Luca Valtorta, la Repubblica 23/11/2014, 23 novembre 2014
ELIO E LE STORIE TESE
MILANO
Milano è allagata. Nello studio di registrazione Jantoman traffica con le tastiere. Civas controlla il Lambro. Meyer è sparito. Rocco Tanica (da Roma) assicura che “Sanremo non è tutto un magna magna”.
Faso ricorda i primi concerti “pagati con una birra e una pizza (piccola però)”. E Elio, deus ex machina, tenta invano di ricordare come nacque il nome del gruppo più stralunato d’Italia: “Politecnico, lezione di analisi, avremo avuto tra i venti e i trent’anni, l’età in cui i genitori vogliono che tu vada a lavorare....”
Flashback. Il pianoforte di Rocco Tanica galleggia. Quello su cui da bambino suonava quando Elio veniva a casa sua a trovare il fratello maggiore Marco, suo compagno di classe. L’acqua del Seveso è entrata nella casa dei genitori e non ha risparmiato neanche quello, la cosa a cui teneva di più. Piove. Piove. Piove. Spacciatori di ombrelli abusivi (coro: “Italia sì, Italia no”) attendono festanti i disgraziati che escono dalla metropolitana di Piazza Udine, Lambrate. Breve tragitto in macchina, palazzina gialla tra officine e sfasciacarrozze, citofonare Ukapan. «Ieri siamo stati tutto il tempo a guardare fuori dalla finestra: se il livello del Lambro si alza ancora siamo fottuti anche qui in studio », dice Davide Civaschi, chitarrista di pregio, che gli affezionati conoscono come Civas o Cesareo. Siamo nel cuore del potente impero di Elio e le Storie Tese, la loro etichetta/studio Ukapan: «Il nome viene da Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu, il nostro primo album», spiega Elio (all’anagrafe Stefano Belisari), «abbiamo sempre fatto titoli semplici perché aiuta a vendere dischi». Dentro la palazzina solo cose essenziali: i trofei, le spade jedi di Star Wars che si illuminano e fanno rumore quando si toccano durante la battaglia, il tavolo del Subbuteo, le sale prove e di registrazione e poi la stanza per «raccogliere le idee» piena di computer e la sala “vulves” dove stanno Chiara e Cristina, le sacre vestali che custodiscono i più reconditi segreti del “complesso misterioso”. Ovvero quello strano oggetto caduto nel nostro paese che dai primi anni ’80 riesce a prendere per i fondelli gli italiani e i loro luoghi comuni colpendo senza pietà a destra e a sinistra, triturando l’odiata disco music ma anche gli stereotipi dell’amato rock, le icone nazionalpopolari ma anche il concertone del Primo Maggio, i “bellimbusti” figli del berlusconismo e i bonghisti fricchettoni del Parco Sempione, hippie degenerati fuori tempo massimo «e fuori tempo proprio nel senso che, come dice la canzone, sono totalmente incapaci di andare a tempo», chiosa Faso (al secolo Nicola Fasani). Sono anche ecologisti (hanno fatto una lunga, infruttuosa lotta per salvare dalla speculazione il “bosco di Gioia” nel cuore di Milano) e a loro modo impegnati e idealisti: «Le ragazze dello studio per un bel po’ continuavano a girarci inviti per eventi mondani a cui nessuno ha mai risposto finché si sono rassegnate: nonostante quello che può sembrare, incredibilmente non siamo un gruppo trendy», dice Faso. Christian Meyer (il batterista) non si sa dove sia, mentre Jantoman (ovvero Antonello Aguzzi, tastiere) è indaffarato in studio. Il “pianolista” Rocco Tanica (“detto Sergio Conforti ma non sveleremo perché”, ridono) lo incontrerò al mio ritorno a Roma: «Faccio parte della commissione che sceglie le canzoni per Sanremo: ne abbiamo ascoltate seicentocinquanta e posso assicurare che non è tutto un magna magna come vorrebbe la vulgata popolare a volte avvalorata anche da noi».
Ogni artista ha il suo stile: i rapper vestono firmatissimo con orride catene d’oro, le rockstar amano i giubbotti di pelle e gli occhiali scuri che, come cantava Battiato, conferiscono “carisma e sintomatico mistero”, gli Elii per restare fedeli al loro mito vestono invece scazzatissime felpe, maglioni fuori moda, jeans sconosciuti, giubbotti e camicie dai colori improbabili. Come non amarli anche solo per questo? Cerchiamo verità su alcuni fatti che restano dubbi. Per esempio, esiste una data di nascita ufficiale? «Esisterebbe ma è stata tramandata solo oralmente e quindi nessuno se la ricorda più» dice Elio con aria rassegnata. «Comunque la prima esibizione, ce l’ho in mente perché c’ero solo io, è stata a un Festival dei Caf a Milano», ci tiene a precisare. I Caf, ovvero Comitati antifascisti? «Sì, naturalmente quando lo dissi ai tempi, un tuo collega scrisse “al festival dei Comitati Fascisti” procurandoci non pochi problemi». Data? «Sarà stato il 1980, eravamo un trio e io ero allora ero chitarrista- cantante. Gli altri elementi sono conosciuti solo ai nostri fedelissimi: Zuffellato alla batteria e Cortellino al basso, sua unica esibizione. Era una cosa nata sui banchi di scuola: nella mia classe c’erano Mangoni (il supergiovane, personaggio delirante e stonatissimo che impreziosisce le esibizioni degli Elii e che nella vita fa l’architetto di grido, ndr) e Marco Conforti, fratello maggiore di Tanica, che quando andavo a casa sua suonava sempre il pianoforte». Quello che ora galleggia. E Davide/ Cesareo? «Suonavo in un altro gruppo ma Elio mi ha chiamato come guest star per un assolo di chitarra in una cover di Flashdance ». Da lì non si è più mosso. I riferimenti musicali erano già altissimi: Flashdance, Ramaya, Born To Be Alive... Ancora Elio: «Mi sono diplomato in flauto traverso alla scuola civica, poi mi sono iscritto a ingegneria. Il nome del gruppo è nato durante le lezioni di analisi al Politecnico: scegliemmo quello che ci sembrava particolarmente brutto». Nessun riferimento alle “storie tese” degli Skiantos? «Forse avevo sentito il loro disco, però io pensavo ai milanesi, sempre schizzati. Tesi, appunto». C’era rivalità con loro? «Adesso si può anche dire: era un gioco molto tra noi, una guerra tra bande rivali». Una volta avete suonato insieme e Freak Antoni vi ha sfidato a mostrare le chiappe al pubblico. «Cosa che abbiamo fatto con soddisfazione: Freak era un genio. Tornando a Milano, ai nostri esordi c’era molto fermento e locali in cui suonare: il Magia, il Tangram, le Scimmie, lo Zelig. C’era pubblico e la possibilità di mettersi in luce ». Pagavano? Faso: «Agli inizi una pizza e una birra. Piccola». Elio: «In un posto che si chiamava “Il mulino della frega” volevano menarci. Cantavamo Alfieri un testo che finisce con “siamo una banda di bastardi/ stasera ad esempio noi incassiamo/ e voi ve la picchiate dentro al...” si può dire culo sulla Domenica di Repubblica? ». Quanti anni avevate? «In media tra i venti e i trenta. L’età in cui i genitori cercano di dissuaderti dal fare il cantante». Cesareo: «Infatti io ho fatto undici anni da impiegato ». Elio: «Io ero studente fuori corso a ingegneria». Faso: «Io a filosofia». Cesareo: «Tu facevi le squadre del Subbuteo». Elio: «Non lo abbiamo considerato un lavoro vero fino al secondo disco: duecentomila copie vendute. Era dura: suonavi e poi al mattino dovevi prendere un treno all’alba e andare a lavorare. Mi ricordo che dicevo: “Madonna, speriamo che vada bene così posso fare solo il musicista. Anche se poi scopri che non è che, come pensano molti (e allora anch’io), i musicisti non lavorino ». Oggi siete milionari? Elio: «Abbiamo sempre sbagliato i tempi e, per esempio, quando ci fu il nostro maggior successo sanremese non avevamo il disco pronto e quindi anche noi come cantavamo in Alfieri... E oggi che i dischi non si vendono più bisogna inventarsi mille cose per sopravvivere: teatro, tv. Rimaniamo un gruppo di nicchia». Alla fine avete vinto o no il Sanremo 1996 con La terra dei cachi? Elio: «Non l’abbiamo capito: sono stato interrogato dal giudice e mi hanno detto che eravamo arrivati primi. Poi ho parlato con Tosca (Ron e Tosca sono stati i vincitori ufficiali di quell’edizione, ndr) e anche a lei avevano detto la stessa cosa. Quindi boh...».
Flash forward. Roma, il giorno dopo. In un hotel vicino alla stazione Rocco Tanica mi fa ascoltare una puntata del suo surreale Tg Tanica per la trasmissione di Raidue Quanto manca . Parliamo del nuovo disco che esce il 25 novembre: «Sono ben tre cd. Più un dvd con tutti i nostri videoclip e piccole chicche. Come le estenuanti sessioni di trucco quando ci siamo travestiti da Rockets o le registrazione del 1992 con il celebre Coro delle voci bulgare che diede origine al Pippero». Le signore erano consce di quello che stavano cantando? «Assolutamente sì». Tu sai per caso da dove viene il nome Elio e le storie tese? «Elio ha sempre dato risposte diverse e a volte contrastanti. Una volta ho cercato di farmi bello dando una spiegazione per come la sapevo da lui, alla fine mi si avvicina: “Ti devo confidare che non è così: il vero motivo non l’ho mai detto”. Quindi a tutt’oggi io non lo so». Forse neppure Elio.
Luca Valtorta, la Repubblica 23/11/2014