
...L’idea molto chiara ce l’avevano gli architetti che l’hanno progettato, e lui l’ha tradita. L’idea chiara era un’articolazione diversa del modo di produrre la periferia urbana. La sua idea era fare un recinto nel quale chiudere un ceto sociale e tener fuori tutti gli altri.
Di lui come politico cosa pensa?
Le disgrazie capitano a tutti i popoli. Berlusconi però ha un’enorme responsabilità morale. Il suo odio per la cultura è evidente. E poi uno che dice “le tasse si possono anche non pagare” o che un mafioso è un eroe, è un corruttore di cittadini. Gli italiani hanno il mito dei soldi e del successo. Ma i soldi sono uno strumento non un valore in sé.
Il problema della corruzione sembra irrisolvibile.
È aumentata tantissimo dopo la guerra, prima non era così endemica. Lavorando con le amministrazioni me ne sono accorto, eccome. E ora: guardiamo cos’è successo col Mose a Venezia.
Perché non si percepisce il danno economico della corruzione, specie in un momento di crisi come quello attuale?
Ribadisco: siamo stati guastati da vent’anni di berlusconismo. Lui ha rappresentato l’antipolitica per eccellenza. Politica come la intendeva per esempio Bobbio.
Ecco: la fiducia dei cittadini nella politica è ai minimi storici.
Infatti: il 41 per cento che Renzi sbandiera tanto è il 41 per cento del 50 per cento, per via dell’astensione. Va bene: varrà la realpolitik, ma il tema della rappresentanza esiste.
Chi vede come successore di Napolitano?
Non ho mai capito perché il Pd non ha votato Stefano Rodotà. E nemmeno perché Repubblica era così contraria all’ipotesi. Vedrei lui: credo che le sue “intransigenze costituzionali” siano giustificate dai tempi. Un altro è certamente Walter Veltroni.
L’anno che verrà è quello dell’Expo di Milano.
L’idea stessa di Expo è oggi una truffa culturale, non serve a niente. Può forse servire ai Paesi in via di sviluppo. È una cosa che non ha più storicamente senso. Non c’è nessuna novità da scoprire visti i nuovi mezzi di comunicazione. Milano non è certo una città di grande attrattività turistica. Ho lavorato a quella che avrebbe dovuto essere l’Expo di Parigi nel 1989. A un certo punto Mitterand ha telefonato: “Costa troppo, non se ne fa più nulla”. E ha messo giù il telefono. Ho vinto il progetto generale di Siviglia, poi la realizzazione è stata affidata agli americani: è stata un’esibizione inutile, come tutte le Expo europee recenti. Hanno tutte solo perso soldi. E temo sarà così anche per Milano.
@silviatruzzi1
Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 23/11/2014