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 2014  novembre 23 Domenica calendario

MASSIMO L. SALVADORI “SOLO OGGI SONO RIUSCITO A FARE PACE CON LA DONNA CHE MI MISE AL MONDO”

[Intervista] –
All’improvviso Massimo Salvadori estrae una scatola di sigari. Finalmente si concede una fumata. Sono trascorse alcune ore da quando c’eravamo dati appuntamento nella stazione di Milano. Volevo sollecitarlo sulla sua vita. Scavare nel suo passato. Capire perché uno storico di solito calmo e distaccato abbia deciso di raccontarsi in maniera impietosa in un libretto (Cinque minuti prima delle nove, edito da Claudiana) che, senza pretese narrative, ha il profumo dell’onestà e la forza irresistibile di una valanga. Ero stupito. Di lui. Del libro. Dal serafico personaggio che si trasforma nel più ardito fra i trapezisti: volteggia senza rete, indifferente alle vertigini che le parole raccolte procureranno a lui e agli altri.
Qualche ora prima era ad attendermi al binario. Un uomo di una eleganza tradizionale che, dati i tempi sbadatamente originali, si potrebbe definire scontata. Il borsello che stringe in una mano mi appare come un’appendice involontariamente provocatoria. Inattuale. Un capro espiatorio di anni lontani e ormai sepolti. Mi attardo a pensare che questo signore di 78 anni ha più vie di entrata che di uscita e che per troppo tempo ha lasciato che le cose seguissero il loro corso spontaneo. Poi la decisione di tirare fuori dal cassetto quel libro, a un tempo impietoso e tenero.
Perché?
«Un’insegnante, amica carissima — che in un periodo brutto dell’adolescenza mi strappò al caos — ha detto: Massimo sei ormai vecchio. Puoi fare ciò che vuoi. Pubblicalo».
Emerge soprattutto la figura di sua madre. Che donna è stata?
«Ha condizionato la mia vita, quella di mio fratello e delle mie due sorelle».
Come hanno reagito a questa sua testimonianza?
«Sono tutti morti. Non farò loro del male, ammesso che le cose che ho scritto possano ancora ferire o urtare».
Si può parlare di un’infanzia molto difficile. Da dove comincerebbe?
«Dalla morte di mio padre. Avevo cinque anni. La ditta per la quale lavorava ci mise a disposizione una macchina che da Torre Pellice, dove vivevamo, ci condusse all’ospedale delle Molinette a Torino. Fu un incontro straziante. Papà ci abbracciò e scoppiò a piangere. Fu il commiato. L’addio».
Anche nel libro lei parla della “Ditta” senza specificare oltre. Ha un nome?
«Ce l’ha. Nel libro avevo volutamente omesso riferimenti anche personali. La ditta è l’Olivetti dove mio padre era impiegato».
Cosa accadde quando lui morì?
«Mia madre non era in grado di occuparsi della nostra educazione. La ditta scelse per me e mio fratello un convitto dove farci studiare. Erano gli anni della guerra».
Dunque duri.
«Sì. Vivevamo in un edificio molto grande. Un orto provvedeva alla nostra alimentazione. La disciplina ferrea. La sera il direttore — un fanatico calvinista — ci leggeva passi della Bibbia. Crebbi con un forte senso della religione. Ma anche con lo sgomento di un bambino cui non era stata data alcuna alternativa».
Quanto restò nel convitto?
«Abbastanza. Il direttore, a un certo punto, scrisse una lettera, indirizzata al nuovo marito di mia madre, nella quale lo informava che l’autorità germanica non intendeva più tenere i bambini. Ci trasferirono in un orfanotrofio».
Non era più semplice, visto che sua madre si era risposata, tornare in famiglia?
«Avremmo dovuto smettere di studiare. Mia madre non era in grado di provvedere e il patrigno non manifestava nessun interesse né doveri nei nostri riguardi. Era un uomo meschino, frustrato, gretto».
Perché lo sposò?
«È un mistero. Sospetto che volesse qualcuno sottomano da maltrattare. Più di una volta la sentii insultarlo. Accadeva che di fronte a degli estranei dicesse con sarcasmo: si è presa una vedova con quattro figli e senza un soldo, solo per stare dentro casa, al calduccio».
Era molto umiliante. Di cosa si occupava il suo patrigno?
«Era laureato in lettere e la mamma sperava che, prima o poi, trovasse un posto da insegnante. Quanto a lei, per mantenersi, si era decisa a fare l’affittacamere. Trasformò la grande casa dove abitava in una specie di alberghetto».
Un altro forse avrebbe provato a cancellarla. Cosa trova di speciale in questa donna?
«Fu un rapporto difficilissimo. Per un verso motivo di disagio e sofferenza. Ma per un altro di ammirazione».
Ammirazione?
«Sì, ammirazione per una donna coraggiosissima. Figlia di contadini cattolici, non era andata oltre la terza elementare. Eppure parlava e scriveva benissimo. C’è un episodio che rivelò il suo carattere. La ditta, cioè la famiglia Olivetti, le chiese di nascondere una coppia di ebrei. Accettò. Ma dopo qualche settimana accadde che un giovane repubblichino, fanatico come pochi, le chiese di consegnargli i due vecchi ebrei».
Sua madre come reagì?
«Dapprima negò che in casa tenesse nascosti dei clandestini. L’altro insisteva e minacciò che l’avrebbe denunciata. La mamma interruppe la discussione. Si allontanò per un momento. Poi tornò. Estrasse dal grembiule un coltellaccio e lo puntò sulla pancia del repubblichino. “Prova a denunciarmi e te lo pianto nelle budella. E se non ci riesco io lo faranno i partigiani”. La sua durezza e la determinazione mi impressionarono. L’altro ripiegò spaventato».
Che ne fu dei due ebrei?
«Qualche giorno dopo giunse una macchina che li portò via. Non ho mai saputo verso quale destino».
Aveva una qualche consapevolezza di ciò che stava accadendo agli ebrei?
«No, sapevo che stavano succedendo delle cose brutte, ma non imputavo i motivi alla condanna e alla persecuzione di un popolo. Avvertivo, questo sì, certe ingiustizie di cui non capivo la ragione».
Ingiustizie personali?
«Vissute personalmente. Durante le elementari strinsi amicizia con un bambino della mia stessa classe. Eravamo i due più bravi. Ci contendevamo gli elogi della maestra. Senza rivalità. Con affetto e stima. Quando finì il ciclo scolastico io passai alla scuola media e seppi che Vincenzo, era il suo nome, non sarebbe più andato a scuola. Ricordo che mi precipitai a casa della madre. La implorai che facesse di tutto per farlo continuare. Mi rispose che Vincenzo non poteva più essere mantenuto e doveva andare a lavorare. Fu in quel preciso momento che compresi cos’era l’ingiustizia».
Ha più avuto notizia di Vincenzo?
«No, perso completamente. Ho anche provato a cercarlo. Resta un vuoto. Ad ogni modo quel trauma contribuì a cambiarmi. Affrontai il nuovo corso scolastico contro voglia. Da quel bambino perfetto che ero, mi trasformai. Non mostravo più alcun interesse per la scuola. Mi rifugiavo nei fumetti e nei libri di avventura. Non parlavo con nessuno. Ero chiuso in me. In un preoccupante autismo».
Forse era solo il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza.
«C’era indubbiamente quello che a me parve l’insopportabile fine di un mondo di sogni. Anche se quei sogni erano stati spesso turbati dalla ferocia della realtà».
Come ne è uscito fuori?
«Per pura fortuna, o casualità. Incontrando sia alle medie che al liceo alcune persone giuste. Persone straordinarie senza le quali non ce l’avrei fatta. Ad ogni modo, quando finì la guerra tornammo a studiare al convitto».
Quanto tempo ha trascorso in quei luoghi lontano da casa?
«Dall’età di cinque a diciassette anni. Alla fine del liceo la ditta ci avvertì che il suo impegno finanziario era da considerare concluso. Nel frattempo si pose il problema di cosa scegliere all’università. Mia madre voleva che facessi legge. Le dissi che era una facoltà che non mi apparteneva. Mi iscrissi a lettere e filosofia».
Come reagì?
«Ovviamente malissimo. Era molto delusa. Dalle figlie, da me. Meno da mio fratello. Ma su di me aveva puntato molto. Questa è una famiglia di incapaci, il vostro sangue non è buono, disse. Con una veemenza e un disprezzo che le si leggeva sul volto. Poi aggiunse: non dovreste fare figli. Verrebbero come voi. Manifestò così la sua delusione».
In questo contesto drammatico lei è riuscito a sopravvivere e a fare la sua strada diventando uno tra gli storici più accreditati. Chi sono stati i suoi maestri?
«Due in particolare: Walter Maturi con cui mi sono laureato e Federico Chabod. Purtroppo entrambi morirono prematuramente».
Perché ha scelto di essere soprattutto uno storico della contemporaneità?
«Perché negli anni del liceo, e forse già prima, scoprii il valore della politica. Le due esperienze hanno camminato insieme».
La politica fu per lei all’inizio un modo di confrontarsi e identificarsi con chi o cosa?
«All’inizio con il Partito comunista. Fu il figlio del direttore del convitto a farmi da mentore politico. Tanto era religiosamente fanatico il padre, quanto lo fu lui nelle sue scelte staliniste. Dal partito uscii nel 1956. Come tanti altri».
Ma quel legame con il Pci era anche il bisogno di riempire un vuoto affettivo?
«Intende dire per tutte le complicazioni che il rapporto con mia madre aveva prodotto?».
Sì.
«Non penso che ci sia una relazione. La mia adesione maturò nell’idea che occorresse vivere in un mondo più giusto. Ma non ho mai avuto un rapporto fideistico. Non ho mai cercato nel Pci una chiesa rassicurante. Nonostante ciò resto uno storico di sinistra».
Cosa vuol dire?
«Significa non perdere il rispetto di sé, delle cose che si sono fatte con lealtà, anche ammettendo gli errori compiuti. Mi sono occupato di Gramsci, di Kautsky e della socialdemocrazia. Ho scritto una storia del pensiero comunista cercando di capire ciò che ero stato e le ragioni della mia parabola politica».
Non sente di essere finito in un vicolo cieco?
«Separerei quella che può essere una sconfitta personale da una sconfitta epocale. Il comunismo ha fallito. Ed è una sentenza senza appello. Per quanto mi riguarda ho il rammarico di aver compreso tardi certi valori della cultura liberale».
Tornerei al suo racconto di formazione. Perché ha deciso di mettersi così a nudo?
«Volevo raccontare delle cose che mi parevano poco credibili. C’è un sogno che ancora, qualche volta, faccio. Mio padre muore e va all’inferno. È un angoscia che mi porto dentro».
Come si chiamava suo padre?
«Giulio e mia madre Francesca».
E Francesca amava Giulio?
«A modo suo penso di sì. Una volta la sentii dire rivolta al patrigno: mica come te, con Giulio sì che facevo la mia grande figura!».
Quando è morta?
«Era nata nel 1906. Morì nel 1970. Negli ultimi anni si era chiusa in un isolamento assoluto. Quando stette davvero male il patrigno avvertì me e mio fratello. Ci precipitammo in ospedale. Vedemmo questa donna orgogliosa, dura, malandata che ci scrutava con ironia. Cominciò a dire: a me non importa di morire e adesso vi pianto in asso. Cominciò a scherzare sulla morte con battute esilaranti. E noi prendemmo a ridere. Sempre più forte. Come se la tensione si stesse sciogliendo. Arrivò il medico. Guardò la scena con raccapriccio, poi esclamò: due figli, due delinquenti come voi, non li ho mai incontrati. Ero spiazzato dallo stupore. Mio fratello ebbe solo il tempo di replicare: lei non può capire. L’altro sbatté la porta».
Chi è oggi Massimo Salvadori?
«Un uomo che ha cercato da solo di andare al fondo della sua personalità. Che si è formata troppo rapidamente. E nel tempo è restata sempre la stessa».
Come se non fosse mai cresciuto?
«La mia crescita è avvenuta in un attimo. Congelata per lungo tempo in un senso di estraneità che ho faticato a rompere. E se ci sono riuscito è stato grazie ad alcune persone straordinarie e a mia moglie Edda».
Ha avuto un’educazione fortemente religiosa. Cosa le è rimasto?
«Tutto ciò che è imposto non può durare. Non sono più credente. Diciamo che mi rifaccio al De Rerum Natura di Lucrezio».
Un pacato materialismo.
«Già. Per lunghi anni non sono riuscito a tornare nei posti della mia infanzia. A Torre Pellice. Luogo di glorie valdesi. Solo da vecchio ho riscoperto l’importanza di quelle storie, di quei personaggi, di quella dignità. È stato improvvisamente un diverso sentire. È come se tutta la pietas che era stata dissipata tornasse con forza. È un sentimento di pathos che oggi provo. Meno estraneo alla vita. Meno immobile. Riconoscente. Pacificato. Anche con la donna che mi ha messo al mondo».
Antonio Gnoli, la Repubblica 23/11/2014