Thomas Baldwin, la Repubblica 23/11/2014, 23 novembre 2014
IL GIORNO DELLA CIVETTA EDIM R. BALDWIN
[Intervista a Leonardo Sciascia] –
Leonardo Sciascia, il titolo del suo libro, Il giorno della civetta , risulta un po’ strano.
Lo storico Mack Smith si è chiesto se gli italiani stessi possano capirlo, anche se l’epigrafe è tratta dall’ Enrico V-I. Come spiega lei quel titolo?
«Quando uno ha difficoltà a trovare un titolo può aprire a caso o la Bibbia o Shakespeare, e lo trova. Io ho fatto l’operazione con Shakespeare ed è venuta fuori questa frase: “come la civetta quando il giorno compare”».
«La civetta è un animale notturno, invece questa specie di società segreta che è la mafia, una società diciamo notturna, in Sicilia agisce di giorno».
Il titolo è quindi una chiave di lettura? Un titolo importante?
«I titoli sono sempre importanti, e questo mi pare che dia anche misteriosamente e ambiguamente il senso del libro. La civetta, animale notturno, diventa animale diurno, in Sicilia: una metafora. Il giorno della civetta coglie la mafia nel trapasso, da mafia di campagna, mafia rurale, a mafia urbana. È stato scritto nel momento in cui la mafia attraversava questa evoluzione. Ora l’evoluzione c’è già stata: il tipo don Mariano Arena-Genco Russo, non esiste più. Oggi il capomafia è una specie di burocrate».
Se lei dovesse aggiungere qualcosa, diciannove anni dopo aver scritto il libro, cosa aggiungerebbe?
«Non aggiungerei nulla, non cambierei assolutamente nulla di quello che ho scritto allora, perché la mafia esiste ancora con la stessa struttura di allora: anzi il fenomeno si è allargato ed è arrivato al Nord Italia. Il sistema mafioso ormai vige in tutta Italia».
Non c’era allora la speranza che le cose, in Sicilia, fossero cambiate dopo il tentativo di repressione da parte di Mori?
«Sotto il fascismo la repressione di Mori funzionò perché due mafie non potevano convivere. Il fascismo è una specie di mafia, una mafia “grande” non poteva tollerare la minore. Con la caduta del fascismo e con l’arrivo degli americani, la mafia è risorta».
La mafia riuscirà a sopravvivere?
«Mah, fino ad oggi, sopravvive».
Nelle sue opere lei insiste sulla storia, e mette molta cura nel verificare i fatti attraverso i documenti del tempo. La storia come tema non è ancora presente nel Giorno della civetta.
«Non è un libro propriamente storico. Però è un libro in cui si raccoglie tanta storia, insomma. È un presente che è spiegato da tanto passato. Si muove sulla cronaca, direi. Però anche la cronaca è destinata a diventare storia. La cronaca è storia in potenza, in fieri. Domani sarà storia la cronaca di oggi».
Pensa ai riferimenti al fascismo, al prefetto Mori, al separatismo e a ciò che rappresentava a quel tempo?
«Sì, ci sono riferimenti alla storia recente della Sicilia, che va dal fascismo al dopoguerra, al rinascere dei partiti, all’aggregazione, dentro questi partiti, della mafia, che prima era stata separatista, e poi è diventata democristiana. E la mafia che prima puntò sul separatismo e poi puntò sulla Democrazia cristiana, capì che l’avvenire sarebbe stato della Dc, del partito dei cattolici. Dapprima la mafia, con la protezione degli Stati Uniti, pensò che la Sicilia si potesse separare dall’Italia e quindi fu separatista. Quando invece, dopo l’arresto dei due leader del separatismo, la mafia si accorse che lo Stato italiano viveva ancora, e che era il vecchio Stato unitario, allora passò alla Dc».
Lei scrive che la Sicilia “è tutta una fantastica dimensione: e come ci si può star dentro senza fantasia”. Quale senso hanno le parole fantasia e fantastico legate alla sua isola?
«Nel senso che è una realtà difficile ad afferrarsi, difficile a porsi in termini reali. C’è come una follia e ne ha parlato anche Lampedusa, di questa follia. La Sicilia è inverosimile, in un certo senso: è vera, ma è inverosimile».
Ma di quali verifiche dispone lei?
«Nella vita stessa siciliana, nel modo come si è svolta la stessa storia siciliana per secoli c’è dell’inverosimiglianza. È inverosimile la sopravvivenza di questo popolo, con tutto quello che ha subito. Eppure sopravvive, è sempre vivo».
È per questo che ha scelto di contrapporre il capitano Bellodi ai vari rappresentanti della mafia?
«Sì, Bellodi rappresenta per me il simbolo dell’Italia che esce dal fascismo con una coscienza antifascista, con la coscienza di volersi rinnovare, rappresenta il simbolo della Resistenza».
E perché Bellodi è un carabiniere dell’Italia settentrionale?
«Era un’idea, un’idea di Parma, molto antifascista, molto resistenziale. Non è un personaggio, è un’idea».
Lei condivide l’idea che alla fine niente si può cambiare?
«Difatti non è cambiato niente dal 1961 ad oggi. Nel 1973 hanno pubblicato gli atti della Commissione parlamentare antimafia che sono un esercizio di filologia».
Il giorno della civetta è un giallo?
«Sì, e l’adopero naturalmente questa tecnica. Amo uno scrittore come Graham Greene perché adopera sempre questa tecnica del giallo, anche quando parla di drammi interiori. Ma l’adopera anche Dostoevskij. Praticamente tutti gli scrittori che si fanno leggere hanno, in certo modo, adottato la tecnica del giallo. Io l’ho fatto sempre».
È anche un giallo impossibile?
«Lei vuol dire un giallo senza soluzione? Poiché il giallo comporta sempre una soluzione. Invece nei miei non ce n’è. Sul piano dell’intelletto sono soddisfacenti e insoddisfacenti al tempo stesso. Lì ci vuole anche un po’ di ironia, perché il giallo, in effetti, quando si arriva alla fine dà soddisfazione. Però al tempo stesso si rimane insoddisfatti perché cessa con la soluzione l’interesse: è finito. Il giallo senza soluzione poi è insoddisfacente del tutto perché ci lascia nel dubbio. Come andrà a finire? Però questo è un libro che serve ancora per il fatto stesso che non esiste soluzione».
Nel Giorno della civetta chi ha commesso il delitto lo si sa abbastanza presto. Continuare il racconto è una questione di tecnica, quindi?
«Ho continuato con la tecnica del poliziesco. Solo che non finisce con la soddisfazione di assicurare il colpevole alla giustizia».
In questo senso si potrebbe parlare di pessimismo?
«Sì, questa è una forma di pessimismo. Il giallo si segue con interesse perché si vuole sapere come va a finire. Nei gialli – diciamo così – che scrivo io non si va a finire».
Dalla descrizione dell’ambiente locale si può allargare il discorso del potere alla corruzione nazionale o internazionale?
«In quel momento a me interessava dare una rappresentazione della mafia siciliana per un motivo di polemica, di denuncia, di dovere civile, da cittadino siciliano che vuole reagire a questo fenomeno e ne fa una denuncia. Ma con gli anni questo è diventato metafora del potere. Per me è difficile dire cosa io intendessi, diciannove anni fa, quando lo scrissi, direi al di fuori della denuncia. Ma ora vedo che il libro può essere letto in una chiave in cui si può riconoscere un francese, un inglese, e magari un americano. Allora, per me quello che era un problema limitato alla realtà siciliana con gli anni è diventato un’altra cosa. Questa è la sorte di tutti i libri. Per parlare di un grande esempio credo che effettivamente Cervantes quando scrisse il Don Chisciotte intendesse fare la satira di questo mondo che si infatuava delle storie cavalleresche. Ma con gli anni quello è diventato il libro dell’anima spagnola, ed è diventato una favola, un emblema di un mondo ideale. Il chisciottismo è diventato come una persecuzione, una ricerca di idealità. Ho fatto il paragone per dire che cosa è un libro, e che cosa diventa al di là delle intenzioni dell’autore».
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Thomas Baldwin, la Repubblica 23/11/2014
IN OCCASIONE DEL VENTICINQUENNALE DELLA MORTE DI LEONARDO SCIASCIA (RACALMUTO 1921-PALERMO 1989) ADELPHI PUBBLICA IL TOMO I (“INQUISIZIONI E MEMORIE”) DEL VOLUME II DELLE SUE OPERE (A CURA DI PAOLO SQUILLACIOTI, 1432 PAGINE, 75 EURO).